La nozione di diritto naturale, nella sua accezione più ampia, rimanda all’idea di un ordine preesistente e indipendente rispetto le contingenze della storia, che necessita di essere scoperto e quindi positivizzato – nel senso di posto, fissato (positum) – dall’uomo.
Questa è un’intuizione che accompagna le società umane sin da tempi risalenti e che proprio per questo è stata declinata in modi anche assai diversi a seconda dei contesti. Tra le molteplici prospettive giusnaturaliste ve ne è una, però, che possiamo senza troppe cautele ritenere costitutiva della tradizione giuridica occidentale: quella sviluppatasi a partire dalla riflessione filosofica greca e giunta, per il tramite del suo recupero da parte della cultura cristiana, a informare le nostre carte costituzionali e dei diritti.
Non è agevole né utile racchiudere in poche righe questa complessa e affascinante vicenda, già di per sé tutt’altro che omogenea e lineare. Se ne può però sottolineare una caratteristica, importante ancora oggi per una piena comprensione del nostro mondo: tra le varie accezioni che i pensatori dell’antichità hanno riconnesso al diritto naturale, particolarmente significativa e capace di perpetuarsi con pervicacia attraverso i secoli sarà quella di diritto razionale, conforme a ragione. Non un mero insieme di regole fissate più o meno arbitrariamente di cui si paventa un’origine divina e che chiedono di essere riconosciute a discapito della libertà (e quindi della responsabilità) dell’uomo, ma un modo di porsi davanti al reale anche nei suoi aspetti più fattuali, uno sforzo intellettuale faticoso orientato alla ricerca del giusto e delle vie per attuarlo.
Una prospettiva, questa, che troviamo in germe già nel Platone (427-347 a.C.) dei dialoghi La Repubblica e Le Leggi e che sarà ampiamente sviluppata dai pensatori stoici di età ellenistica e romana. Celebre è l’affermazione di Cicerone (106-43 a.C.) per cui esisterebbe una vera legge coincidente con la retta ragione e conforme alla natura, universale, immutabile, eterna, non derogabile da parte dell’uomo in quanto di origine divina (De Republica, III, 33)
Questa acquisizione verrà fatta propria dal cristianesimo in un processo di reciproca inculturazione, che fornirà sin da subito alla nuova religione gli anticorpi per evitare fanatismi e derive anti-razionalistiche. Come ben compendiato da Benedetto XVI nel suo discorso al Reichstag di Berlino il 22 settembre del 2011:
Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato. […] Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.
Sarà anzi proprio nel contesto della riflessione cristiana, grazie alla Scolastica medievale, che la nozione di diritto naturale troverà una compiuta messa a sistema. San Tommaso d’Aquino (ca 1225-1274), nella Summa Theologiae, individua quattro tipologie di diritto: eterno, naturale, divino e umano. La lex aeterna altro non è che la ragione di Dio nella sua accezione di ordinamento provvidenziale della creazione. Da questa dipende strettamente la lex naturalis, l’insieme di quei precetti posti sì dalla ragione divina, ma conoscibili da tutti gli uomini, indipendentemente dal loro credo, grazie all’uso della razionalità: fare il bene ed evitare il male. Accanto a questa dimensione l’Aquinate pone quella ulteriore della lex divina ricomprendente le regole impossibili da attingere con le sole forze umane e quindi conoscibili esclusivamente grazie alla Rivelazione (amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano). Un insieme di norme certo importante ma, tutto sommato, quantitativamente ridotto rispetto al precedente. In questo quadro, logicamente subordinato ma comunque essenziale è il diritto posto dagli uomini (lex humanitus posita), cui spetta il compito di tradurre il diritto naturale nella concretezza del vivere sociale con una normazione precisa.
Sebbene questa teorizzazione, fondata sull’identità tra trascendenza e razionalità, rimanga tutt’oggi ampiamente fruibile, sin da subito fu messa in discussione da parte delle tesi volontariste e giusrazionaliste, che ne comportarono la progressiva marginalizzazione lungo il corso dell’età moderna.
Le prime accentuando l’elemento volontaristico a discapito di quello razionale porranno le basi per l’affermarsi, tra Settecento e Ottocento, del positivismo giuridico: la dottrina in base alla quale il diritto si esaurisce nel comando del sovrano, sia esso il re assoluto o un’assemblea elettiva. Il giusrazionalismo (XVI-XVII secolo), al contrario, esalta la dimensione razionale del diritto naturale, ma lo fa in una prospettiva di dichiarata secolarizzazione – il contesto è quello delle guerre di religione seicentesche – negandone il fondamento trascendente. Dalla riflessione sul diritto naturale in senso oggettivo si passa così alla ricerca affannosa dei diritti naturali soggettivi, ricavabili per via di deduzioni logiche da principi autoevidenti per ragione (non danneggiare gli altri, rispetta i patti). Un’operazione che nasce e si esaurisce all’interno della mente pensante dell’uomo, del tutto indipendente, quindi, dall’esistenza di Dio («jus datur etiamsi daremus Deum non esse», Ugo Grozio, De iure belli ac pacis, Prolegomena, 8, 1625).
I frutti maturi di questa stagione del pensiero, dal punto di vista della storia giuridica, saranno due. Da un lato il proliferare, a partire dalla fine del XVII secolo, delle carte dei diritti: il Bill of Rights inglese (1689), la Declaration of Independence statunitense (1776), la Déclaration de droits de l’homme e du citoyen francese (1789). Tutti documenti importanti, finanche epocali, e pure viziati da un’astrattezza di fondo che li renderà incapaci di immediate ricadute pratiche. Dall’altro versante, si assisterà invece all’affermarsi dei codici (civili, penali, di procedura) ottocenteschi, insiemi chiusi di norme poste dal legislatore, intesi come autosufficienti e non eterointegrabili, sordi ad ogni istanza etica.
La necessità di un orizzonte di giustizia alto, capace di andare oltre le dichiarazioni di principio e sulla base del quale valutare o meno la bontà del dato legislativo, riemergerà drammaticamente con le grandi tragedie del secolo scorso. A questo rinnovato bisogno tenterà di rispondere una nuova generazione di carte costituzionali – in particolare, per ovvie ragioni, quelle della Repubblica italiana (1948) e della Repubblica Federale di Germania (1949) – e dei diritti, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 o la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950. Tutti documenti che parlano espressamente di diritti innati e inviolabili dell’uomo, che lo Stato dovrebbe limitarsi a riconoscere e tutelare.
Nonostante ciò, oggi, per il giurista – a differenza che per il filosofo – parlare di diritto naturale è di fatto quasi impraticabile. Come rilevato con una certa ironia da un grande maestro della Storia del diritto, Paolo Grossi (1933-2022) «fatti salvi i giuristi di ispirazione dichiaratamente cattolica, il giurista moderno ha sempre avuto una buona dose di pudore nel parlare di diritto (legge) naturale, probabilmente per quel certo lezzo di metafisica che inevitabilmente comportava» (Prima lezione di diritto, 2003).
Ciò accade per almeno tre ordini di cause. Il primo: la tendenza a rifiutare la riflessione metafisica, atteggiamento che caratterizza l’epoca contemporanea, nella quale ancora gioca un peso assai rilevante l’eredità del positivismo filosofico. Il secondo: la diffidenza di gran parte dell’opinione pubblica per tutto ciò che possegga uno stretto rapporto con il cristianesimo o la cultura da esso generata. Il terzo: discorrere di diritto naturale evoca una dimensione di staticità, conservazione, reazione; prospettiva difficile da sostenere in un mondo come il nostro che, giustamente, davanti le molte crisi con cui siamo chiamati a confrontarci, ha fame di riforma, cambiamento, innovazione.
Eppure, tutte queste motivazioni, a uno sguardo che non si accontenti della superficie delle cose, appaiono infondate. Lasciando da parte il discorso sulla metafisica, la cui necessità può essere messa in discussione solo dai poco informati, recuperare oggi un pensiero forte di stampo giusnaturalista, lungi da un ritorno all’antico, potrebbe essere proprio l’occasione per fondare una nuova cultura riformista orientata alla tutela e alla piena realizzazione della persona umana. I tempi sono maturi per questa ripresa.
È, infatti, evidente come il discorso relativista che ha egemonizzato la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, più o meno consapevolmente, sia divenuto regressivo in favore di una riscoperta di “principi non negoziabili”. E ciò è avvenuto in contesti anche molto distanti da quelli di ispirazione cristiana. Basti pensare alle istanze di movimenti come Black Lives Matter o Fridays for Future. Tutti ambienti dove le asserzioni assiologiche radicali e la richiesta di comportamenti eticamente orientati, spesso in contrasto con il diritto vigente, sono all’ordine del giorno.
Certo, su quali siano i valori da perseguire, su come attuare gli obiettivi di giustizia e finanche sulla nozione di persona vi sono palesi divergenze di vedute tra le diverse proposte. Eppure, la comune consapevolezza dell’esistenza di evidenze etiche irrinunciabili potrebbe (dovrebbe) essere il primo passo per impostare un dialogo finalizzato alla ricerca condivisa del loro fondamento e da qui ridiscendere verso una precisazione dei contenuti.
È inoltre necessario rifuggire dall’idea per cui un approccio fondato sul diritto naturale sia di per sé “conservativo” della realtà sociale. La grande acquisizione illuminista di utilizzare il diritto per plasmare la società verso una maggiore felicità è, infatti, già implicita nella tradizione giusnaturalista qui appena abbozzata. Il cristianesimo, in particolare, aprendo il tempo a un divenire di salvezza, ha dato piena legittimazione alla riforma sociale finalizzata alla ricerca costante di un bene condiviso. Proprio in questo senso può essere letta la celebre definizione tomista di lex: «ordine della ragione finalizzato al bene comune, promulgato da chi è incaricato della cura della comunità» (Summa Theologiae I-II, q. 90, art. 4).
In altri termini: parlare di diritto naturale non significa porre degli standard minimi, ma altissimi, la cui realizzazione da parte del diritto umano non può limitarsi al mantenimento dei rapporti sociali esistenti, spesso viziati da ingiustizie e diseguaglianze, ma richiede un incessante adeguamento delle strutture del vivere civile alle sempre nuove esigenze dei tempi. Prospettiva peraltro ribadita, con più o meno cautele a seconda del contesto storico, dalla Dottrina Sociale della Chiesa a partire dall’enciclica Rerum Novarum (1891) di Leone XIII:
È chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell'uomo. […] A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono concorrervi ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di quell'ordine provvidenziale che governa il mondo […] I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità.
Tuttavia, affinché il discorso giusnaturalista sia oggi terreno per un proficuo confronto tra soggetti provenienti da esperienze anche distanti, accomunati dalla percezione comune dell’esistenza di ingiustizie e dalla volontà di superarle, come qui prospettato, è necessario preliminarmente un nuovo sforzo intellettuale. Una fatica che deve ripartire dalla fiducia nella ragione umana e nella sua capacità di avvicinarsi al vero. Solo, infatti, con l’esercizio diligente e disciplinato – qui la metafisica ritorna essenziale – della recta ratiodi ciceroniana memoria potranno evitarsi i rischi che pure sono insiti in questa operazione: riempire i concetti di giustizia e diritto naturale con contenuti arbitrari, con il pericolo di letture che sviliscano invece di difendere la dignità della persona; ridurre il diritto naturale a sterili e sterminati elenchi di norme “igienico-sanitarie”; fermarsi alle mere dichiarazioni di principio, buone per tutte le occasioni, ma prive della forza di scuotere la società.
Un compito sicuramente difficile, ma anche irrinunciabile e appassionante, cui oggi sono chiamati non solo giuristi e filosofi, ma prima ancora tutti gli attori consapevoli del vivere civile.