Riflettere sul tema del lavoro significa toccare una corda essenziale dell’essere umano e del suo vivere sociale. In particolar modo nella nostra temperie moderna, il lavoro è passato dall’essere considerato come una necessità vitale, legata al mondo della schiavitù, ad un elemento definitorio del nostro essere umani e coabitatori di una civiltà comune. Lo sappiamo bene proprio noi italiani, che abbiamo fissato questo credo nel primo articolo della nostra costituzione.
Le vicende mondiali di questi anni hanno portato alla luce una crisi latente per i lavoratori delle società occidentali: durante e nel post-pandemia abbiamo assistito all’imponente fenomeno della great resignation, un picco di dimissioni volontarie da parte della popolazione lavoratrice, sia negli Stati Uniti che in Europa. Al fenomeno delle grandi dimissioni è seguita anche un’altra dinamica, più difficile da misurare statisticamente, il cosiddetto quiet quitting: professionisti che decidono di “fare il minimo indispensabile” senza investire sulla sfera lavorativa alcuna energia in più di quella richiesta per conservare la posizione stessa.
Accanto a questi fenomeni di scala mondiale (almeno per le economie avanzate) assistiamo su scala locale alla difficoltà degli imprenditori di inserire e motivare i nuovi giovani lavoratori appartenenti alla cosiddetta generazione Zeta. Chi scrive questo editoriale ha ben presente il dilemma di diverse realtà aziendali che, di fronte ai giovani della gen Z, non sanno come motivarli e farli sentire parte integrante dell’impresa, creando spirali di frustrazione sia per i lavoratori e che per il management.
Questi tre fenomeni elencati sono oggetti di studio approfondito da parte di sociologi e psicologi del lavoro e sicuramente abbiamo ancora necessità di comprendere a fondo queste dinamiche, possiamo tuttavia azzardare un’ipotesi rispetto all’elemento comune caratterizzante questa crisi del lavoro contemporaneo: i professionisti delle nostre economie avanzate riscontrano una forte scarsità valoriale e di significato nei loro contesti lavorativi. La grande eredità della scienza economica e manageriale dell’ultimo secolo ci ha consegnato imprese pensate come macchine e lavoratori interpretati come semplici funzioni all’interno di un sistema. La fine dell’ideale del turbo capitalismo, dalla grande crisi economica del 2008 in poi, sta comportando un ripensamento sempre più radicale del luogo e del significato del lavoro.
Alla luce di ciò che sta accadendo ritengo vi siano oggi le condizioni per riproporre i guadagni fondamentali della dottrina sociale della Chiesa senza ricevere subito un diniego ideologico. Cadute le grandi narrazioni del ‘900 e giunto all’epilogo il triste sogno dell’homo oeconomicus, stiamo attraversando l’occasione storica di mettere al centro del lavoro il tema della ricerca di valori fondamentali e di un significato che trascende le mere dinamiche dell’accumulo e del soddisfacimento egoistico. Gli anglosassoni hanno già da tempo coniato il termine di meaningful work, per concettualizzare questa visione di un lavoro che diventa sempre più un elemento di costruzione della propria identità, non un elemento accessorio o un fardello delle nostre vite. La difficoltà a rendere il proprio lavoro dotato di senso ha portato tanti lavoratori a dimettersi o a chiudersi in spirali di demotivazione. La Gen Z in questo dimostra la necessità di mettere subito in chiaro i valori, di incarnarli veramente e di non lasciarli sulla carta, laddove molti contesti aziendali pretendono da questi giovani una dedizione assoluta senza condizione, cosa che molti di loro non sono più disposti a dare: ed ecco riapparire di nuovo demotivazione e disincanto.
Se il lavoro dotato di senso è la sfida dei nostri tempi, si tratta di una sfida appassionante per trovare soluzioni realistiche e non lasciare questo concetto solo un pio desiderio. Già da tempo economisti come Stefano Zamagni e Luigino Bruni hanno indicato una strada per cercare di incarnare a livello economico una visione dell’impresa e del lavoro non materialistica e utilitarista. A queste mie considerazioni potrebbe essere sollevata un’obiezione di matrice neomarxista: non stiamo forse solo indorando la pillola dello sfruttamento? I fenomeni delle grandi dimissioni e connessi mostrano che i lavoratori delle economie avanzate si sono stancati di essere spremuti dal credo neoliberista, il tema non è restituire significato al lavoro ma liberare quanto più possibile le persone dalla necessità di dover essere prestatori di manodopera, anche intellettuale. Con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, infatti, potremo rendere sempre più obsoleti tanti lavori di oggi, anche dell’economia della conoscenza. Da qui la necessità di uno Stato che si faccia garante dei propri cittadini con opportuni sussidi, per affrontare una disoccupazione tecnologica strutturale. In prospettiva dovremo parlare di “fine del lavoro” e forse modificare anche la nostra costituzione.
Questa visione in verità perde di vista l’elemento centrale della concezione del lavoro come ereditata dalla società occidentale di matrice cristiana: non solo mezzo di sussistenza ma partecipazione dinamica alla creazione, scoperta di senso e generazione di beni per sé e per il prossimo. Se il lavoro è mero strumento per l’accumulo di beni materiali, ben venga la sostituzione da parte di sussidi. Tuttavia, tantissime lavoratrici e lavoratori dei nostri tempi dimostrano che con il loro lavoro cercano di costruire società più sostenibili, di incarnare valori come la giustizia e di diffondere una ricchezza che ha componenti sia materiali che immateriali.
Rispetto a queste persone abbiamo il dovere di argomentare una visione del lavoro che possa raccogliere i loro desideri impliciti e portarli verso una fioritura completa, anche nella trascendenza del senso teologico del lavoro umano.
Se abbiamo questa visione del lavoro, nessuna tecnologia potrà mai abolirlo. Scopo della tecnologia è infatti umanizzare il lavoro: ben venga dunque un’intelligenza artificiale in grado di automatizzare processi e liberare il nostro tempo verso attività di studio, ricerca, creatività, che ci permetteranno di sentire il nostro lavoro come dotato di senso e non come un’attività disumanizzante.
Farsi promotori di una visione ottimista della tecnologia non significa essere ingenui sulle dinamiche di sfruttamento che possono sempre riemergere, laddove i rapporti di forza tra i datori e i prestatori di manodopera sono troppo impari e non esistono forme di tutela e controllo, come ad esempio il fenomeno odierno dei raider e delle piattaforme digitali di delivery, dove in molti casi il ruolo degli algoritmi nel mantenere il processo efficiente diventa disumano nei confronti dei lavoratori. In questi casi preziosi rimangono i sindacati e in generale la società civile nel segnalare abusi e il diritto del lavoro nel creare la cornice giuridica entro cui sanare situazioni che ledono la dignità umana.
Dunque, per quanto negli ultimi anni pandemie e guerre ci abbiano portato a perdere fiducia nel futuro, ritengo che possiamo ancora cogliere i semi di bene presenti nel nostro tempo e farli fruttificare tra le pieghe della storia: oggi il tema del lavoro è uno di questi semi.