La pandemia ha prodotto una profonda mutazione anche nell’istituto universitario: l’introduzione della didattica a distanza e l’uso massiccio delle tecnologie informatiche hanno rappresentato un modo per salvare il salvabile, si potrebbe dire. In un certo senso, è proprio così: la chiusura forzata di tutte le attività ha costretto il mondo dell’istruzione ad imboccare questa direzione per sopravvivere durante l’era dei lockdown alternati. Ma le criticità dettate dal prolungamento dello stato d’emergenza hanno messo in allarme i non pochi acuti osservatori che, con sguardo critico, si sono interrogati sull’Università, sulla sua funzione, sulla sua specificità, su cosa la renda così importante, e su cosa c’è che non va con le attuali soluzioni digitali per il proseguimento dell’attività didattica.
Il primo a rompere il silenzio e ad inaugurare il dibattito è stato Giorgio Agamben il quale, denunciando «la barbarie tecnologica», «la cancellazione della vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo», nonché la «fine dello studentato come forma di vita», per non parlare della «ignoranza specialistica», ha sganciato una bomba su un terreno, quello dell’Università, che è sempre stato trascurato non solo dai politici ma anche dagli addetti ai lavori. Non poche sono state le reazioni, la maggior parte delle quali contrariate da una simile messa in discussione del “nuovo che avanza”, tra tecnologie progredite, software innovativi e una – per l’appunto – iper-specializzazione immediatamente spendibile sul mercato del lavoro. C’è stata però anche una consapevolezza montante, uno sguardo critico che si è fatto largo tra ricercatori e intellettuali. «Agamben ha pienamente ragione», scrive Federico Bertoni (Università di Bologna), «dobbiamo prendere partito, stanare tutti dalla zona grigia. [... Ma] non dobbiamo scegliere tra il digitale e il giurassico, tra la servitù volontaria e il ribellismo anarchico, ma tra due diversi modelli di università (e di società)».
Eccoci al punto. Si scontrano oggi due visioni del mondo. E l’Università sembra essere il terreno di battaglia. «La gestione dell’emergenza», dice Luca Illetterati (Università di Padova), «è oggi una questione che certo attiene norme sanitarie e soluzioni amministrative, ma è già, e sarà sempre più, questione squisitamente politica, ovvero questione che riguarda il significato attraverso cui pensiamo le nostre vite e il nostro essere comunità». Perché è questo il valore oggi messo in discussione, o meglio rivisitato e proposto in termini “aggiornati”, e cioè la comunità. Il nostro tessuto di connessioni reali, di relazioni spontanee, di rapporti vivi.
Si dice: le tecnologie ci permettono di insegnare a distanza e di apprendere direttamente dalle nostre case. Vero. Ma è una riflessione, questa, formulata senza tenere in considerazione un fattore importante, vale a dire l’immediata reperibilità, proprio grazie ad Internet, di tutte le informazioni che vogliamo. Se si continuasse il ragionamento lungo questo crinale, pertanto, si giungerebbe alla conclusione che le Università sono oramai vetuste, inutili vessilli di una preistoria pre-tecnologica. Al contrario – questa è la riflessione di Emanuele Conte (Università Roma Tre) –, proprio poiché qualsivoglia nozione è ormai reperibile in pochi secondi in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, «quello che conta è saper porsi le domande giuste e organizzare adeguatamente le risposte, e per questo è necessario educare al senso critico e a selezionare le informazioni necessarie per risolvere i problemi. E queste sono abilità che si ottengono con l’esperienza della vita universitaria: si possono insegnare e apprendere, ma non trasferire». Ritorna qui prepotente l’esperienza di vita, la concretezza (opposta alla virtualità) delle relazioni, la connessione vitale che si instaura per il tramite dello sguardo e della condivisione di uno stesso spazio fisico. L’esperienza educativa in presenza è veramente collettiva, ove per “collettiva” si può intendere anche il semplice rapporto maestro-discepolo. Ma se si perde di vista questo punto, ecco che rimane solo «un trasferimento di informazioni individuale», come scrive Eugenio Coccia (Gran Sasso Science Institute de L’Aquila), con la conseguente concezione dell’uomo come recipiente da colmare di nozioni e da rendere unicamente appetibile per il mercato del lavoro – nella dimenticanza dei valori fondamentali di una società veramente umana, ad esempio la libertà, il pensiero critico, la riflessione sulle cause ultime, la consapevolezza politico-democratica.
Stessa riflessione è condotta da Tomaso Montanari (Università per Stranieri di Siena), il quale insiste sul fatto che la funzione dell’Università «non è rovesciare contenuti nella testa di uno studente (magari usando lo schermo del tablet come un imbuto), non è preparare ad una professione né rilasciare un titolo né valutare gli studenti: ma è quella di insegnare il pensiero critico». La pericolosità di una eventuale normalizzazione della didattica a distanza è un rischio, questo sì, collettivo, dacché non ci sarebbero più cittadini veramente consapevoli, critici e informati, bensì meri esecutori di un dato mestiere al quale sarebbero stati fin dall’inizio destinati. E a fare i conti con questa situazione sarebbe poi la società intera.
Il destino di un’Università totalmente telematizzata è quello di diventare un distributore di diplomi e lauree. «Ma siamo sicuri che l’utilitarismo delle “competenze” sia più importante della conoscenza in sé?», si domanda Nuccio Ordine (Università della Calabria). L’esperienza umana e intellettuale che si fa nei luoghi fisici dell’Università non è solo un mezzo ma anche uno scopo in sé. Continua Ordine: «Ridurre questa esperienza a una relazione virtuale significherebbe trasformare l’istruzione in uno sterile mercato di lauree e diplomi e gli studenti in clienti da fidelizzare» – con la conseguente relativizzazione non solo delle diverse università ma anche degli stessi professori, le cui lezioni registrate potrebbero essere fruite da tutti, «con un sapere somministrato in pillole, anzi erogato (ormai si dice così), secondo una equiparazione del docente a un rubinetto o a una pompa di benzina», chiosa Antonio Violante (Università degli Studi di Milano).
La centralità del rapporto umano nell’insegnamento è dunque ribadita da molti, e sembra costituire la centralità dell’Università quale luogo fisico e comunitario. Il contatto fisico, lo sguardo rapido o prolungato, lo spazio condiviso, i luoghi vissuti, il caffè scambiato con il professore e con gli altri colleghi, tutto questo sembra accomunare molti professori intorno alla visione sull’insegnamento. Ma questi professori non sono di certo antiquati o tradizionali(sti), come potrebbero dire alcuni. Walter Lapini (Università di Genova) delinea uno scenario prossimo scrivendo che «già si profila per la scuola l’ennesima sfibrante battaglia: dover dimostrare che opporsi alla trasformazione dell’emergenza in normalità non significa essere misoneisti, giapponesi attardati nella giungla, nemici delle nuove tecnologie». Nessuna lotta tra il nuovo e il vecchio, termini che nel linguaggio moderno hanno assunto un significato carico di un valore (o disvalore) ben preciso: il nuovo è acriticamente meglio di ciò che c’era prima. Luciano Canfora scrive che la didattica a distanza è «palesemente un disagio del quale liberarsi quanto prima, mentre c’è chi invece teorizza che si sia aperta una prateria di cose meravigliose». Per Alberto Melloni (Università di Modena-Reggio Emilia) «il sapere si costruisce solo nella relazione» e «l’aula è il luogo in cui si formano scienza e coscienza critica», ove invece il nuovo paradigma «demotiva la vocazione dell’insegnante perché gli dice che un video scaricabile e un po’ di tecnologia interattiva può rimpiazzare la maieutica educativa del “corpo (del) docente”».
Sembra che la dematerializzazione e la delocalizzazione delle attività universitarie segua una «logica economica-aziendale fondata sui criteri dell’efficienza, del minor costo,della produttività, del gradimento sociale, ecc.», denuncia Carlo Fantappiè (Università Roma Tre). La ridefinizione della natura dell’Università procede ormai da diverso tempo ed è una conseguenza dell’«economia del capitalismo avanzato»: dapprima furono le attività economiche a subire il processo di delocalizzazione, di divisione delle fasi del lavoro e di separazione fisica tra lavoratori e dirigenti; ora la stessa sorte tocca alle attività legate al mondo dell’istruzione. La frammentazione disgrega le comunità che vieppiù definiscono le identità della persona. Il rischio è lo sfilacciamento delle ultime sacche di resistenza comunitaria in un mondo tecnologicamente iperconnesso ma umanamente sfibrato. La condivisione sembra essere l’unica via per venir fuori dall’aporia. Ma quali forme assumerà nel prossimo futuro? La fuoriuscita dall’emergenza sanitaria permetterà di delineare una (nuova?) strada da percorrere, si spera, tutti insieme.