Sono passati sette secoli dalla morte di Dante e non solo lo studiamo ancora, ma – come osservava recentemente Alessandro Barbero – forse Dante è uno dei pochi autori (mi sentirei personalmente di aggiungere Ungaretti e Montale …) che la scuola “non riesce a rovinare”. In questa sua affermazione, Barbero allude al noto meccanismo psicologico per cui i testi “obbligatori” a scuola vengono in qualche modo subiti se non odiati dagli alunni… e forse anche dai docenti!
Invece, da una ventina di anni a questa parte, sono sotto gli occhi di tutti numerosi fenomeni, più o meno “mediatici”, di segno decisamente opposto. Ne ricordo alcuni in ordine sparso: nel 2002 la recita di Benigni dell’incipit del XXXIII del Paradiso in una serata di Sanremo, cui fecero seguito “L’ultimo del Paradiso” (due ore di diretta RAI senza pubblicità il 23 dicembre dello stesso anno), nonché una serie di letture dantesche sempre di Benigni, fino a “Tutto Dante 2012” in piazza Santa Croce (10 anni di successi danteschi!). Negli stessi anni erano già diffuse in l’Italia le letture pubbliche di Vittorio Sermonti – ricordo personalmente di averlo ascoltato nel 2006 a Milano in una santa Maria delle Grazie strapiena – nonché altri fenomeni “popolari”, come la performance dei “Centocanti” in giro per Milano nella primavera del 2006 sulla scia dell’entusiasmo dantesco suscitato da Franco Nembrini, “docente ignorante” come ama definirsi…
Tutto ciò non è stato un fuoco di paglia, ma prosegue tuttora; lo confermano moltissime iniziative, tra cui la recente riedizione da parte di Mondadori della Commedia in tre volumi, rispettivamente dedicati alle tre cantiche dantesche con il commento di Franco Nembrini, introduzioni di Alessandro D’Avenia e una serie di nuove tavole illustrative realizzate da un disegnatore della Marvel, Gabriele Dell’Otto. I volumi, di gran “peso” fisico, sembrerebbero impossibili da commercializzare in una stagione tanto virtualizzata come quella attuale, e invece …
È quindi giusto e importante domandarci quale sia il fenomeno complessivo cui stiamo assistendo, del quale peraltro non abbiamo nominato che alcuni aspetti emergenti. E provo a riconoscerne e ad abbozzarne qualche contorno dal mio personale osservatorio di docente di scuola media di lungo corso in contatto anche con studenti liceali e universitari.
Innanzitutto, che cos’è che conquista, interessa, “cattura” gli ascoltatori, sia in ambiente scolastico (mirabile dictu), sia nelle piazze, nei “cenacoli danteschi” o in rete? In altre parole: la vita di Dante, la sua ricca vicenda personale, i suoi scritti filosofici o i trattati di altro genere da lui composti sarebbero sufficienti a destare tanta attenzione? Ritengo che si possa rispondere a quest’ultima domanda con un secco “no”. Tutto è collegato alla Commedia, non penso che se ne possa dubitare.
Se Dante non avesse composto le tre cantiche, ritengo che lo studieremmo come grande autore di letteratura, di poesia, financo come pensatore… ma sarebbe uno studio specialistico, molto meno coinvolgente di quello attuale. E allora vale la pena di riflettere un po’ proprio sulla specificità del capolavoro del nostro grande fiorentino esule che non a torto chiamiamo “padre” Dante.
Perché padre? In che senso ci possiamo – forse dobbiamo – considerare figli, discendenti?
Mi piace partire da un’osservazione linguistica che si è arricchita via via nei decenni di frequentazione del testo della Commedia; nei primi anni di insegnamento facevo osservare “come siamo fortunati” a parlare una lingua italiana ancora così vicina a quella di Dante. Nel tempo l’osservazione si è capovolta: come mai “ci succede di parlare” una lingua relativamente così simile a quella dantesca? In fondo in fondo, questo avviene perché tutti (tutti!) siamo passati attraverso la Commedia, in un modo o nell’altro. Se qualcosa ci spaventa, possiamo dire che ci fa tremar le vene e i polsi, se diciamo stiamo freschi! stiamo citando Inferno XXXII, 117 (là dove i peccatori stanno freschi), se parliamo del Bel Paese (o se lo mangiamo in quanto formaggio), ci riferiamo alla celeberrima invettiva contro Pisa del XXXIII dell’Inferno, se diciamo che una faccenda non mi tange impieghiamo parole di Beatrice nel II dell’Inferno, senza infamia e senza lode è un adattamento della descrizione degli ignavi nel III canto, ma anche a più non posso deriva da un’espressione dei superbi nell’ultimo verso del canto X del Purgatorio. E così in decine di casi… Dunque, possiamo dire che tutti abbiamo imparato (in parte) a parlare da padre Dante, facendo con lui il viaggio nelle tre cantiche o “assorbendo” dall’ambiente linguistico dei parlanti intorno a noi numerose espressioni da lui coniate. Ecco perché non siamo poi tanto lontani dal suo modo di parlare, perché ci ha raggiunti nel tempo e, soprattutto, la sua parola in numerosi casi ci ha convinti, lo abbiamo ascoltato con interesse personale.
Qui allora la ricerca assume una prospettiva nuova e importante: come può un uomo del Tredicesimo/Quattordicesimo secolo avere (avuto) qualcosa da dire a noi, che ci troviamo a sette secoli di distanza tanto da entrare nella nostra vita e segnarla (almeno linguisticamente) con tale efficacia? Perché possiamo ripetere a Dante ciò che lui riferiva a Virgilio, tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore?
Qui a mio avviso il discorso per forza si trasferisce su un piano non soltanto letterario, ma pienamente esistenziale. Ci deve essere qualcosa di particolarmente vero, di vivo, in un’opera che “intercetta” per secoli e secoli gli ascoltatori, tanto da “legarli a sé” in maniera così forte. Mi viene alla mente il racconto, più volte ripetuto da Franco Nembrini, del momento in cui, piangendo per un faticoso lavoro che stava svolgendo in giovane età, improvvisamente si sentì “letto” dai versi danteschi tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e com’è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. Lo stupore fu enorme: Dante parla di me! Ebbene, io ritengo che a un gran numero di italiani sia capitato un fenomeno analogo (e volutamente ho citato Ungaretti e Montale, ma potrei aggiungere anche Leopardi e pochi altri). Sì, la Commedia parla proprio di me! Me ne posso accorgere a vari livelli, posso anche approfondire questa osservazione fino a comprenderne le profonde motivazioni strutturali – a livello di teoria della letteratura – giungendo a percepire “come Dante intenda la sua opera” grazie a un saggio come La poesia della Divina Commedia di Charles Singleton… ma anche se sono un semplice ragazzo adolescente posso “intuire” che quei versi parlano di ogni uomo, dunque anche di me. Ritengo che solo così sia spiegabile quel “paradosso scolastico” enunciato da Barbero, cui mi riferivo in apertura: la percezione di ognuno di noi, almeno in qualche momento, è che Dante nella Commedia stia in parte raccontando la nostra vita. D’altronde, che questo avvenga per ciascun classico possiamo dirlo tranquillamente ed è un dato acquisito dalla critica letteraria più avveduta: facilmente ciascuno di noi può essersi immedesimato in M’illumino d’immenso (Ungaretti) o in naufragar m’è dolce in questo mare (Leopardi) o in ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (Montale).
Ma allora perché Dante è tanto “padre” di tutti noi quanto nessun altro dei grandi, dei “classici” in parte sopra accennati? Qui ci potrebbe venire in aiuto la considerazione di un critico, uno studioso di quelli che sanno alzare la testa e osservare i grandi autori che dialogano a distanza di secoli e millenni; non ha parlato direttamente di Dante, ma di Virgilio in una conferenza celebre dal suggestivo titolo What is a classic? Sto alludendo a Th. S. Eliot, il grande scrittore statunitense che venne invitato a ragionare su un tema analogo al nostro dalla Virgil Society di Londra, nel 1944 e arrivò a concludere che Virgilio è l’unico classico dell’Occidente.
Ma in che senso Eliot poteva porre un’affermazione così perentoria che ci piacerebbe in questa sede applicare per l’Italia al Nostro autore della Commedia? “Se c’è parola sulla quale possiamo fondarci e che suggerisce l’apice di ciò che io intendo per ‘classico’, questa è la parola maturità: un classico non appare se non quando una civiltà, una lingua e una letteratura sono mature; e la sua dev’essere l’opera di una mente matura” affermava lo scrittore, con lunghe argomentazioni che qui non possiamo certo riportare, concludendo: “Virgilio è il nostro classico, il classico di tutta l’Europa”. Da notare che Eliot, statunitense, stava parlando di cultura europea a una platea di studiosi britannici, presso i quali elogiava chiaramente anche uno Shakespeare, senza tuttavia considerarlo abbastanza “maturo” (!). E qui ci permettiamo invece di citare una frase di questa celebre dissertazione che ci riguarda da vicino: “…perché nella Divina Commedia troviamo, se mai ve ne fu uno, il classico di una lingua moderna europea”.
Attenzione: non tutto Dante, ma appunto, come consideravamo già precedentemente, la Divina Commedia ! Eliot sembra proprio confermarci che siamo su una strada valida.
A questo punto, pur nei limiti di questa breve riflessione, possiamo domandarci che cosa nella Commedia ci faccia sentire così vicina e così “matura” la voce di Dante. Su questo sono stati versati fiumi d’inchiostro, ma possiamo comunque ricapitolare qualche punto saliente:
- Dante, proprio per la sua sofferta vicenda personale, è divenuto del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore: proprio quell’obiettivo ideale ed entusiasmante fino ad essere travolgente che Ulisse propone alla sua picciola compagna / da la qual non fui diserto, l’autore della Commedia è stato costretto a viverlo a causa di un esilio, inizialmente da solo senza familiari, in terre poco conosciute e molto distanti anche mentalmente dalla sua Firenze. Egli si adatta, si apre, comprende le differenze e osserva le costanti della natura umana, sente raccontare tante storie, le registra, riflette, “matura” – potrebbe dire Eliot – una profonda conoscenza e capacità di rappresentazione della realtà umana.
- Dante, per curiosità e per necessità, conosce molti altri “italiani” e con la sua passione linguistica esplora tutte le parlate della Penisola, le vaglia, le setaccia, le critica e concepisce il sogno del “volgare illustre, cardinale, aulico e curiale” che presenta nel De vulgari eloquentia, trattato in cui ironizza in modo talvolta feroce su tutta la produzione “dialettale” dei suoi predecessori. Sul piano linguistico si tratta di un processo di “maturazione” letteraria cui Dante imprime una forte accelerazione.
- Dante politico percepisce come pochissimi altri il problema del fondamento della pace nella litigiosissima società italiana del suo tempo e ne elabora una soluzione forse molto teorica, ma a detta degli esperti attualissima: nel De Monarchia teorizza l’Impero in termini che di recente sono stati ristudiati con grande interesse nell’ambito delle scienze politiche, data la sorprendente vicinanza con l’esigenza tuttora molto forte di un’autorità politica mondiale capace di dirimere le questioni evitando la guerra. Tale sogno di Dante (distinzione di ambiti tra Chiesa, Stato e cultura, come evidenzia Gilson in Dante e la filosofia) si è successivamente realizzata nella cultura secolare del mondo contemporaneo. La visione politica dantesca risulta audace, avveniristica, forse profetica, certamente meritevole di essere qualificata come “matura” in senso eliotiano.
- Ma dicevamo che ci possiamo considerare “discendenti di Dante” non tanto per il suo pensiero, quanto per l’esperienza della lettura quasi “obbligatoria” della Commedia: ritorniamo allora per l’ultima volta a considerare questo capolavoro. Esso non nasce dal nulla: nel De vulgari eloquentia Dante spiega con estrema consapevolezza il ruolo dell’intellettuale: celebrare la virtù e condannare i vizi, concetto che viene ripreso anche nell’Epistola a Cangrande laddove il Nostro sintetizza dicendum est breviter quod finis totius et partis est, removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis (brevemente, va detto che il fine del tutto e della parte – la cantica del Paradiso – è smuovere le persone viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurle a uno stato di felicità). Potremmo affermare che il grande fiorentino, sullo sfondo di una concezione sempre più nitida della distinzione dei ruoli e delle responsabilità, individua chiaramente il proprio compito poetico, lo sogna, lo definisce in tutti i suoi aspetti… e lo realizza, componendo la Commedia. Ecco allora che il capolavoro dantesco risulta precisamente il frutto maturo di una consapevolezza profondissima sia delle complesse vicende umane, sia delle prospettive di soluzione dei grandi problemi, sia ulteriormente del compito personale che l’intellettuale e il poeta hanno da svolgere, restando al proprio posto e apportando il contributo specifico che spetta loro.
- Resta – e non è la meno importante delle questioni – quella che il Singleton definisce “la sostanza delle cose vedute”; il contenuto del viaggio di Dante che coincide, su un piano poetico, con il contenuto della fede cristiana illuminata dalla riflessione dottrinale dei secoli più luminosi della teologia. Non è da sottovalutare questa ultima dimensione di “maturità”, proprio come condizione previa all’assunzione vitale e intellettuale da parte di Dante di tale contenuto e alla sua traduzione poetica da grande interprete qual era. Il contenuto veritativo della fede vissuta, a mio avviso, contribuisce in misura determinante alla percezione soggettiva del lettore che ritrova nella narrazione dantesca almeno qualche verità della propria vita. Potremmo paragonare Dante a un alveare che, trovato un campo intero di una specie botanica mai precedentemente fiorita così rigogliosamente, lo bottina e lo trasforma in un miele superlativo; a partire da quel momento tutti desiderano assaggiarlo e il suo sapore “accompagna” almeno un po’ le vite di tutti, senza che necessariamente i singoli abbiano consapevolezza di tutta la “filiera”.
Ci dobbiamo fermare qui: queste sono solo poche pennellate che hanno cercato di evidenziare qualche ragione per cui la “risonanza” di Dante nelle numerose generazioni di italiani succedutesi dal Trecento a oggi sia stata e continui a essere così forte. L’invito, data la centralità della Commedia in questa riflessione, è quello di frequentarla con calma, sapendone gustare i sapori delicati e forti e scoprendone personalmente le ricchezze espressive e vitali.
Bibliografia:
Dante ALIGHIERI, Divina Commedia, De vulgari eloquentia, De Monarchia
Alessandro BARBERO, Vita di Dante, Mondadori, Milano 2020
Giuseppe SOLARO, “Virgilio e l’Europa cristiana. A proposito di Thomas Stearns Eliot”, in Sulle orme degli Antichi – Scritti di filologia e di storia della tradizione classica offerti a Salvatore Cerasuolo, Pensa MultiMedia, Lecce 2016, pp. 715-726
Etienne GILSON, Dante e la filosofia, Jaca Book, Milano 1987
Charles S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, Bologna 1978