Estetica e verità. La teoria della formatività di Luigi Pareyson

Stefano Oliva
Stefano Oliva
Professore associato di Estetica Università Niccolò Cusano - Coordinatore DISF Educational

Settant’anni fa Luigi Pareyson (1918-1991) pubblicava il suo volume Estetica. Teoria della formatività (1954) divenuto un vero e proprio classico dell’Estetica del Novecento. Uso non a caso il termine ‘classico’, sulla scorta di quanto insegnatoci da Italo Calvino: rispetto a questo tipo di opere, la lettura è sempre una rilettura e, di contro, ogni rilettura presenta il carattere della novità, sorprende cioè per la ricchezza che il testo è ancora in grado di offrire al lettore. 

 

In questo, saggio Pareyson espone la sua “teoria della formatività” per poi elaborarla, per quanto concerne il lavoro ermeneutico, nel volume Verità e interpretazione (1971). 

La formatività, riconducibile a quella che Aristotele chiama poiesis, è per il nostro Autore quel tipo di attività umana che si presenta come «un tal “fare” che, mentre fa, inventa il “modo di fare”» (L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Milano 2002, p. 18), ovvero come un work in progress in cui le regole non sono precostituite ma vanno definendosi nel corso dello stesso processo formativo. La formatività, che caratterizza l’attività umana in genere, si condensa nel fare artistico, che mostra in maniera esemplare il modo in cui la persona (nozione fondamentale nella teoria di Pareyson) coinvolta nel processo – ovvero l’artista –  imprime una forma in una materia. 

Contro ogni forma esasperata di dualismo, Pareyson sottolinea come materia e forma non siano due poli dialettici bensì due aspetti egualmente necessari, che si richiamo l’un l’altro. La forma non è quindi una essenza astratta, un’idea che si incarna accidentalmente in un sostrato materiale ma – ancora una volta in una prospettiva riconducibile ad Aristotele – un principio di organizzazione che ordina e, letteralmente, informa la materia, che dal canto suo è capace di accoglierla.

Una distinzione particolarmente interessante è quella tra due aspetti della forma: «bisognerà dire che la forma, oltre che esistere come formata al termine della produzione, già agisce come formante nel corso di essa» (p. 75). Laddove la forma formante rappresenta la legge di sviluppo che guida il processo fino alla sua conclusione (in analogia con quanto avviene in un organismo che, a partire dal seme, cresce fino a che non è giunto a maturazione), la forma formata appare invece al termine del percorso come compimento dell’opera ‘riuscita’.

Prendendo le distanze dall’impostazione crociana fino ad allora dominante, segnata da una certa 

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svalutazione degli aspetti materiali dell’opera d’arte a vantaggio di un primato dell’esperienza interna intuitivo-espressiva dell’artista, Pareyson rivaluta gli aspeti concreti e materiali del fare artistico, che si presenta come un processo dinamico che, attraverso tentativi più o meno riusciti, conduce dallo spunto alla piena realizzazione. L’artista non è dunque un progettista, che abbia già in mente l’opera compiutamente delineata, bensì una sorta di rabdomante che, deve cercare di portare a termine il suo lavoro giungendo alla perfezione che coincide con la forma formata. In questo processo però l’artista non è privo di guida: non è abbandonato cioè al proprio arbitrio ma deve seguire i suggerimenti che gli provengono dalla forma formante, che incarna la legge di sviluppo dell’opera stessa.

 

Scrive a tal proposito Pareyson:

La divinazione della forma si presenta perciò soltanto come legge d’esecuzione in corso: non legge enunciabile in termini di precetto, ma norma interna dell’operare teso alla riuscita; non legge unica per ogni produzione, ma regola immanente d’un singolo processo (p. 75).

 Alla forma formante spetta un ruolo centrale anche dopo che l’opera è compiuta: il processo formativo termina con la realizzazione della forma formata ma l’opera reclama di vivere ancora della vita che le è propria – secondo una suggestiva immagine proposta da Pareyson – ovvero chiede di essere interpretata. Di nuovo, nel lavoro di interpretazione – illustrato da Pareyson nelle sue linee essenziali nel volume del 1954 e poi compiutamente in Verità e interpretazione (1971) – l’interprete non è privo di sostegno ma, sintonizzandosi nuovamente con la forma formante, è in grado di ripercorrere e di comprendere il lavoro compiuto dall’artista.

Secondo Pareyson l’interpretazione è una forma di conoscenza che coinvolge da un lato una persona e dall’altro una forma, e che per questo motivo include tanto un aspetto di attività (il polo personale) quanto un aspetto di ricettività (il rispetto per l’opera). Tra queste due istanze potrebbe sorgere – e, in effetti, frequentemente sorge – un contrasto di tipo dialettico: nell’interpretazione, infatti, deve prevalere l’approccio personale dell’interprete o il dato rappresentato dall’opera? Sembra così delinearsi un’alternativa tra soggettività dell’interpretazione e oggettività della verità che Pareyson riesce a disinnescare affermando il carattere personale del lavoro ermeneutico. La verità dell’opera si dà sempre attraverso la lettura personale che ne dà l’interprete poiché, come scrive l’autore, «della verità non c’è che interpretazione e […] non c'è interpretazione che della verità» (L. Pareyson, Verità e interpretazione, in Opere complete di Luigi Pareyson, vol. XV, Mursia, Torino 2018, p. 53).

Pareyson non rinuncia a nessuno dei due poli e anzi li stringe in un rapporto inscindibile: la verità è attingibile solamente attraverso un lavoro di interpretazione, cioè attraverso una conoscenza personale, ma allo stesso tempo ogni lettura interpretativa non può prescindere da un confronto con la verità dell’opera, se vuole rimanere appunto un’interpretazione e non vuole trasformarsi in un nuovo processo formativo. Interpretare vuol dire essere fedeli alla verità, nella consapevolezza però che la verità è inesauribile e si dà soltanto nella molteplicità dei punti di vista personali, come una montagna che, sebbene unica, può essere scalata su diversi versanti, attraverso molteplici sentieri.

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Luigi Pareyson insieme a Gianni Vattimo, Umberto Eco e Hans-Georg Gadamer negli anni '80

Gli anni di insegnamento all’Università di Torino diedero frutto in generazioni di allievi – tra i nomi più rilevanti: Gianni Vattimo, Umberto Eco, Mario Perniola, Sergio Givone, Claudio Ciancio, Maurizio Pagano – che contribuirono a un profondo rinnovamento del panorama filosofico italiano. Ma dopo gli sviluppi teorici della ‘Scuola di Torino’ (in direzioni anche molto diverse rispetto all’insegnamento del maestro), negli ultimi anni si assiste a un rinnovato interesse per il pensiero di Pareyson, e in particolar modo per la sua estetica e per la sua ermeneutica, testimoniato da traduzioni delle sue opere in diverse lingue, convegni a lui dedicati, tesi di laurea e di dottorato, grazie anche alle iniziative del “Centro studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson” (http://www.centrostudipareyson.it/)

Tra i motivi dell’interesse suscitati dalla teoria della formatività nel panorama filosofico attuale vi è l’enfasi posta da Pareyson sul carattere dinamico del processo formativo, che pare offrire spunti utili per ripensare alcuni fenomeni come, ad esempio, la pratica artistica dell’improvvisazione (cfr. A. Bertinetto, Improvvisazione e formatività, “Annuario filosofico” 25, 2009, pp. 145-74; Id., Estetica dell’improvvisazione, il Mulino, Bologna 2021) o il design (Design, Gestaltung, Formatività. Philosophies of Making, ed. by P. Ribault, Basel, Birkhaüser, 2022).

Al di là delle singole tematiche e delle problematiche specialistiche che la teoria della formatività è in grado di illuminare, un elemento di profondo interesse può essere rintracciato nel rapporto  tra il pensiero di Pareyson e la tradizione estetica che mette capo a Kant, di cui peraltro il filosofo della formatività fu un autorevole esegeta. Il carattere avventuroso e non garantito del processo formativo, che vede l’artista intento in un lavoro costellato di tentativi ipotetici sotto la guida della forma formante, presenta una affinità evidente con la riflessività del giudizio di gusto, che deve risalire – usando una terminologia presa in prestito da un altro influente interprete kantiano, Emilio Garroni – dal caso al concetto, vale a dire dal particolare incontrato nel corso dell’esperienza all’universale che non è a disposizione in partenza ma deve invece essere trovato. In questo tentativo di risalire dal caso alla regola, dal particolare all’universale, il soggetto kantiano ha a disposizione il principio trascendentale della facoltà di giudizio; il maniera parzialmente analoga, l’artista pareysoniano ha invece la forma formante, seguendo la quale può condurre il processo fino alla perfezione della forma formata. 

Il carattere induttivo, tanto del giudizio estetico quanto del processo formativo delineato da Pareyson, riavvicina l’ambito dell’estetica al campo della ricerca empirica e alla logica della scoperta scientifica, vale a dire all’epistemologia, cui d’altra parte l’Estetica è correlata fin dalla sua nascita settecentesca come disciplina autonoma, a opera del filosofo tedesco Alexander Baumgarten. Questo modo di porre l’una accanto all’altra arte e scienza sotto il segno della creatività induttiva si inserisce in un percorso di ricerca tuttora aperto, e la ripresa di temi legati alla teoria della formatività di Pareyson potrà apportare ad esso nuovi elementi, come un albero che a distanza di anni non smette di produrre frutto.