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Lo stato di salute della filosofia e il suo ruolo nel dibattito pubblico

Febbraio 2022
Stefano Oliva
Ricercatore Centro DISF, Pontificia Università della Santa Croce

Lo scorso novembre “Avvenire” ha pubblicato un articolo di Andrea Lavazza sul mancato finanziamento di Progetti di ricerca d’interesse nazionale (PRIN) proposti da docenti di filosofia, aprendo un dibattito sullo stato di salute di questa disciplina accademica nel nostro Paese. Per la verità, i filosofi sono presenti in molti PRIN promossi da altri settori scientifico-disciplinari che hanno ricevuto i finanziamenti richiesti, ma in nessun caso, da quanto si apprende dall’articolo, essi figurano come primi promotori. Sullo stesso giornale, in gennaio, un articolo di Federica Napolitani ed Enrico Alleva ha riportato al centro dell’attenzione il fenomeno del cosiddetto publish or perish (“pubblica o muori”), vale a dire la sovrapproduzione di articoli scientifici connessa alla sempre crescente valutazione dei prodotti della ricerca in termini “bibliometrici” (per i relativi settori) o, in ogni caso, quantitativi (il superamento delle cosiddette “mediane”). Se un sistema di questo tipo può avere una validità in alcuni ambiti della ricerca scientifica, più di un osservatore ha notato che esso pare solo parzialmente adeguato per settori come gli studi umanistici, in cui per definizione vi è una irriducibilità del criterio qualitativo a quello quantitativo.

Mentre dunque la disciplina accademica che va sotto il nome di filosofia si trova marginalizzata per quanto riguarda i finanziamenti statali e sottoposta a meccanismi di valutazione importati da altri ambiti del sapere che ne rispettano solo in parte la natura, la presenza dei filosofi nel dibattito pubblico è quanto mai assidua e riconosciuta (si veda a questo proposito l’editoriale di Giacomo Maria Arrigo pubblicato su disf.org nel febbraio 2021). E, si può notare, talvolta le personalità più coinvolte nella riflessione – che troppo frequentemente si traduce semplicemente in polemica – sulla situazione pandemica attuale, sul rapporto tra scienza e società e sulla gestione politica dell’emergenza sanitaria, sono in realtà voci non pienamente integrate nel panorama attuale dell’università italiana. Raramente i filosofi che intervengono sulle colonne dei giornali e negli studi televisivi sono quelli le cui pubblicazioni rispettano i criteri dell’ANVUR (Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e la Ricerca); d’altra parte, anche i docenti di filosofia che rispettano questi criteri non hanno visto finanziati i PRIN da loro promossi.

Ci troviamo dunque in una bizzarra situazione di sovraesposizione dei filosofi nel dibattito pubblico e di sotto-rappresentazione nell’ambito dei finanziamenti universitari. Né la questione può essere ridotta alla contrapposizione tra filosofia “accademica” e “anti-accademica”, dal momento che il perdurare della pandemia e il susseguirsi di fasi diverse ha prolungato il dibattito e coinvolto via via personalità provenienti dalle fila di entrambi i presunti schieramenti, con il progressivo ampliamento della ribalta pubblica e delle posizioni rappresentate. Piuttosto, questa doppia circostanza, apparentemente contraddittoria, costituita dalla sovraesposizione mediatica e dal mancato finanziamento statale, offre l’occasione per riflettere sullo stato di salute della filosofia in Italia e per interrogarsi sul suo ruolo – due questioni inevitabilmente connesse tra loro.

Come decidere infatti se la filosofia “sta bene” o meno, se non riflettendo su ciò che essa è, in riferimento a ciò che, per sua stessa natura, dovrebbe essere? Da un lato, etimologicamente, la filosofia non è una scienza ma incarna, con la propria specificità disciplinare, l’“amore per la sapienza”. Nel suo rapporto con le scienze, dunque, non pare appropriato rimproverarle quella passione intellettuale – non irrazionale: passione del logos– che ne costituisce precisamente la scaturigine. Spingendosi ancora un po’ oltre, l’istanza etica insita in ogni presa di parola filosofica è anzi garanzia di una “buona” filosofia, o quanto meno della fedeltà alla sua missione. Se, come incautamente è stato pronunciato in qualche dibattito, la filosofia deve semplicemente prendere atto dei risultati delle scienze, viene allora meno il suo carattere inquieto e la sua postura interrogativa, capace di suscitare lo spirito critico necessario a mettere in discussione la ricostruzione dei fatti apparentemente più solida. E d’altra parte, detto più chiaramente, chi invita i filosofi a non “impicciarsi” di questioni non riconducibili al ristretto perimetro dei loro presunti interessi (di che cosa si dovrebbe occupare precisamente un filosofo?), non fa un buon servizio nemmeno alla causa della scienza, il cui inestimabile contributo alla società non può fare a meno di suscitare interrogativi e dibattiti: prendendo in prestito le parole di un grande intellettuale e critico musicale, Fedele d’Amico, “l’idea di riservare l’uso delle lampadine agli elettricisti mi sembra scioccherella” [1].

D’altra parte, se vuole rimanere fedele al suo statuto e alla sua missione, la filosofia non deve millantare un sapere che non detiene: la sciatteria di alcuni commenti su dati, modelli scientifici, e la valutazione disinvolta di questioni che tengono occupate molte menti in giro per il mondo (la scienza è sempre un’impresa collettiva) rivelano talvolta un atteggiamento di arrogante sufficienza. Peccato che tale sicumera non abbia un corrispettivo reale alla prova dei fatti: quando la filosofia scambia sé stessa per una scienza, quando si fa valutare come una scienza, ne mima protocolli e modalità d’elaborazione, molto spesso non viene presa debitamente in considerazione dalla scienza stessa, quella vera. E questo spiegherebbe, almeno parzialmente, la questione del mancato finanziamento dei PRIN filosofici: se la filosofia vuole emulare la scienza, l’originale sarà sempre più valido dell’imitazione. Una filosofia troppo appiattita sulla scienza, dalla scienza verrà fagocitata.

Se dunque i segni di vitalità della filosofia non mancano, quello che la disciplina sembrerebbe dover ritrovare è la responsabilità: nei confronti di sé stessa, del proprio oggetto e di coloro che le prestano orecchio. Di sé stessa: per rispondere alla sua missione, senza cedere di un millimetro sulla sua titolarità a parlare del mondo, della società e anche della scienza, con acume e profondità critica, la filosofia dovrà riscoprirsi “amore della sapienza” e tornare a porsi appassionatamente al servizio della verità. Concetto da decenni non molto di moda. Come scriveva il filosofo Luigi Pareyson, “della verità non c’è che interpretazione” [2]: con buona pace dei riduzionisti, neanche i dati parlano da soli ma vanno letti, interpretati e compresi in un’ottica necessariamente pluralista (nessuna interpretazione è in grado di esaurire la verità). D’altra parte, aggiungeva Pareyson, “non vi è interpretazione che della verità” [3]: ed ecco la seconda responsabilità del filosofo. Interpretare è necessario per porsi in rapporto alla verità, ma questa non può dissolversi in mille interpretazioni diverse, egualmente valide. Non tutte le letture sono possibili [4], la realtà ne scoraggia alcune, ne tollera altre, ne sostiene altre ancora: viene rispettata in misura diversa da interpretazioni diverse. Da questo segue infine la responsabilità verso coloro cui la filosofia si rivolge: se non vuole essere un mero proclama ideologico, la filosofia deve essere “guida dei perplessi”, offrire orientamento critico, vale a dire essere capace di formulare un giudizio sulla realtà a beneficio della polis

Carità intellettuale e carità politica, tra le più alte forme d’amore, s’incontrano e si compenetrano nell’autentica missione della filosofia. La buona salute della disciplina verrà confermata dalla sua capacità di rimanere fedele al suo mandato, senza sovrapporsi con altre forme di sapere e al tempo stesso senza rinunciare a esercitare la propria funzione chiarificatrice. 

 

[1] F. d’Amico, L. Berio, Nemici come prima. Carteggio 1957-1989, Archinto, Milano 2013, p. 65.
[2] L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1971, p. 53.
[3] Ibidem.
[4] Questa è, tra le ultime lezioni offerte da Umberto Eco, una delle più illuminanti. In merito al “realismo negativo”, cfr. U. Eco, Di un realismo negativo, in Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, a cura di M. De Caro e M. Ferraris, Einaudi 2012; A.M. Lorusso, Postverità. Fra reality tv, social media e storytelling, Laterza, Roma-Bari 2018.