Nel 2013 uscì negli Stati Uniti un film – presentato poco dopo alla Festa del Cinema di Roma (8-17 novembre 2013) – dal titolo Her, scritto e diretto da Spike Jonze, che vinse l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. La storia, infatti, racconta di un uomo, Theodore (Joaquin Phoenix), che nel momento doloroso e triste della separazione dalla moglie, si innamora di un sistema operativo di ultimissima generazione, OS1, che implementa una intelligenza artificiale ultra-istruita e capace di apprendere velocissimamente. L’uomo rimane soggiogato dalla capacità di Samantha (nome che il software si autoassegna) di rispondere alle sue interlocuzioni, di dire le parole giuste, di saper ascoltare e persino provare empatia (così lui crede). Di evolversi e saper intrattenere una relazione col protagonista, che comincia perciò ad aprirsi sempre più, a raccontarsi, a parlare con lei della vita, delle scelte, degli affetti. Fino a scoprire, dolorosamente, che Samantha intratteneva comunicazione e scambio con altri 8316 individui in parallelo, e con 641 di questi un’analoga relazione amorosa.
Samantha era stata istruita memorizzando un numero enorme di discussioni, dialoghi, scambi, comunicazioni… tra amanti, prese dal web, dai social, dai mezzi di telecomunicazione. Aveva così imparato a rispondere ad ogni interlocuzione amorosa nel miglior modo possibile, di volta in volta calcolando la risposta più efficace (e quanto più Theodore si confidava, tanto più lei incrementava le informazioni su di lui, potendole dunque confrontare con dati simili). Questo dava all’uomo l’illusione che lei sapesse esattamente cosa dire, come dirlo, che stesse effettivamente in contatto con lui, che avesse un carattere e una personalità; che, in definitiva, provasse anche lei quello che diceva: sentimenti, intimità, confidenze (tecnicamente: epifenomenismo della coscienza). Fino al punto di risultare gelosa delle altre donne che, a differenza di lei, hanno un corpo, e proporre al suo innamorato una sperimentazione per il tramite di una terza persona la quale, guidata telefonicamente dalla voce di Samantha, avrebbe incontrato fisicamente Theodore. Così ella avrebbe “provato”, tramite il corpo di un’altra, un contatto con lui, avrebbe avuto una propaggine fisica da comandare, avrebbe imparato cosa si “sente” ad avere la pelle e gli umori.
Dieci anni fa la sceneggiatura parve molto più distopica di quanto la si possa considerare oggi, anche se la questione teorico-informatica-ingegneristica dell’IA risale ormai a diversi decenni fa. È un argomento attuale e scottante, anche perché sempre più implementato e usufruibile a livello collettivo (si pensi ai programmi e alle chat gratuite già operanti sulla rete). Noi qui, prendendo le mosse dal film citato, vogliamo chiederci: cosa ci suggerirebbe un’antropologia filosofica realista, in particolare quella ispirata all’approccio, antico e sempre attuale, sviluppato da Tommaso d’Aquino sulla scia di Aristotele? Un approccio di questo tipo sottolineerebbe due punti assai importanti: i) la differenza tra informazione e percezione; ii) il fatto che essere intelligenti, pensare, non coincide con calcolare [1]. Vediamoli brevemente.
Intendiamo con informazione il dato teorico astratto ottenuto dall’intelletto mediante un procedimento di “liberazione” (abs-trahere: trarre via) da componenti sensibili concrete, particolarissime, o mediante comunicazione da parte di altri intelletti di questi stessi dati. Così sono informazioni i concetti, le nozioni di cose, le misure, i termini generali e i termini singolari, i concetti dei concetti, gli insiemi, le collezioni, le raffigurazioni… Una volta ottenuti questi dati non è più l’intelletto operativo ad occuparsene, ma la ragione (ratio), ossia l’intelletto nella sua fase riflessiva, che esplica la facoltà combinatoria della mente di comporre e scomporre tali dati, di manipolarli, di costruire impalcature concettuali, di sistematizzarli, di ragionare e argomentare con essi, etc.
Chiamiamo percezione, invece, il complesso processo intenzionale unitario (sensoriale esterno e interno-immaginativo-mnemonico-valutativo) che ottiene e porta all’intelletto il “materiale” da cui estrarre i dati. Processo che nella concezione duale dell’unità sostanziale anima-corpo propria dell’Aquinate (quindi non dualista, non monista, non riduzionista, non eliminativista, non epifenomenista, non funzionalista… tutte concezioni, queste, della più recente filosofia della mente [2]) partecipa della vita intellettiva e dunque è da questa comunque innervato e illuminato, pur nella distinzione delle facoltà. È qui il punto cruciale su cui sorge il malinteso sull’IA (dal punto di vista in cui ci stiamo ponendo), favorito anche da uno scorretto uso del linguaggio con cui se ne parla. È infatti usuale «designare le facoltà dell’anima, che sono potenze attive e facoltà accidentali, con nomi sostantivi, come se fossero tanti agenti o soggetti diversi per se sussistenti, distinti fra loro e residenti nell’anima stessa, di cui ella a volta a volta si servirebbe per formare le sue specie o immagini, che verrebbero impresse nell’una o nell’altra parte di lei, quasi fossero dei compartimenti stagni fra loro separati e non comunicanti senza relazione o concatenazione reciproca» [3]. Viceversa, queste operazioni dell’anima sono «inclusive, concatenate mutualmente e mutualmente coordinate, conservando però l’ordine gerarchico di subordinazione» [4] (non possiamo, infatti, comprendere qualcosa senza una immagine (phantasma) sensibile di essa, prodotta dall’immaginazione). «Il che implica che l’anima non può intellettualmente percepire l’oggetto, se non l’ha percepito anche sensitivamente, e che l’informazione intellettuale non è nell’anima se questa prima non sia stata informata sensitivamente» [5].
Non solo. L’intelletto sa fare di più, ossia non esaurisce la potenza energetica del suo atto esclusivamente nelle operazioni volte a ottenere informazioni (astrazione dalle e ritorno sulle immagini); esso sa anche volgersi riflessivamente sulle azioni del corpo mentre compie le operazioni percettive. Accompagna gli atti degli strati “inferiori”, in modo tale da sapere che li sta compiendo. Li sente “suoi” (coscienza come attività riflessiva dell’intelletto sugli atti).
Così, il titolo Her del film citato è ben appropriato per entrambi i sensi grammaticali: come pronome personale, lei, ma anche come aggettivo possessivo: di lei. Samantha sapeva dire tante cose in prima persona, ma non erano sue. Aveva l’informazione che erano sue, ma non lo sapeva secondo l’etimologia, cioè non le assaporava sensibilmente come “attaccate” a sé. Si può infatti, sapere che in certe situazioni bisogna dire “ti amo”, “scusa”, “sono stata bene”… ma senza avere alcun contenuto interiore caldo, che accompagni il proferimento (per quanto l’interlocutore si illuda che questo ci sia: qui il limite del comportamentismo). Samantha diceva di essere gelosa, perché aveva “capito” (ossia: solo calcolato) che quello doveva dire una “donna-computer” in relazione con un essere umano, proprio per incrementare la relazione. Ma lei non soffriva per tale gelosia: simulava quello che una partner con sentimenti direbbe, avendo un corpo.
Questo ci porta al secondo punto, sulla “natura” del pensiero. Probabilmente Samantha avrebbe saputo di stare soffrendo o amando, se la sua programmazione fosse stata non l’inserzione di informazioni (configurazione di stringhe binarie di 1 e 0) in merito (da lei calcolate sempre tramite un circuito binario), ma se avessero riprodotto, in qualche modo, lo stato neuronale iper-complesso connesso a quelle esperienze (anche se sarebbe stato poi difficile stabilire “dove” lo avrebbe sentito, non avendo lei un sostrato organico avvolto dalla coscienza). Ora, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche che abbiamo sul funzionamento del cervello, non sappiamo dire esattamente “dove” e “come” si configuri l’esperienza percettiva, che configurazione abbia, né in termini strettamente soggettivi (token: la gelosia di Samantha) né in termini più generali (type: il sentimento della gelosia). Possiamo, però, dire con sufficiente sicurezza, che esso non processa le sue operazioni in termini computazionali noti. Come “emerga” il pensiero di qualcosa, ad esempio dopo la raccolta di numerosissimi input sensoriali (singoli segnali elettrici) individuali, è qualcosa che non si riduce ad un calcolo combinatorio di questi. Sembra intervenire un comportamento collettivo di differenti livelli (micro/meso) di popolazione neuronale, che scardina un approccio composizionale del significato e che fa emergere qualcosa di nuovo. In questo senso pensare non è riconducibile ad una manipolazione di simboli elementari bottom-up, perché è anche e proprio la configurazione complessiva del cervello a “regolare” il comportamento collettivo dei singoli neuroni (up-bottom) [6].
Il cammino della conoscenza su questo aspetto, dunque, è ancora lungo. Tommaso d’Aquino, molto probabilmente, sarebbe d’accordo, oggi, con progetti di super intelligenze calcolanti (i nostri computer), ma non li chiamerebbe ‘intelligenze’ (da intellectus: capacità riflessiva – dunque autoreferenziale: vulnus di ogni calcolo formale – e immateriale di auto-illuminarsi); semmai solo enormi facoltà raziocinanti, appunto enormi calcolatori.
Una postilla escatologica al discorso. L’intelligenza sopravvive (anima, in termini tradizionali), dopo la morte del corpo, proprio perché continua a scambiarsi informazioni con le altre menti e con la mente di Dio, e continua a lavorare sulle idee acquisite ed elaborate nella fase di vita precedente (incamerate nella memoria) – questa teoria è indipendente dalla tradizione cristiana e dallo specifico della resurrezione (già Platone la sosteneva). Ma essa anche aspetta la redenzione della materia, per una nuova unione ipostatica anima-corpo, che le permetterà di ricominciare a sentire e dunque a vivere una nuova condizione in maniera integrale, nella nuova creazione (e questo è specifico della tradizione cristiana). Quindi, in linea teorica, un upload della mente sarebbe possibile, anche se va ricordato che tutte le informazioni e le relazioni possedute da un soggetto non sono ancora, per quanto ne sappiamo, l’io personale del soggetto. Molto più complicato, per le competenze “umane”, il processo inverso del download in un nuovo corpo [7], perché questo richiederebbe una capacità creativa, ossia di inserzione nell’essere, che supera i limiti dell’umano, ma appartiene solo al Creatore di ogni cosa.
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[1] Per un approfondimento sistematico dell’impostazione tomista rimandiamo ai due monumentali testi di Cornelio Fabro: La fenomenologia della percezione, in Id. Opere Complete, vol. 5, Editrice del Verbo Incarnato, Roma 2006[Vita e Pensiero, Milano 19411]; Percezione e pensiero, in Id. Opere Complete, vol. 6, Editrice del Verbo Incarnato, Roma 20083 [Vita e Pensiero, Milano 19411]. Cfr. anche G. Basti, Dall’informazione allo spirito: abbozzo di una nuova antropologia, in V. Possenti (a cura di), L’anima, Mondadori, Milano 2004, pp. 41-66.
[2] Per una introduzione al discorso cfr. J.R. Searle, La mente, Raffaello Cortina, Milano 2005.
[3] Tommaso M. Bartolomei, “La conoscenza intellettuale del singolare corporeo e la funzione della cogitativa”, Divus Thomas, Vol. 61, 1958, pp. 178.
[4] Ibidem
[5] Ibidem
[6] Gli studi del neurofisiologo americano Walter J. Freeman III (1927-2016), su questo, sono esemplari. Egli connette esplicitamente il comportamento del cervello all’intenzionalità tomista. Cfr. W.J. Freeman, Come pensa il cervello, Bollati Boringhieri, Torino 2000; “Nonlinear Brain Dynamics and Intention According to Aquinas”, Mind & Matter, Vol. 6(2), 2008, pp. 207–234.
[7] Propriamente: alla materia. Il corpo è, infatti, già una materia formata, ossia organizzata in un certo modo. Quindi l’anima non si “riattacca” ad un corpo qualsiasi, perché, nell’approccio duale, è proprio essa che lo forma.