Centocinquanta anni fa nasceva a Livorno il matematico Federigo Enriques (1871-1946), forse l’unico e ancora ineguagliabile “scienziato-filosofo” italiano del Novecento paragonabile ad altre figure del genere presenti in diversi paesi europei come prima i più famosi Poincaré, Duhem, Mach e dopo Einstein, Bohr, Teilhard de Chardin e Heisenberg, solo per citarne alcune, i cui scritti si stanno rivelando sempre più vere e proprie risorse per il pensiero in generale in un momento come quello odierno impegnato, come si cerca di fare da più parti, ad una “riforma del pensiero” e a fornire dei modelli di razionalità più allargata; pur chiamate tali già un secolo fa dallo storico della filosofia Harald Høffding per essersi impegnate sia sul versante scientifico che filosofico col dare notevoli contributi alla nascente filosofia della scienza, le figure di “scienziati filosofi” non hanno ricevuto in genere un’adeguata attenzione. Eppure molti di essi ci hanno fornito dei percorsi aperti alle diverse dimensioni dell’umano al di là della prospettiva positivistica. Come Albert Einstein che Enriques cercò di far venire in Italia sul finire degli anni ’20 per coprire una cattedra di Fisica, occasione mancata per diretta opposizione del capo dell’allora governo, il matematico livornese si è distinto per aver prodotto, contestualmente ai lavori scientifici nel campo della geometria algebrica, una ricca mole di studi di carattere storico-epistemologico. Nel 1907 fonda la Società Filosofica Italiana (SFI), un contributo anch’esso ignorato nelle storie della filosofia come ad esempio nelle Cronache di filosofia italiana di Eugenio Garin e non solo.
L’aspetto “militante” in campo filosofico, scientifico e didattico e soprattutto il dare inizio ad un’organica proposta di “filosofia scientifica”, come allora veniva definito un impegno del genere nei primi Congressi Internazionali di Filosofia a partire da quello di Parigi del 1900 sino a quello organizzato dallo stesso Enriques a Bologna nel 1911, furono particolarmente avversati nel panorama culturale italiano, dove era in atto più che altrove la reazione idealistica contro la scienza protrattasi, com’è noto, per tutta la prima metà del ‘900; tale situazione determinò la sconfitta del progetto enriquesiano incentrato in maniera programmatica sui strutturali rapporti tra scienza e filosofia all’interno di una prospettiva non più positivistica, progetto a cui stavano lavorando in Europa diverse figure col dare vita a riviste, movimenti e tradizioni di ricerca orientati in tal senso. Solo dagli anni ’80 si assiste ad una vera e propria Enriques-Renaissance grazie al fatto che ormai anche in Italia si stavano consolidando, sia pure con ritardo rispetto agli altri paesi, la filosofia della scienza e la storia delle scienze come discipline autonome; in tale contesto si registra la ristampa di alcuni suoi lavori con la ripresa di interesse da parte di giovani studiosi non solo italiani, tale da far dire a Ludovico Geymonat che “il vinto di allora è il vincitore di oggi” per l’importanza assunta a livello internazionale da tali discipline che erano saperi in via di costituzione nei primi decenni del ‘900, quando Enriques ne stava dando i primi significativi contributi in una non comune ottica d’insieme.
Ma già con la traduzione in diverse lingue della prima opera epistemologica come i Problemi della scienza del 1906, recensita tra gli altri da Moritz Schlick nel 1911 e tenuta presente dallo stesso Popper nei giovanili scritti sulla geometria, il suo pensiero diventò un punto di riferimento per diverse tradizioni di ricerca come quella neopositivistica e quella francese in particolar modo, mentre in Italia pur riconosciuto come un matematico di primo ordine tale poi da essere invitato solo negli anni ‘30 dallo stesso Giovanni Gentile, che lo aveva prima duramente avversato, a curare le “Voci” di Matematica per l’Enciclopedia Italiana, rimaneva pur sempre il “matematico Enriques”; e continuava ad essere considerato negli ambienti crociani con l’espressione vichiana un “ingenio minuto”, un dilettante cioè con delle velleità filosofiche e per lo più confuso con quelle figure che avevano dato origine al movimento positivistico, come del resto in genere erano ritenuti tali gli scienziati non in grado di produrre pensiero tout court.
Per tali motivazioni da più parti si è parlato di vero e proprio “caso Enriques” per la situazione che venne a determinarsi in Italia nei suoi confronti, per poi essere molto più conosciuto e studiato all’estero sul versante epistemologico ed isolato e messo da parte sul terreno filosofico italiano dove più che in altri paesi si era consolidata la frattura tra discipline umanistiche e discipline scientifiche; tale scissione era considerata drammatica non solo sul piano delle idee, ma anche della stessa vita per le divisioni ideologiche e “particolaristiche” che ne scaturivano per lo “scienziato-filosofo” livornese che si impegnò con tutte le sue forze a superare col mettere al centro del suo progetto una strategia più in grado di cogliere in una visione di insieme il pensiero umano. Non a caso, dopo la reputazione a livello europeo acquisita nel primo trentennio del secolo, alcuni recenti interpreti non italiani lo considerano degno di far parte del Pantheon della cultura internazionale; e rimangono altresì colpiti dal fatto che in Italia sia ancora in genere una figura poco nota nonostante, ad esempio, lo scrittore Paul Valéry negli anni ‘20-‘30, come risulta dai suoi Cahiers, fosse fiero nell’incontrarsi spesso con lui per discutere delle rispettive “eresie” a Parigi dopo la prima guerra mondiale, dove del resto era diventato di casa soprattutto nella Société Française de Philosophie sino a dirigere collane editoriali e scrivere in riviste come la Revue de Métaphysique et de Morale.
Alcune di queste “eresie”, anche se sono state intraviste ma non adeguatamente capite dai protagonisti del Circolo di Vienna che daranno vita nel 1928 al Manifesto di filosofia scientifica dove il nome di Enriques compare insieme a quello di Peano come un precursore, furono oggetto di approfondimento e di sviluppo in ambito francofono come in primis da parte del più noto Gaston Bachelard; altre figure meno note e vittime del nazismo, come il filosofo della matematica Albert Lautman (1908-1944) ed Hélène Metzger (1889-1944), ma anche lo svizzero Ferdinand Gonseth (1890-1975), fecero loro in pieno il progetto filosofico-scientifico enriquesiano sino a vedervi un’alternativa alla nascente filosofia della scienza di impianto logico-analitico; tale filone di pensiero si affermò nella comunità filosofica grazie ai Congressi Internazionali di Filosofia Scientifica di Parigi del 1935 e del 1937, dove Enriques, prima di essere in Italia allontanato dall’insegnamento per le sue origini ebraiche, fu il presidente onorario con relazioni introduttive e dove enucleò anche le prime riserve verso tale orientamento col parlare della necessità di una “nuova epistemologia dai fondamenti storici”, posizione poi emersa, com’è noto, negli anni ’60 con le cosiddette epistemologie storiche anglosassoni ed al centro successivamente di ulteriori sviluppi alcuni dei quali in corso.
Ma tali eresie come l’epistemologia dai fondamenti storici, per usare il termine di Valéry, o linee concettuali di fondo sono emerse grazie al fatto, come dice lo stesso Enriques nella prefazione ai Problemi della scienza, che nello sviluppare le strutture portanti della geometria algebrica ha dovuto fare i conti con quello che chiama “travaglio dei concetti” presente in quelle figure di matematici considerate “geometri-pensatori” come Gauss, Galois, Riemann, Helmholtz, Grassmann, Klein e Poincaré e poi in altri scritti successivi veri e propri esempi di “intelletto scientifico e filosofico” al lavoro; in tal modo vengono gettate le basi di un percorso dove la riflessione filosofica è ritenuta implicita, come affermerà anche in seguito in Scienza e Razionalismo del 1912, nelle forme storiche assunte dalle diverse scienze, le cui dinamiche o “processi di cambiamento” possono meglio essere capiti se inseriti all’interno di una storia del pensiero più in generale in grado di offrirne chiavi di lettura più adeguate e meno riduttive. Nei Problemi della scienza, opera il cui titolo già di per sé è indice di una visione non più cumulativa in senso positivistico della conoscenza scientifica, irrompe con tutta la sua forza teoretica il senso della storicità delle strutture portanti dello stesso “impero granitico” delle matematiche, come lo chiamerà qualche anno più tardi un’altra non secondaria figura di “scienziato-filosofo” come Hermann Weyl proprio sulla sua scia.
Viene così a configurarsi da parte di Enriques già nei primi decenni del secolo una vera e propria strategia cognitiva in grado di cogliere ad esempio che il colpo inferto da parte di Riemann alla verità matematica con la nascita di una delle diverse geometrie non euclidee non era da considerarsi un suo evento patologico, come ancora il gruppo di matematici bourbakisti riunitisi sul finire degli anni ‘30 continuerà a sostenere, ma un passaggio decisivo di crescita da un modello di razionalità chiuso ad un modello aperto con possibilità di accedere anche ai diversi livelli del reale fisico, come quello relativistico. Il confronto critico con le novità concettuali emerse soprattutto nell’ambito del pensiero matematico lo ha portato ad un contestuale lavorio di tipo riflessivo sui “principi della geometria” e sulle modalità con le quali sono stati acquisiti e soprattutto cambiati e ristrutturati in seguito all’avvento delle geometrie non euclidee; per questo, sulla scia kantiana, si ritiene sempre più necessario un impegno teoretico in grado di cogliere la nuova dimensione pienamente filosofica implicita nella struttura della conoscenza scientifica. Enriques userà prima il termine “gnoseologia critica” e poi, dopo la traduzione in francese dei Problemi della scienza nel 1909 ed i contatti sempre più stretti con l’ambiente culturale d’oltralpe dove venne a svilupparsi quel ricco fenomeno filosofico-scientifico chiamato critique des sciences, “epistemologia” col compito preciso di cogliere le diverse anime della scienza, dal “valore” conoscitivo nel senso di Poincaré al pieno valore umanistico più in generale.
Tale termine era già in uso in Francia come sinonimo di filosofia delle scienze e della conoscenza scientifica tout court, come nei dibattiti che videro protagonisti Poincaré, Russell e Hilbert ed ospitati nella Revue de Métaphysique et de Morale già in una prospettiva decisamente post-positivistica; a tale rivista, fondata nel 1893, Enriques collaborò attivamente condividendone in pieno il progetto e si ispirò nel dare vita nel 1907 a Scientia. Rivista di sintesi scientifica, stampata sino agli anni ‘70, che ospitò sin dall’inizio gli scritti dei maggiori filosofi e scienziati a partire da Planck, Curie, Einstein e Bergson per poi dare spazio negli anni ‘30 ai protagonisti della Scuola di Vienna. Ma a questo serrato e non omogeneo dibattito incentrato su quelle che chiamerà le “ragioni della scienza”, sin dall’inizio fu aggiunta una ulteriore “eresia”, dopo quella della piena dimensione filosofica della scienza, ormai da più parti nei vari paesi europei punto assodato nei primi decenni del secolo e che si consoliderà sempre di più nelle nascenti tradizione di ricerca epistemologica, la dimensione o anima intrinsecamente storica della scienza. Già delineata nei Problemi della scienza non espressamente contro la ricca letteratura convenzionalista ma contro alcune derive ed interpretazioni unilaterali di tale posizione utilizzate strumentalmente dalla nascente reazione idealistica contro la scienza, essa viene ricavata, come dirà più tardi prima nel 1915 e poi nei lavori storiografici sulla nascita della matematica greca, da un percorso unitario che va “dalla scienza alla filosofia della scienza e da questa alla storia della scienza”; il continuo sforzo militante a favore di una ragione scientifica non più chiusa in se stessa portò Enriques ad organizzare presso l’Università la Sapienza negli anni ‘20 i primi Corsi di Perfezionamento in Storia della Scienza e le Settimane di Storia delle Scienze, iniziative poi venute meno anche per lo scarso impegno da parte di altri scienziati.
Questo stretto e non comune connubio tra attività scientifica, riflessione epistemologica ed impegno storiografico, anche se è stata la causa delle molteplici incomprensioni del suo pensiero prima in ambito italiano e poi anche da parte di alcuni dei protagonisti del Circolo di Vienna, ha trovato la formulazione più organica in un’opera della maturità Il significato della storia del pensiero scientifico che, pur breve e scritta direttamente in francese nel 1934 e discussa in alcune sedute della Société Française de Philosophie dove pochi anni prima Einstein tenne diversi seminari, venne considerata da Hélène Metzger talmente densa sul piano concettuale da richiedere “un commento parola per parola”. Passata inosservata in Italia, pur tradotta nel 1936 e da noi riproposta nei primi anni di questo secolo, contiene un punto cruciale che con parole di Ludovico Geymonat si può riassumere nell’idea che scienza e storia della scienza non sono divise dalla “e”, ma “la storia della scienza èessa stessa scienza” e fare scienza significa farne la storia. In tal modo il fattore storico diventa una linea di demarcazione tra ciò che è scienza da ciò che non lo è; una conoscenza se ha una storia pur fatta di errori può definirsi scientifica, anzi come dice spesso Enriques una vera storia della scienza è un “cimitero di errori” e solo il loro attraversamento conduce ad un elemento veritativo intriso di storia conoscitiva. Ma ciò che emerge ancora da tale approccio verso il continente “scienza” è l’idea che essa nella misura in cui è e produce conoscenza, è storica perché si scontra continuamente con le stesse ragioni del reale, la cui inesauribilità conduce a ‘conoscenze discontinue qualitativamente diverse’ come dirà nei Problemi della scienza; e la comprensione critica della sua portata insieme conoscitiva e storica conduce al fatto che essa è pensiero tout court, pensée des sciences come dirà Gaston Bachelard sulla sua scia, con un pensiero specifico che ogni sano impegno epistemologico deve portare a galla.
Per queste motivazioni e senza esagerazione si può dire che Enriques è stata una delle poche voci del XX secolo che abbia dato importanza strategica alla scienza come pensiero, idea che non a caso, sulla scia di ciò che ha detto in questi ultimi anni Dominique Lecourt, è stata “la grande dimenticata sia dello scientismo che dell’anti-scienza” in tutte le loro varianti; il suo umile percorso più che trentennale orientato in tal senso ha combattuto da una parte le varie filosofie affette da quella che già prima Kant chiamava “misoginia” nei confronti della scienza. Ma dall’altra ha ritenuto dannose ed insensate le visioni scientiste di certo positivismo ottocentesco e di quello che chiamava il conseguente “particolarismo metodologico”, dove si dava esclusiva importanza ad un modello ritenuto assoluto per mancanza di senso storico adeguato e dove non c’era spazio al dialogo tra discipline e conseguente apertura alle altre dimensioni umane a partire da quella religiosa. Il matematico-filosofo livornese ha evidenziato in particolare quella che chiamava la comune “volontà del vero” ritenuta dominante sia nella scienza che nella religione e nell’arte pur nel loro diverso modo di incontrarsi e di scontrarsi con le ragioni del reale; ha lavorato soprattutto ad un progetto filosofico orientato a fare in modo che i rispettivi risultati non devono sovrapporsi l’uno sull’altro o contrapporsi tra di loro, ma integrarsi in una visione di insieme, dove ognuna si arricchisce dei contributi dell’altra dando loro un diverso “significato” non solo teorico ma umano più in generale.
Ma tale pioneristico progetto di ragione aperta è frutto dell’aver improntato un discorso filosofico teso alla non facile comprensione del fatto che nella scienza non ci sono “teorie vere ma teorie sempre più vere”, come dirà in un volume del 1922 Per la storia della logica; compito di un sano pensiero filosofico è ritenuto quello di cogliere gli innegabili sforzi del pensiero scientifico verso il vero ed in tal modo col riconoscerne l’intrinseca vocazione storica, lo si inserisce nel pensiero umano più in generale con piena dignità epistemica. In tal modo viene più che mai ribadita la piena valenza umanistica della conoscenza scientifica che viene così liberata in maniera programmatica da quelle che Hélène Metzger chiamava sulla sua scia “prigioni del positivismo” con le collegate e rigide catene deterministiche, dal virus dell’onniscienza e da visioni che la riducono ad espressioni della cosiddetta “razionalità strumentale” e da quei tentativi, allora come oggi da più parti in atto, di naturalizzare le stesse scienze dell’uomo e poi più facilmente utilizzabili per fini ideologici.
Assume così più senso la stessa indicazione che facciamo nostra di Ferdinand Gonseth che in un convegno tenutosi a Zurigo nel 1938, incentrato sulla possibilità di una nuova filosofia delle matematiche, definì il percorso di Enriques un “percorso a volo d’uccello” per la capacità più di altri di vedere al di là degli orizzonti stabiliti e di essere stato un antesignano di posizioni filosofiche e scientifiche venute a maturazione in seguito; così quello che è stato il non comune frutto di una “ragione solitaria”, è un primo e dei più riusciti modi di dar voce ad un percorso di razionalità allargata, oggi proposta teoretico-esistenziale da più parti invocata, in grado di fornirci degli strumenti più adeguati per evitare il ripetersi di quei “cammini sbagliati”, intrapresi dell’Europa nella sua storia più recente, che sono stati i “restringimenti ideologici della filosofia, della scienza e anche della fede” come li ha chiamati Benedetto XVI. Ci piace concludere con parole dello stesso Enriques nel commentare le fasi della sua vita: «L’uomo cui il giudizio razionale indica una propria via, remota dalle passioni e dagli interessi che a lui s’impongono d’intorno, conservi dunque, in ogni evento, la fede che sconfitta non significa torto; ed anche quando la sua ragione solitaria sembri sopraffatta dalla prepotenza dell’errore e del non senso, se pure niuno risponda alla sua voce, sappia che questa voce è sempre udita da qualcuno, vicino o lontano, e che risuonerà tosto o tardi, quando altri interessi avranno preso coscienza di sé, e i timidi e gli spauriti oseranno guardare in faccia la verità ed attestarla, sposando ad essa la propria fortuna» (Scienza e Razionalismo, Bologna, Zanichelli, 1990, pp. 186-187).