Qualche settimana fa mi trovavo al Museum of the Bible di Washington DC, durante un soggiorno di ricerca. Mentre passeggiavo tra le sale riflettevo su alcune parole dell’enciclica Fides et Ratio (14 settembre 1998): «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. […] Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione» (FR 83).
Per una “fortunata” coincidenza ero appena entrato in una esibizione speciale del museo, intitolata “Scripture and Science: Our Universe, Ourselves, Our Place”. Il visitatore non può ignorare, davanti alla straordinaria panoramica offerta da queste sale, come la fede e la filosofia implicita della Sacra Scrittura (cf. FR 80) abbiano contribuito a plasmato alcune delle più grandi figure del mondo della scienza. Con le loro scoperte grandi uomini di ogni tempo rivoluzionarono la nostra visione del mondo o, forse più esattamente, ci hanno aiutato ad entrare più in profondità nel mondo in cui viviamo. Di sala in sala sfilavano davanti ai miei occhi foto e idee di scienziati cristiani. Ho volutamente evitato di dire “hanno saputo combinare nella loro vita la loro professione e la loro fede” perché in molti di questi casi questo connubio non era esplicito, ma semplicemente vissuto, “incarnato” potremmo dire. Per servirci dell’immagine di avvio di Fides et Ratio – quella che paragona la fede e la ragione alle due ali con cui lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità – un uccello non si propone astrattamente di volare con due ali, sbattendo prima l’una e poi l’altra: o vola con entrambe, o non vola (FR 1).
Così fecero Isaac Newton, Niccolò Copernico, Galileo Galilei, ma tanti altri ancora. Potremmo aggiungere anche a questo elenco alcuni antichi testi citati nella mostra: dai Salmista (Salmo 104), all’autore del libro della Sapienza (Sap 7-9) e dei Proverbi (Pr 8-9), non pochi Padri della Chiesa.
«Glorifichiamo l’Artefice sovrano del creato che ne rivela la sapienza e l’arte – scriveva Basilio di Cesarea –; dalla bellezza delle cose visibili riconosciamo Colui che supera ogni bellezza, e dalla grandezza di questi corpi sensibili e limitati, consideriamo per analogia Colui che è infinito e immenso e supera ogni pensiero nella grandezza della sua potenza» (Esamerone, Omelia 1, II, 7). Si diventa scienziati per una “vocazione” a essere migliori, direbbe Copernico. Perché la tensione verso la verità, riflessa dalle cose più sublimi, dovrebbe portare chi le studia a essere un uomo migliore in par misura (cf. La rivoluzione delle sfere celesti (1543), I, [proemio], UTET, Torino 1979, 180). Per Keplero, essere astronomi voleva dire essere «sacerdoti del Dio Altissimo con rispetto al libro della Natura» e dunque in quanto astronomi «è nostro dovere tendere non alla nostra gloria, ma, al di sopra di tutto, alla gloria di Dio» (Letter to Herwath von Hohenburg, 26.3.1598). A questa lista potremmo aggiungere come esempi di una straordinaria sinergia tra scienza e fede cristiana alcuni personaggi del secolo scorso: Dorothy Vaughan, George Lemaitre, Mary Kenneth Keller, Francis Collins.
Ad accogliere i visitatori in ciascuna delle sale erano le grandi domande poste dall’esistenza umana che la ragione filosofica si pone e a cui la sapienza teologica offre una risposta: Come è cominciato tutto? Cosa mantiene in moto l'universo? Come è nata la vita? Cosa ci rende umani? Cosa possiamo realizzare? Come finirà tutto? Sono le domande che si posero molto tempo prima i grandi sapienti della Bibbia. Domande a tal punto fondamentali da essere riservate all’ambito religioso. Risposte che non si sono potute esprimere semplicemente in parole, ma hanno dovuto “incarnarsi” in una Parola.
Sappiamo infatti che la Sapienza (haghia sophia) è il luogo delle idee eterne di Dio sulla creazione e scritte in due libri: la Bibbia, la natura. La stessa figura di Gesù di Nazaret, il Cristo, è secondo san Paolo “Sapienza di Dio”(1Cor 1,24; «Così è della sapienza di Dio, il Verbo di Dio, il Signore Gesù Cristo è dovunque presente, perché la verità è dovunque, la sapienza è dovunque», Agostino, «Omelia 35», Commento al Vangelo di san Giovanni, 4)
I sapienti erano coloro che avevano ricevuto un enorme dono da parte di Dio, quello di conoscere e comprendere il funzionamento e il senso dell’universo e dell’uomo, rappresentando quel connubio tra santità di vita e scienza che ci permette di vedere oggi nella figura del sapiente della bibbia non una figura sola – come sarebbe ovvio – ma due figure: un santo e uno scienziato. Nella figura di Cristo, la figura biblica della Sapienza si riveste di carne umana, per rendere partecipe della vita di Dio la natura umana, rendendo possibile la conoscenza integrale nella divino-umanità di Gesù Cristo. A partire dalla filosofia del tardo Medioevo, come la stessa enciclica mostra, si cominciarono a separare ragione e fede, filosofia e teologia, scienza e santità di vita (FR 47-48).
Giovanni Paolo II propone, nella filigrana di Fides et Ratio, un fondamentale principio antico e sempre nuovo per fare scienza. Ritornare all’ideale sapienziale, l’unico e universale ideale che permette di concepire la sinergia tra fede e ragione, tra conoscenza naturale e soprannaturale. L’apertura alla trascendenza, ricorda Giovanni Paolo II, non è un optional per l’essere umano, ma è una sua una caratteristica intrinseca. L’istanza metafisica è perciò imprescindibile (FR 83). L’uomo può rinunciare al perseguimento della verità, ma nel negarla deve pagare un costo inaccettabile: venire a patti con la propria umanità. Per questo motivo ogni filosofia, etimologicamente intesa, non può imporre alla ragione la rinuncia al perseguimento della verità, o diluirla nella storia, o accontentarsi di vie di mezzo (FR 87-90). Ogni vera filosofia, ogni vera scienza, non può ambire a niente di meno che la Verità.
La parola “sapienza” non è tra le parole più frequenti del lessico dell’enciclica (44 volte); “verità” è forse la parola più frequente (326), più di “fede” (213) e “ragione” (162) prese separatamente. La dimensione sapienziale riveste comunque una posizione di estrema importanza nella sua economia, quasi da permetterci di leggere Fides et Ratio oggi come una vera e propria “mappa” su come vivere l’impresa scientifica con quello spirito di interdisciplinarità, integralità e radicalità che l’ha caratterizzata fin dalle sue origini.
Sono diversi i punti a ispirare questa visione all’uomo di scienza, in particolare il n. 81, nel quale si sottolinea la necessaria dimensione sapienziale della ricerca scientifica e la richiesta, rivolta alla filosofia, di non strangolare le proprie esigenze epistemologiche e di mantenersi nell’orizzonte sapienziale (FR 81). «Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico», sottolinea Giovanni Paolo II, «è una delle ricchezze più originali della tradizione cristiana nell'approfondimento della verità rivelata». La verità, per un credente, non è solo un oggetto da conquistare, o una gnosi a cui accedere, ma una Persona da amare seguire: Gesù Cristo. Egli non ha demonizzato la conoscenza scientifica, ma ci ha assicurato conoscendo Lui, «Via, Verità, Vita» (Gv 14,6), saremo autenticamente liberi. Ciò comporta che l’esercizio della scienza volto alla conoscenza della Verità assume un valore per così dire “redentivo”, ci restituisce la nostra dignità di esseri umani.
Pertanto, il Magistero della Chiesa si presenta come servitore della verità e ha dunque la responsabilità di intervenire quando l’uomo si accontenta di meno di quanto gli spetti: la Chiesa non può permettere che nell’uomo venga mortificato l’anelito a una conoscenza sapienziale, o quando – si passi l’improprio uso dell’immagine – col rasoio di Occam insieme ai capelli gli vengano recise anche le orecchie. Ecco perché gli scienziati oggi possono continuare a leggere in Fides et Ratio una meravigliosa catechesi sui principi del lavoro intellettuale, alla luce del Magistero.
Nel presentarsi come “mappa” dell’impresa teologico-filosofico-scientifica, Fides et ratio ricorre frequentemente all’esemplarità di figure di intellettuali, tra cui spicca quella di Tommaso d’Aquino (nn. 43-45) del cui pensiero l’enciclica esalta la novità perenne. L’Aquinate viene presentato come l’esempio del vero sapiente: capace di dialogare con le istanze filosofiche del suo tempo, profondamente convinto dell’armonia esistente tra fede e ragione, intellettuale rigoroso e strenuo difensore dell’esistenza della verità. Tommaso non temette di affrontare nuovi problemi – afferma il Papa – ed ebbe al contempo l’onestà intellettuale di non ammettere compromessi tra cristianesimo e filosofie profane, e di non rigettarne le istanze senza averle prima vagliate. In più passaggi egli viene presentato come l’archetipo della figura del sapiente, e proposto a modello (FR 44). Giovanni Paolo II si rese conto che le parole spese in favore della sua filosofia, specie se interpretate alla luce di Aeterni Patris , avrebbero potuto limitare la libertà metodologica dei ricercatori, e forse per questo motivo aggiunse qualche punto più avanti: «La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre» (FR 49). L’enciclica propone un modello di perseguimento della vera sapienza, ma non lo riserva a un metodo o una scuola di pensiero.
Le parole che l’enciclica usa per descrivere l’Aquinate possono (e forse devono) essere applicate a ogni scienziato. Sono parole analoghe a quelle che scrisse molti anni addietro un giovane Enrico Cantore, autore a me caro, in un suo scritto ancora inedito: «Abbiamo la scienza, manca la sapienza; come dice san Paolo: “sempre s’impara, e mai si giunge alla conoscenza della verità” (2Tm 3,7). Occorre un maestro che ci insegni, con l’esempio e la dottrina la via della sapienza. Ebbene, san Tommaso è questo maestro! San Tommaso è il vero sapiente!» (E. Cantore, In san Tommaso d’Aquino, Gallarate, 7 marzo 1951, inedito). Sono notevolissimi i paralleli tra il profilo in questo scritto sulla figura di san Tommaso come sapiente appassionato di Dio, e l’invito che l’enciclica rivolge ai filosofi ad appassionarsi alla verità e «al bene che il vero contiene» (FR 106).
Mentre osservo i volti dei molti scienziati cristiani presenti nelle sale di questa mostra a Washington, e penso ai corridoi delle nostre università e alle nostre scrivanie, avverto una profonda connessione con le parole che Giovanni Paolo II rivolse agli scienziati nella conclusione dell'enciclica. Dimostrando ammirazione e incoraggiamento a coloro che si occupano di ricerca scientifica, il Papa li esortava a perseguire i propri sforzi mantenendosi sempre all'interno dell'orizzonte sapienziale, in cui le acquisizioni scientifiche e tecnologiche si uniscono ai valori filosofici ed etici, che costituiscono la manifestazione caratteristica e indispensabile della persona umana. Come scienziati, siamo infatti consapevoli che la ricerca della verità, anche quando si focalizza su una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non si esaurisce mai; essa ci spinge costantemente verso qualcosa che va oltre l'oggetto immediato dei nostri studi, verso interrogativi che aprono la porta al Mistero stesso:
«Non posso non rivolgere, infine, una parola anche agli scienziati, che con le loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell'universo nel suo insieme e della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti, animate ed inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a stupirci. Nell'esprimere la mia ammirazione ed il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l'umanità tanto deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell'orizzonte sapienziale, in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona umana. Lo scienziato è ben consapevole che la ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero» (FR 106).