Vedere l’universo con occhi diversi attraverso il telescopio Webb

Giuseppe Cataldo
Ingegnere presso il Goddard Space Flight Center, NASA


Il 12 luglio 2022, James Webb, il telescopio spaziale più grande e potente finora progettato nella storia dell’umanità, ha rivelato le sue straordinarie capacità con una serie di immagini e dati che hanno ormai segnato l’inizio di una nuova era per l’astrofisica. Sono un ingegnere italiano e nel 2014 mi fu offerto dalla NASA di lavorare su questo progetto, per occuparmi dei modelli matematici del sistema termico. All’epoca ero ancora un dottorando, concentrato a terminare la mia tesi al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Fui colpito da tale proposta, che accolsi con tanta sorpresa ma anche con certa esitazione. La complessità e la delicatezza di un “gioiello dell’ingegneria” quale veniva definito Webb richiedevano notevoli competenze tecniche e un alto grado di responsabilità, impensabili per un giovane di appena ventinove anni. Venni incoraggiato dal mio capo, il quale mi convinse ad accettare, sicuro che alcune conoscenze tecniche da me apprese proprio al MIT avrebbero potuto fare la differenza per questo telescopio così unico. Così ebbe inizio la mia avventura che, circa otto anni dopo, ha contribuito a creare una vera e propria “macchina del tempo”, capace di captare la luce degli oggetti più lontani, studiare l’evoluzione di galassie, svelare i misteri che ancora circondano la formazione delle stelle, e descrivere la composizione fisico-chimica di tanti pianeti al di fuori del nostro sistema solare.

La prima immagine di Webb ad essere stata rivelata è la fotografia più profonda e nitida finora catturata del nostro universo nell’infrarosso. Quest’immagine ci mostra un ammasso di galassie con migliaia di tali oggetti visti com’erano circa 4,6 miliardi di anni fa. Altre galassie visibili dietro questo ammasso sono ancora più lontane e quindi molto più antiche. Tra queste, i dati spettroscopici rilevati da Webb indicano una galassia la cui luce ha impiegato ben 13,1 miliardi di anni a coprire la distanza che la separa da Webb. Sembra di essere prossimi ai confini dell’universo, che ha un’età stimata di 13,8 miliardi di anni. Poiché la luce viaggia ad una velocità finita, più lontano è l’oggetto luminoso che stiamo guardando, più tempo avrà impiegato la luce ad arrivare ai nostri occhi. Di conseguenza, i fenomeni che stiamo osservando adesso sono solo ricordi del passato. Effettuando osservazioni simili, il telescopio Webb spera di captare la luce delle prime stelle, che si pensa si siano formate circa 400 milioni di anni dopo il Big Bang, quando l’universo era appena nato.

Una vera e propria macchina del tempo, allora, che ci porterà molto vicini a quell’istante in cui tutto ebbe inizio. Un punto molto singolare della nostra storia che suscita molte domande: se ci sia stato un prima, se l’universo sia sempre esistito, perché ci sia stato un punto così denso di materia ed energia (per usare termini semplici) che poi è esploso e si è strutturato nel modo in cui lo vediamo adesso, fino a dare origine a una forma di vita intelligente come la nostra, capace di porsi domande così alte come quelle che ci stiamo adesso ponendo.

Come ingegnere coinvolto nello sviluppo del telescopio Webb, ma anche di vari altri progetti collegati con l’astrofisica, è facile imbattersi in simili quesiti o sentirmeli porre ogni qual volta mi trovi a parlare di questo telescopio spaziale e delle frontiere dell’universo che stiamo esplorando. Del resto, come non restarne stupiti? Le scoperte fatte nel campo dell’astrofisica nell’ultimo secolo, e ancor più dal 1990, anno della messa in opera dello Hubble Space Telescope, il primo telescopio spaziale, ci mostrano strutture ben ordinate come il nostro sistema solare o la nostra galassia, che si ripetono a enormi distanze anche in altre parti dell’universo.

La scienza continua il suo corso, cercando risposte legate alla comprensione dei fenomeni che si osservano. Dopo il Big Bang e la formazione delle prime stelle, quali sono stati gli eventi che hanno portato alla formazione e all’evoluzione delle galassie e dei sistemi planetari? E così il telescopio spaziale Webb, in un’altra delle sue immagini, ci ha mostrato dettagli finora ancora sconosciuti della nebulosa planetaria “Anello del Sud”. Le nebulose planetarie sono coltri di gas e polvere espulsi da stelle morenti. Capirne la struttura e la composizione chimica aiuterà gli scienziati a migliorare la nostra comprensione dell’evoluzione delle stelle in questa fase della loro vita. Ma l’immagine più accattivante resta forse quella della nebulosa della Carena a circa 7600 anni luce da noi, che mostra regioni di formazione stellare mai viste prima e con un livello di dettaglio mai raggiunto fino ad ora, grazie all’alta sensibilità di Webb alla radiazione infrarossa, che gli permette di penetrare le coltri di polvere interstellare che “nascondono” tutte queste stelle.

Questi oggetti risiedono adesso in sistemi più grandi come le galassie, che Webb ci ha mostrato in un mosaico di circa mille immagini rappresentanti il Quintetto di Stephan, un insieme di cinque galassie scoperto già nel 1877 dall’omonimo studioso. L’importanza di questa immagine risiede nella possibilità di studiare le interazioni dinamiche fra le galassie di questo gruppo fisico e il ruolo da queste giocate nell’evoluzione di questi oggetti.

E dalle stelle, poi, si arriva fino ai pianeti. Grazie alla capacità di rilevare righe spettrali nella regione infrarossa, indicanti ad esempio la presenza di acqua e di anidride carbonica, Webb ci fornisce dati che permettono di descrivere la composizione chimica dell’atmosfera dei pianeti extrasolari. Siamo così riusciti, nelle prime settimane di osservazione, a rilevare la presenza di atmosfera attorno ad un pianeta della nostra galassia che si trova a 1150 anni luce da noi. I dati rivelano presenza di acqua, forse anche di nubi, su questo pianeta gassoso che orbita intorno alla sua stella ogni 3 giorni e mezzo, con temperature superiori ai 538 gradi. Sebbene non si tratti di un pianeta come la Terra, la portata di quest’immagine è notevole, perché ci lascia presagire a che livello Webb ci permetterà di caratterizzare tanti altri pianeti, aiutandoci a capire persino se alcuni di essi abbiano le proprietà adatte ad ospitare la vita come la intendiamo noi. Siamo soli in quest’universo così vasto?

Come operano le leggi di natura nella formazione dei complessi corpi celesti che evolvono fino a creare ambienti ospitali alla vita? Come ingegnere, mi risulta abbastanza intuitivo e semplice da comprendere che un oggetto complesso quale James Webb non avrebbe mai potuto crearsi da solo aspettando che viti, bulloni, specchi e strumenti (tra l’altro tutti fatti degli stessi atomi di cui sono fatti stelle, pianeti, e perfino noi stessi), si assemblassero da sé per creare una macchina così speciale in grado di svolgere compiti con degli obiettivi specifici. C’è una finalità nel cosmo? Possono queste domande trovare una risposta nel dominio della scienza?

Si tratta di domande cruciali, alle quali giungiamo inevitabilmente ammirando la bellezza delle immagini inviateci adesso da Webb. Per citare Werner Von Braun, che ha realizzato il Saturno-V, fino a poco tempo il razzo più potente mai costruito, che ha portato l’essere umano sulla Luna, “La scienza prova a comprendere la creazione mentre la religione prova a comprendere il Creatore.” Una frase semplice ma eloquente, che indica la complementarità fra prospettiva scientifica e qualcosa che, invece, può trascenderla.

Nel lavoro che svolgo tutti i giorni per progettare e realizzare strumenti come il telescopio Webb, mi accorgo di quanto sia difficile per me fermarsi solo al pezzo di metallo che volerà nello spazio o al modello matematico che analizzerà certi dati. Senza un obiettivo ultimo, che conferisce significato a ciò che facciamo, anche se dovessimo mai arrivare a comprendere tutto lo scibile umano, ci troveremmo comunque di fronte ai limiti intrinseci della vita stessa, la quale un giorno si estinguerà dalla Terra, quando il Sole terminerà il suo combustibile (a meno di non fra intraprendere alla nostra specie una migrazione interstellare!), rendendo tutte queste nostre fatiche apparentemente inutili. Perché tanto sforzo e tanta passione per comprendere i meccanismi dell’universo se tutto, e noi stessi, ritorneremo ad essere polvere di stelle? Mi chiedo se, per motivare il lavoro della ricerca scientifica, sia sufficiente solo un senso di curiosità temporaneo, ma che si estinguerà con la nostra specie e del quale non rimarrà alcuna traccia.


In occasione del primo allunaggio, san Paolo VI si rivolse il 23 luglio 1969 ai giovani con queste parole: “I giovani dovrebbero sentire la chiamata ideale e positiva che arriva a loro dalla magnifica avventura dello spazio. […] La nostra piena approvazione e incoraggiamento per la conquista progressiva del mondo naturale attraverso studi scientifici e sviluppi tecnici e industriali non è opposta alla fede e al concetto di vita e universo che la fede stessa proclama.”

Oltre cinquant’anni dopo un evento così importante per la storia dell’umanità quale lo sbarco su un altro corpo celeste, oggi possiamo affermare che con il telescopio Webb si è aperta una nuova era per tutta la comunità astronomica. Come ingegnere che ha contributo col suo piccolo a creare uno strumento così rivoluzionario, non mi resta che assaporare ogni singola scoperta che verrà fuori da questi nuovi “occhi” appena aperti sul nostro universo. Occhi che, per un credente, permetteranno di conoscere più da vicino le opere del Creatore.