Ben ferma fra i ricordi dell’infanzia vi è una convinzione ferrea e granitica, con la quale ci si confronta insieme ai primi incerti passi mossi sulle gambe: gli oggetti e le persone cadono e non rimangono in piedi senza sostegno.
Ma, ecco, la vista di un bambino viene presto o tardi scossa da qualcosa di inaspettato, sorprendente e soprattutto meraviglioso. L’arco. Come fa a “star su”? Come è stato possibile costruirlo? Cosa gli impedisce di cadere? L’esistenza di una tale struttura sembra sfidare le più elementari leggi imparate durante la prima educazione al processo edilizio, quella per mezzo dei mattoncini giocattolo.
Inoltre, se si ha la possibilità di crescere in un luogo ricco d’arte e di storia, seguono rapidamente altre emozionanti scoperte: la volta, a botte, a crociera, gli archi e le volte a ogiva, che nelle chiese gotiche sembrano voler toccare il cielo, e infine, l’apoteosi, la cupola: questa enorme, voluminosa massa che si staglia verso l’alto, completamente vuota al suo interno.
Ormai, sull’onda della meraviglia iniziale, la mente del fanciullo inizia a comprendere un principio semplice ma determinante: alcune strutture non si sostengono grazie alla loro resistenza, compattezza o solidità, bensì grazie alla loro forma.
In una società industrializzata e per certi versi meccanizzata, dove ogni aspetto del vivere sembra ridotto alla correttezza di un calcolo, questo principio, fondato invece sulla dimensione creativa dell’intelligenza, coglie impreparati. Eppure, la sua scoperta risale ad epoche remote.
La tecnologia della cosiddetta portanza per forma si mostra intuitivamente già in strutture molto antiche, come le tombe a tholos micenee, il cui funzionamento è all’incirca replicato negli odierni, ma forse altrettanto antichi, trulli della Puglia, nell’Italia meridionale.
Avanzando lungo lo sviluppo della civiltà, i primi esempi di arco propriamente detto sono dalla storia dell’arte tradizionale associati al misterioso popolo degli Etruschi: mediante l’invenzione della cosiddetta chiave di volta diviene possibile costruire strutture che trasformano i carichi verticali in spinte orizzontali e ciò grazie ad una forma semicircolare che permette, in maniera controintuitiva, di aumentare la capacità portante elevando in altezza la struttura. Così facendo, un problema posto dalla tecnica viene risolto non in modo meccanico, adattando paradigmi già esistenti, bensì creandone di nuovi. La Porta all’Arco di Volterra è la testimonianza più comune, quasi abusato nei libri di testo, della capacità costruttiva di tale popolo.
Probabilmente, però, l’importanza degli Etruschi risiede nell’aver trasmesso la tecnologia dell’arco ai suoi più grandi utilizzatori, i Romani, che diffusero le loro scoperte in tutto il bacino del Mediterraneo e oltre. Questi ultimi non si limitarono ad impiegare l’arco sic et simpliciter, ma ne estesero l’applicazione ad una molteplice varietà di usi: un elenco completo delle prodezze ingegneristiche romane potrebbe essere sterminato, a titolo di guida basti pensare ai grandi ponti degli acquedotti od al più noto Colosseo di Roma, entrambi esempi di come la tecnologia dell’arco ripetuto permetta di raggiungere elevazioni e dimensioni elevate riducendo al minimo la massa necessaria alla struttura.
Non è possibile tacere però di come, a partire dalle semplici volte, i Romani siano stati in grado di scoprire le strutture che, forse a tutt’oggi, hanno prodotto le più affascinanti opere di ingegneria, le cupole. Non tragga in inganno l’enorme mole di queste poderose volte rotanti su se stesse, perché la genialità del loro funzionamento risiede proprio nella relativa facilità con la quale possono essere edificate: infatti la doppia e simmetrica curvatura che le caratterizza permette ad esse di sostenere il proprio peso già in fase costruttiva, rendendo in teoria superflue le opere provvisorie di appoggio (le cosiddette centine).
All’apice dello sviluppo, nel II secolo d.C. la civiltà romana riesce pertanto a realizzare quella che per più di un millennio è stata la più grande cupola mai costruita: la colossale volta del Pantheon, a Roma, tradizionalmente attribuito all’architetto Apollodoro di Damasco. In questo caso il senso comune sembra uscire clamorosamente sconfitto: non solo si riesce a coprire una superficie vastissima elevando in altezza la struttura, non solo tale enorme struttura diventa più sottile man mano che l’altezza aumenta, ma addirittura in sommità essa scompare, lasciando un oculo di dimensioni ragguardevoli, diventato poi il simbolo della cupola stessa. Ciò che appare controintuitivo assume senso studiando la statica della volta: la forma che i costruttori le hanno dato, foro compreso, è in realtà l’unica possibile capace di sostenerne l’enorme peso. Tutto l’edificio è dimensionato in funzione della cupola, con le possenti pareti di imposta che ne sostengono la spinta laterale, mentre l’alleggerimento progressivo verso la sommità, che culmina nel foro, permette che tali porzioni non collassino. In aggiunta alla funzione strutturale, l’oculo possiede anche una valenza estetico-religiosa, poiché il movimento del disco di luce da esso proiettato all’interno svolge un importante ruolo nel simbolismo del tempio: estetica, religione e funzionalità si trovano condensate insieme nella forma adottata per la cupola, come se esse fossero tutte trascese da un’unica causa.
Con il Medioevo la civiltà romana va incontro al declino ma le sue scoperte si diffondono in tutto il mondo ad essa prossimo: si pensi alle grandi cupole bizantine, come quella di Santa Sofia a Costantinopoli (l’attuale Istanbul), o ai capolavori dell’architettura islamica, ad esempio la Cupola della Roccia di Gerusalemme.
Tuttavia, per vedere in atto l’impiego più brillante e ardimentoso della portanza per forma è necessario tornare in Italia e precisamente nella Firenze del XV secolo, patria, fra gli altri, di un vero e proprio genio dell’ingegneria e dell’arte: Filippo Brunelleschi, ideatore e creatore della cupola della Basilica di Santa Maria del Fiore, cattedrale della città. Gli anni in questione sono frenetici e dinamici per Firenze e per tutti i Comuni italiani: secoli di vigorosa crescita economica e maggiori libertà civiche, di vivacità intellettuale e artistica nonché di riscoperta del patrimonio culturale degli Antichi, eventi i quali hanno ormai diffuso la percezione che nella società qualcosa sia cambiato per sempre. È il cosiddetto Rinascimento.
La città di Firenze si è da tempo posta una sfida: costruire la nuova cattedrale, ispirandosi allo stile gotico in voga a quel tempo, senza però avere un progetto ultimato per la copertura all’incrocio delle due navate. Un vasto spazio vuoto sovrasta l’altare della chiesa quasi ultimata, uno spazio talmente grande per coprire il quale forse non basterebbe neanche la cupola del Pantheon, la più grande mai vista sino ad allora. Replicare quella soluzione è tuttavia impossibile: a differenza del tempio romano, appositamente dimensionato in funzione della volta, le pareti di imposta nella chiesa fiorentina sono molto sottili e non reggerebbero il peso di una simile spinta. Inoltre, fatto ancora più importante, il perimetro di imposta presenta una forma ottagonale, facendo sì che qualsiasi copertura su di esso eventualmente costruita non possa essere una cupola (la quale è una superficie di rotazione) ma una volta a padiglione: ciò rende l’eventuale struttura non autoportante in fase costruttiva e quindi risulta obbligatorio l’uso di centine; in quest’epoca, tuttavia, non è possibile costruire centine che raggiungano l’altezza necessaria. Sembra un rompicapo irrisolvibile.
Come costruire senza centine una volta a simmetria assiale che minimizza la spinta laterale? Come costruire una cupola che non è una cupola? Ancora una volta la soluzione è completamente controintuitiva, frutto della creatività e del genio di Brunelleschi. La sua conoscenza dell’architettura romana è elevata; conoscenza che, è bene specificarlo, ha basi essenzialmente empiriche. Tuttavia, egli non si limita all’osservazione: possiede una comprensione talmente acuta e profonda della statica da riuscire mirabilmente a replicare il comportamento delle cupole classiche ma invertendolo. La sua volta, infatti, ha un funzionamento statico opposto rispetto a quella del Pantheon, sottile alla base e con una grande e pesante massa in sommità, la lanterna. Apparentemente impossibile, in realtà tutto trova il suo scopo grazie alla forma ogivale adottata: il peso si scarica in direzione quasi verticale all’imposta, minimizzando la spinta alla base, mentre la lanterna svolge proprio la funzione che nel Pantheon è svolta dall’oculo, chiudendo la cupola e fornendo un carico sufficiente ad equilibrare la spinta in sommità, dove è massima. Come rendere però tutto questo possibile, viste le considerazioni di cui sopra sul perimetro d’imposta ottagonale e sull’impossibilità di usare centine? Brunelleschi ha un’altra geniale intuizione: non è necessario che la volta sia architettonicamente una cupola, ma basta che lo sia staticamente, ovvero che abbia un funzionamento analogo. Ciò viene reso possibile (lo si è scoperto solo negli anni ’60 del XX secolo) dalla disposizione dei mattoni nello spessore della volta, disponendoli non paralleli ma convergenti verso un ipotetico centro (i corsi formano una curva a corda blanda, con una tessitura a spina di pesce), facendo come se la cupola fosse costruita con una pianta circolare ma sezionando idealmente parti di muratura seguendo i lati dell’ottagono. La forma continua quindi ad essere dominante nella soluzione del problema, anche a livello di singolo dettaglio. L’espediente della doppia calotta permette inoltre di alleggerire ancora di più il peso senza inficiare la resistenza, poiché collegando le due calotte nell’intercapedine è possibile far sì che si comportino come un’unica struttura. Anche in questo caso, la funzionalità e l’estetica sono un tutt’uno: lo slancio verso l’alto che la cupola possiede fa da coronamento allo stile gotico della cattedrale ed è un simbolo potente dell’aspirazione dell’uomo all’incontro con Dio.
La cupola di Santa Maria del Fiore è tutt’oggi la più grande cupola in muratura mai edificata e rappresenta un monumento alla creatività e al genio dell’uomo. Ciò è stato possibile facendo qualcosa che nessuno credeva fosse possibile fare, sfidando il senso comune e la pratica tecnica, ma senza per questo negare ciò che era pregresso, anzi donandogli un nuovo senso.
Ormai da tempo sono chiari all’ingegneria strutturale i principi che permettono ad una struttura di avere una portanza per forma ed essi trovano anche una compiuta rappresentazione matematica; eppure, nel pensiero comune il problema strutturale continua ad essere una mera questione di calcolo e di resistenza dei materiali utilizzati, nonostante gli sforzi di molti moderni Brunelleschi. Impossibile non citare in tal senso la monumentale opera dell’ingegner Pier Luigi Nervi (1891-1979), progettista e costruttore, grande artefice di meravigliose superfici di copertura, da lui ideate come soluzione sia di problemi strutturali sia di esigenze estetiche e che rappresentano un simbolo della vivacità culturale e sociale dell’Italia del miracolo economico.
Ma in fondo, dopotutto, non è la stessa storia che si ripete? Il racconto qui riportato non è forse quello dell’ingegno umano, che raccoglie successi quando cessa di essere chiuso nei propri finiti e limitati schemi e segue la dimensione creatrice ed innovatrice della Natura stessa, aperta all’abbraccio verso l’infinito? Per le grandi menti non è sufficiente il calcolo, per quanto necessario: a fare la differenza è la capacità di vedere oltre le apparenze, di cambiare il paradigma dominante e trovare sintesi sempre nuove e generative. E ciò, come già detto, è insito nella Natura stessa: essa dopotutto cos’è, se non un segno continuamente impresso da una Causa infinitamente perfetta ed irriducibile?
La struttura più grande, maestosa e spettacolare della storia dell’uomo non è nessuna di quelle citate sopra: è quella che verrà ideata domani.