Il dono della paternità: cosa è, davvero, il patrimonio?

Giampaolo Ghilardi
Ghilardi
Professore associato di filosofia morale Università campus Bio-medico, Roma

Mentre con il termine matrimonio si indica una realtà piuttosto chiara e definita, che radica nel munusmatris, il dono della maternità, con quello di patrimonio si indica per lo più l’orizzonte materiale dei beni associati in qualche modo ad una persona o un’entità giuridica. Esiste il patrimonio di un paese, di una civiltà, di un individuo e in tutti questi casi si pensa a specifici beni, anche forse non strettamente materiali ma che hanno a che vedere comunque con il sostentamento e la sopravvivenza. Patrimonio, quando non indica denaro o possessi, indica però quasi sempre qualcosa di tangibile, un lascito fisico, mentre il dono della paternità è qualcosa di molto più sostanziale, di più reale che una lista di possessi recensiti da un notaio.

Vorrei considerare tre modelli antropologici di paternità per comprendere un po’ meglio il valore morale e spirituale di questa categoria così centrale e tuttavia negletta. Che ci si trovi oggi nell’epoca dell’assenza dei padri o della loro inconsistenza/evanescenza è cosa detta, scritta e riproposta in vario modo, ma in cosa consista il munuspatris e perché abbia sofferto di cattiva stampa negli ultimi secoli è cosa più difficile a comprendersi e meno analizzata.

Partiamo da Pinocchio, la favola italiana più tradotta al mondo. La scena si apre nel laboratorio di Mastro Ciliegia che, quando si imbatte in un pezzo di legno anomalo, che addirittura parla, piange e ride come un bambino, non accetta questa “anomalia” e la vorrebbe normalizzare, facendone una gamba di tavolo o combustibile da camino. Mastro Ciliegia non accetta che un legno possa essere di più che un semplice legno; non solo, non accetta che le cose possano essere diverse da come sono sempre state, né accetta che la realtà differisca da ciò che si possa vedere o toccare. Insomma, Mastro Ciliegia è un concreto, un realista (ma sarà vero?), senza grilli per la testa, che non ha tempo né spazio mentale per le stranezze. Fosse per lui Pinocchio non sarebbe sopravvissuto per più di due pagine. Via nel camino.

Geppetto, al contrario, concede a quel pezzo di legno la realtà ulteriore, verrebbe da scrivere trascendente, che le compete. Egli sa bene che in teoria non sarebbe possibile per un pezzo di legno parlare, piangere e ridere, nondimeno aggiusta la propria fallibile teoria alla realtà che esubera la propria capacità mentale e comincia ad immaginare cosa poter fare di un legno così anomalo, decidendo di farne un burattino che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali. Geppetto dunque non mette limiti mentali alla realtà, se ne lascia stupire e immagina come corrispondere adeguatamente ad una meraviglia simile. Ecco, qui si trova un punto essenziale della paternità, un elemento fondante del munuspatris, non tanto e non solo la capacità di immaginare cosa potrebbe venir fuori da un figlio, oltre la logica razionalistica, ma soprattutto la capacità di aderire alla realtà e lasciarsene stupire. Accettare che in cielo e in terra ci siano più cose di quante ne sogni la filosofia di Orazio, per chiosare Shakespeare.

 

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"Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante". (Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)

Un’altra fiaba, Il piccolo principe. In questo racconto Antoine de Saint-Exupéry ci insegna quanto sia preziosa la capacità di vedere come. Il piccolo principe vede bene come le linee che sembrerebbero tratteggiare un cappello in realtà indichino un elefante ingoiato da un boia. Vedere-come, espressione impiegata da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, non è semplicemente prestare immaginazione a cose che altrimenti apparirebbero monodimensionali, appiattite su un unico asse della realtà, è anzi una capacità di realismo che ci permette di svelare i tanti strati e i molteplici significati delle cose. È sempre il munuspatris quello di insegnare a vedere il mondo oltre le apparenze. O, meglio detto, testimoniare il gusto e l’amore per la realtà al punto da chiederle cos’altro si celi dietro ciò che appare, nella certezza che appunto il mondo sia bello e presenti molto di più di quanto non manifesti ad un primo sguardo. Ancora, il primo sguardo è l’ingresso alla conoscenza ma non il punto finale. Questa intelligenza analogica, vedere-come appunto, è un’educazione allo sguardo generoso, che accetta e riconosce come quanto ci sta innanzi sia di più di quello che sembra, che custodisce un Logos di cui il nostro intelletto riflette solo alcuni aspetti, non tutti, e non necessariamente i più significativi. Questa consapevolezza, lungi dal destabilizzarci o dallo spaventarci, apre noi all’indagine continua sul creato che offre più ricchezza di quanta il ricercatore sia in grado di cogliere.

L’ultima immagine letteraria con la quale mi vorrei congedare da questi spunti di riflessione la mutuo da Kierkegaard, il quale in Timore e Tremore ci proietta accanto ad Abramo nel viaggio verso il monte Moira con Isacco, che là dovrà poi essere sacrificato. Abramo è il patriarca per antonomasia, colui che accoglie senza resistenze la voce di Dio, pur contro ogni apparente ragionevolezza. La figura del patriarca è quella che non solo persiste nella sua fedeltà, fino alla più contraddittoria delle esperienze, ma anche quella di chi confida nel mistero di Chi lo ha tratto dalla sua anonimità per dar lui un nome, un compito, un destino e una posterità. Abramo è l’uomo della fede, è colui che grazie allo sguardo fiducioso vede di più. È un errore contrapporre la visione della fede a quella della ragione, pensare che la fede chieda il sacrificio della ragione, invero Abramo ci insegna che per vedere occorre guardare con tutte le facoltà umane, cuore e testa, se si vuole schematizzare il messaggio. Il terzo munus quindi, dopo l’apertura alla realtà e la capacità di vedere come, è quello dell’affidamento alla Parola che viene dall’alto, la sollecitudine per il mistero.

Queste rapide immagini convergono nell’icona che Rembrandt ci ha lasciato relativa alla parabola del Figliol

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Rembrandt Harmenszoon Van Rijn (1668), Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo

prodigo, o meglio detta del Padre misericordioso. Nel famoso dipinto vediamo l’anziano padre che accoglie il figlio scapestrato dopo che questi ha sperperato tutto il patrimonio (minuscolo), preteso in anticipo. Il perdono paterno, poco apprezzato dal figlio maggiore e obbediente, è il vero e proprio Patrimonio che il padre offre al figlio. Perdonare è quintessenzialmente munuspatris: esemplifica in modo plastico l’andare oltre, in questo caso il male compiuto dal figlio, avendo chiara la positività originaria delle cose che sono e che non possono essere condannate, pregiudicate, da quanto di male possa esserci o esserci stato in esse. Ecco questa capacità di guardare con uno sguardo generoso, ricco di una prodigalità che non è nostra, ma che riceviamo dalla sovrabbondanza della creazione, questo è il patrimonio inesauribile che non soffre l’usura del tempo e dei rovesci economico-sociali. Questo è il munuspatris. Il ricordo in fondo dell’originaria positività dell’essere, del fatto che le cose non vengono dal nulla, per tornarvi dopo lunghe peripezie.

Questa positività forte, questa speranza fondata è quanto di più prezioso e ricco possa essere lasciato ai propri figli. È una ricchezza non solo a prova di furto, ma che arricchisce in modo qualitativamente rinnovato ogni ambito vitale. È una forma di rigenerazione continua, di prosieguo dell’attività creatrice, che rende più ricchi sia il donatore che il donatario.