Il nuovo anno 2021 è appena cominciato e ci trova più connessi che mai. Chi sta leggendo questo Editoriale è uno dei 4 miliardi e 700 milioni di esseri umani che hanno accesso alla rete, su oltre 7 miliardi e 800 milioni di abitanti del pianeta. Poco più della metà della popolazione mondiale è oggi attiva sui social network e impiega uno smartphone per comunicare, prendere decisioni, organizzare la propria giornata, acquistare, intrattenersi e, vogliamo crederlo, anche per documentarsi e studiare. Quando 50 o 60 anni fa immaginavamo il futuro, ai meno giovani di noi veniva subito in mente una maggiore facilità negli spostamenti, nuovi mezzi di trasporto, magari nuove forme di propulsione aerea individuale e personalizzata che ci avrebbero consentito di volare con zainetti a reazione e atterrare sulle terrazze di edifici di nuova concezione. Strade e automobili sembravano destinate a cedere il passo a nuovi e più rapidi modelli di trasporto. In realtà il futuro ci ha spiazzato. Abbiamo imparato a far correre le informazioni senza bisogno di spostarci noi, o facendolo assai meno di quanto ritenevamo fosse necessario. In pochi decenni abbiamo cablato il pianeta di fibre ottiche ad alta velocità, ricoperto le città di antenne e ripetitori, collocato in orbita migliaia di satelliti che tessono la rete delle nostre comunicazioni terrestri. Negli anni ’70 del secolo scorso qualcuno sperava che nei primi decenni del 2000 avremmo già comunicato con qualche civiltà extra-terrestre, ma non immaginava che avrebbe potuto parlare in video-chiamata, a costo quasi zero, con ogni parte del pianeta.
Da quando Homo sapiens cominciò a comunicare mediante fonemi con i suoi vicini di tribù per organizzare battute di caccia coordinate sono trascorsi poco più di 100.000 anni. La crescita delle forme di comunicazione, espressione progressiva della natura relazionale dell’essere umano, è stata, negli ultimi decenni, esponenziale. È sorprendente anche solo pensare cosa oggi possiamo realizzare grazie alla rete. Con un semplice smartphone, collocato in un taschino, possiamo partecipare in audio/video a riunioni internazionali che si tengono dall’altra parte dell’oceano, comandare elettronicamente dispositivi a centinaia di chilometri di distanza, seguire una lezione tenuta in una prestigiosa università, trasferire denaro da una banca all’altra, fare la spesa, conoscere (forse con meno successo) la percentuale di precipitazioni piovose previste per dopodomani.
Quando parliamo di facilità e di progressi nelle connessioni e nella condivisione dell’informazione, è vero, siamo portati a pensare con certa frequenza anche a rischi e a scenari dai risvolti problematici: controllo indesiderato della privacy, deleghe a strumenti sofisticati perché decidano al nostro posto, un’enorme facilità nel propagare informazioni false o poco accurate, possibilità di generare trends incontrollati, inquietanti simbiosi fra cervello umano e microprocessori… Non dovremmo però dimenticare il bene e gli aspetti positivi che questa svolta epocale, di fatto irreversibile, reca con sé quando gestita con saggezza e guidata da un ideale di promozione e di servizio. Proprio la recente crisi sanitaria, con tutto ciò che ha implicato e tuttora implica, ci ha fatto per un momento intravedere i vantaggi e le potenzialità presenti in un mondo connesso. È vero, un mondo più connesso, come un’automobile ad alta velocità, può sfuggirci di mano e divenire assai più difficile da governare; però, ben governata, la velocità ci porta più in fretta a destinazione, ci consente di arrivare in tempo all’appuntamento con la storia.
Se un nuovo anno è il momento in cui formulare qualche desiderio e sognare un po’, allora proviamo a immaginare cosa accadrebbe se l’umanità potesse meglio comunicare; anzi, se potesse far comunicare tutti. Gli abitanti dell’Africa sub-sahariana potrebbero seguire lezioni di alfabetizzazione e di qualificazione professionale a distanza, apprendere modi per sviluppare l’economia e la cooperazione fra lavoratori. La prima istruzione potrebbe essere impartita a chiunque lo desiderasse, in ogni luogo del pianeta. L’assistenza sanitaria raggiungerebbe più facilmente villaggi ed aree isolate dei Paesi in via di sviluppo, consentendo ad anziani e malati di monitorare il loro stato di salute, comunicare oralmente e visivamente con medici e assistenti, mentre un buon samaritano potrebbe sempre farsi prossimo a chi attraversa momenti di difficoltà. La cultura non sarebbe più confinata nelle aule delle grandi università del Primo mondo, ma giungerebbe a tutti gli abitanti della terra che volessero accedervi. Chiunque potrebbe visitare il Louvre o i Musei Vaticani, avvalendosi di spiegazioni che aiuterebbero a far apprezzare i tesori che vi si custodiscono. Le risorse del pianeta sarebbero più facilmente localizzate e meglio distribuite, la collaborazione fra i singoli favorita e ottimizzata. Ma anche giovanissimi intraprendenti – come accaduto alla quindicenne Gitanjali Rao, nominata da Time “kid dell’anno” – potrebbero elaborare Apps al servizio di tutti, con creatività e senso sociale.
Eppure, proprio mentre passiamo in rassegna queste possibilità, ci rendiamo subito conto che non è la maggiore connessione, da sola, a poter realizzare tutti questi obiettivi. C’è bisogno di qualcosa di più. Non ci riferiamo solo a qualcosa di strutturale, come la necessità di superare una logica di mero profitto e di commercializzazione, che vede nei connessi dei semplici consumatori e la rete come un ipermercato; né ci riferiamo solo all’importanza di suscitare governanti illuminati che non compromettano i programmi di promozione umana e sociale con la loro corruzione o incompetenza. Vogliamo qui riferirci alla “forma” della carità, all’amore per l’altro, che “informando” lo sviluppo tecnico e le intenzioni dei singoli può compiere il miracolo di tras-formare la connessione in relazione, la community in comunità. La connessione è una condizione necessaria, ma non sufficiente, perché la terra divenga una casa comune e il genere umano una famiglia.
Ed è così che accediamo ad una riflessione etica più alta. Se chi guida il progresso e orienta le scelte sociali ha il compito di segnalare i pericoli da evitare, questi non riguardano solo i contraccolpi indesiderati della connessione, per contrastare i quali ci si affretta a introdurre correttivi e protocolli. Il vero pericolo è pensare che la connessione basti. Ritroviamo questa idea nella recente enciclica di Francesco, Fratelli tutti (2020), dove il vescovo di Roma avverte che l’essere più vicini non ci rende ancora fratelli. «Ci siamo ingozzati di connessioni – egli afferma – e abbiamo perso il gusto della fraternità […]. Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà» (n. 33). «La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità» (n. 43). Francesco sembra dirci che il sogno di un’umanità nella quale tutti possano accedere alla rete e alle sue risorse potrà realizzarsi solo se sapremo vedere nell’altro un fratello e se cominciamo a ragionare come membri della stessa famiglia. Occorre che sulla rete non viaggino solo i beni di consumo ma anche, e soprattutto, beni relazionali.
La scienza e il progresso tecnico-scientifico offrono le condizioni affinché il genere umano possa diventare un’unica famiglia, più solidale, più responsabile. È questo il programma del cristianesimo, che considera la comunità dei credenti, la Chiesa, come il sacramento dell’unione di tutto il genere umano, e del genere umano con Dio (cf. Lumen gentium, n. 1). Per realizzare questo programma la scienza non rappresenta un ostacolo, bensì un aiuto. Possiamo chiamare in molti modi questo progetto, non certo automatico, ma affidato al responsabile esercizio della libertà e della carità: Teilhard de Chardin lo vedeva nel progresso inarrestabile della noosfera, con la sua crescente e più intensa trama di relazioni che tendono verso il Punto Omega; san Paolo presenta l’immagine di un solo, unico popolo, conquistato dal sangue di Cristo; è la realtà mistica di un Corpo, il corpo di Cristo, che unisce in Sé membra diverse. È un progetto che conosce successi e insuccessi, fallimenti e speranze, incertezze e rilanci. Perché il Regno non ha compimento sulla terra, sebbene ogni mattone di quel Regno venga costruito nella storia e attraverso il lavoro umano. Così esorta ancora Francesco: «Il numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri» (n. 96).
L’anno appena concluso, con le difficoltà dell’emergenza sanitaria che ha duramente provato tutto il pianeta, ci ha insegnato che le enormi risorse della tecnologia, della scienza, dell’informatica e della logistica, orientate oggi soprattutto in sempre più sofisticate applicazioni belliche o in contesti di profitto e di speculazione commerciale, sarebbe stato bene indirizzarle per tempo ad assicurare la salute di tutti, l’equa distribuzione delle risorse, la convivenza pacifica. Siamo ancora in tempo per farlo. È l’augurio che ci facciamo per il 2021. Il nuovo anno non ci veda solo più connessi, ma anche più in relazione, e per questo più fratelli.