La prima volta che lessi i Pensieri di Blaise Pascal avevo 15 anni. Nel liceo scientifico statale che frequentavo circolavano libri impegnativi, tra cui il Capitale di Marx e il Libretto rosso di Mao-Tze-Tung. Quest’ultimo mi incuriosiva specialmente perché sembrava un messale, con una carta velina sotto la copertina che proteggeva la fotografia di Mao, come si protegge un santino di valore. Solo un anno ci separava dal 1968. I collettivi studenteschi, le lezioni autogestite e le occupazioni avevano come fine discutere di filosofia e ragionare sul futuro della società. Sembrerà impensabile ma era proprio così. Un quindicenne del 1968 ed uno del 2023 potrebbero oggi sembrare due specie biologiche diverse. Non è vero, sono entrambi giovani che, quando stimolati con le domande giuste, possono svegliarsi dal torpore e aprire gli occhi sul mondo. È quello che mi aiutò a fare Blaise Pascal, e per questo decido di raccontarvelo. Mi conquistava la sua schiettezza, i suoi paradossi, la descrizione impietosa, ma vera, della condizione dell’essere umano. Non mentiva, non indorava la pillola, non parlava del tempo che fa o dell’ultima partita di calcio, non usava eufemismi e frasi di convenienza. Mi parlava come noi, giovani del Sessantotto, desideravamo che i grandi ci parlassero, senza nascondersi dietro un paravento di autorità, ma affrontando le cose con autenticità. Pascal mi diceva com’ero fatto io, dentro. Com’ero di fronte a me stesso, di fronte al mondo e di fronte a Dio. Proprio quel Dio di cui ci parlavano ancora la famiglia e la società, senza saperci però spiegare cosa avesse da dire all’uomo che stava per andare sulla luna. Pascal, invece, me lo sapeva spiegare. Mettendomi di fronte alle grandi domande della vita, mi faceva capire che anche gli astronauti e gli uomini di scienza dovevano interrogarsi sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male. Anche coloro che sembravano sicuri di sé e ripetevano le risposte ereditate dalle generazioni precedenti, forse senza più comprenderle, venivano messi in crisi dal buon Pascal. Eravamo tutti imbarcati sulla nave della vita e non potevamo non chiederci verso dove andasse. La nostra dignità umana stava, e sta, proprio tutta lì, nel coraggio di chiedercelo.
I Pensieri di Pascal era un libro che potevi portare con te: stava comodamente anche in un piccolo zainetto. La lettura di uno di quei punti, rigorosamente numerati (molti anni dopo, quando divenne uno dei miei testi di studio, scoprii l’infinità di edizioni critiche e di numerazioni possibili….), era come un proiettile che ti colpiva al cuore. Se lo leggevi mentre camminavi non potevi proseguire, dovevi fermarti e riflettere. Scoprivi che Pascal aveva ragione, era proprio come diceva lui: quando parlava dell’uomo e quando parlava di Dio, quando parlava della ragione e quanto parlava della fede. Finalmente qualcuno che non ti prendeva in giro e, quando non aveva una risposta, te lo confessava, dichiarandoti che, come te, era ancora in ricerca. La sensazione ricorrente era che quanto io mi chiedevo, forse proprio come ogni adolescente che si affaccia alla vita, Pascal se l’era già chiesto e me lo formulava in un modo imbattibile: «Io non so chi mi ha messo al mondo, né che cosa è il mondo, né chi sono io; io mi trovo in una ignoranza terribile di tutte le cose; io non so che cos’è il mio corpo, che cosa sono i miei sensi, che cosa la mia anima e questa parte stessa dell’io che pensa ciò che io dico, che riflette su tutto e su se stesso, e che non si conosce, non più di quanto non conosca tutto il resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo che mi chiudono, e mi trovo attaccato ad un angolo di questa vasta estensione, senza che io sappia perché io sono posto in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché quel poco tempo che mi è dato di vivere mi è assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi segue. Io non vedo che infinità in tutte le parti che mi racchiudono, come un atomo e come un’ombra che non dura che un istante senza ritorno. Tutto quello che so è che devo presto morire, ma ciò che ignoro maggiormente è questa morte stessa che io non saprei evitare». (n. 335)
Domande alle quali aveva risposto per secoli la fede, ma adesso sembrava potesse darvi risposta la ragione. Come metterle insieme? A chi rivolgersi? E ancora: che rapporto c’è fra le due? Pascal suggeriva ancora la pista, con due pensieri lapidari: «Due eccessi: escludere la ragione, non ammettere altro che la ragione» (n. 3). «L’ultimo passo della ragione è riconoscere è che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano; essa non è che debole, se non arriva a riconoscere questo» (n. 466). I libertini che aveva di fronte, indifferenti ai grandi temi dell’esistenza e solo intenti a giocare a carte e a divertirsi, venivano provocati, scossi, obbligati a riflettere. Imbarcati anche loro sulla barca della vita. Anche loro, come tutti, “condannati a morte” per il solo fatto di essere venuti alla vita: «Ci si immagini un gran numero di uomini in catene, e tutti condannati a morte, di cui gli uni siano ogni giorno sgozzati alla vista degli altri; coloro che restano vedono la propria condizione in quella dei loro simili, e, guardandosi gli uni e gli altri con dolore e senza speranza, attendono il loro turno. È l’immagine della condizione degli uomini» (341). Nonostante le contraddizioni che lo attanagliano, l’essere umano è chiamato, da Pascal, a interrogarsi sulla sua condizione: «Quale chimera è dunque l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, sprovveduto verme della terra; depositario del vero, cloaca d’incertezza e di errore; gloria e rifiuto dell’universo. Chi sbroglierà questo garbuglio?» (n. 438)
Penetrando nella lettura di Pascal, era solo questione di tempo, si giungeva prima o poi al fondamento sul quale quei pensieri poggiavano: il desiderio di Dio e la gioia di averlo trovato in Gesù Cristo. Quanto misticamente sospirato, forse gridato, nel Memoriale, era già presente, come in filigrana, lungo il percorso della maggior parte dei Pensieri. Un Dio cercato nella sofferenza, nel chiaroscuro, ma sempre cercato come la cosa più importante del mondo. Un Dio che sembrava allontanarsi proprio quando si riteneva già di possederlo: «Ecco quello che vedo e che mi turba. Guardo da tutte le parti, e non vedo dappertutto che oscurità. La natura non mi offre nulla che non sia materia di dubbio e di inquietudine. Se non vi scorgessi nulla che indicasse una divinità, mi determinerei alla negatività; se vedessi dappertutto i segni di un Creatore, riposerei in pace nella fede. Ma, poiché vedo troppo per negare e troppo poco per assicurarmi, io sono in uno stato compassionevole, in cui ho desiderato cento volte che, se un Dio sostiene la natura, questa lo indichi senza equivoco, e che, se i segni che essa ne fornisce sono ingannevoli, essa li sopprima del tutto; che essa dica tutto o niente, affinché io veda qual partito debba seguire. Invece, nello stato in cui sono, ignorando ciò che sono e ciò che devo fare, io non conosco né la mia condizione né il mio dovere. Il mio cuore tende tutto intero a conoscere dov’è il vero bene, per seguirlo; nulla mi sarebbe troppo caro per l’eternità» (n. 414).
In compagnia di Pascal capivi che la vita era una cosa seria, molto seria. E che la ricerca di Dio era ed è ciò che maggiormente mostrava di averlo capito. L’incontro con Gesù Cristo aveva per Pascal il sapore di una liberazione, non solo il valore di un approdo. È il Cristo che troverà nell’esperienza mistica del 23 novembre 1654: «Fuoco... Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe. Non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. […] Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia. Io me ne sono separato; Dereliquerunt me fontem aquae vivae. Dio mio, mi abbandonerete? Che io non ne sia separato in eterno. […] Gesù Cristo. Gesù Cristo. Io me ne sono separato: l’ho fuggito, rinnegato, crocifisso. Che io non ne sia mai separato. Non lo si conserva che per le vie insegnate dal Vangelo». Chi cerca un senso nella vita, chi cerca la verità, chi cerca Dio, se cercatore sincero, non può farlo con meno fervore. L’epoca odierna ci chiama ad esercitare una nuova fede nell’uomo. Fede che l’essere umano, nonostante la secolarizzazione e l’indifferenza religiosa, il pragmatismo e il consumismo che lo imprigionano, sia ancora capace di guardare dentro di sé e di guardare verso l’altro, sia ancora capace di desiderare Dio. E di trovarlo. Anche a costo di mettersi in discussione fino in fondo, senza sconti, come Blaise Pascal.