Durante la mia attività accanto a Giovanni Paolo II come responsabile della Sala Stampa della Santa Sede mi veniva spesso rivolta la domanda: a cosa si deve la grande presa di questo Pontefice sull’opinione pubblica? Per rispondere a questa domanda si citavano alcuni fra i tanti aspetti della personalità di Karol Wojtyla: pastore, ma anche uomo di comunicazione, intellettuale poliglotta, operaio, poeta, filosofo, testimone della storia della dominazione comunista nei Paesi dell’Europa dell’est. Adesso, nei giorni della sua Beatificazione a soli 6 anni dalla sua morte, la risposta sembra a tutti straordinariamente più chiara: Giovanni Paolo II attraeva tanto la gente perché era, ed è, un santo. Risposta facile, in fondo, che anni fa non avevamo ancora il pudore di pronunciare, ma oggi la Chiesa cattolica ci autorizza a fare nostra.
Giovanni Paolo II si faceva capire da tutti per il suo interesse, sincero, reale, verso l’uomo, verso ogni uomo che incontrava. Chi si trovava al suo fianco durante i suoi viaggi ed i suoi incontri con masse enormi di gente, comprendeva che Giovanni Paolo II non vedeva folle, ma persone. “Il Papa sa contare solo fino ad uno”, disse in un’occasione, riferendosi al suo desiderio di trattare ogni persona come l’unica, la sola, un desiderio che si manifestava ad esempio nella scelta dei programmi, o nella volontà di salutare personalmente i presenti ad un evento tutte le volte che ciò fosse possibile. È fuori dubbio che anche il mondo intellettuale e della cultura percepiva questa disponibilità ad un rapporto diretto, personale, un mondo al quale egli dedicò fin dall’inizio del suo Pontificato, un particolare e sincero interesse. Anche quando diretti a questo ambiente, i suoi discorsi avevano la capacità di tradurre la teoria e le analisi generali in esortazioni a porre al centro della cultura e del progresso la persona umana, ogni essere umano, la sua aspirazione alla verità e ai valori dello spirito, ma anche la sua legittima aspirazione ai beni materiali.
Altri hanno già commentato e potranno ancora commentare il ricco contenuto del magistero di Giovanni Paolo II agli intellettuali, agli artisti o agli scienziati. Vorrei qui solo riportare alcune brevi considerazioni su una frase, su un concetto che Giovanni Paolo II impiegava spesso in queste occasioni privilegiate: “è necessario che la fede diventi cultura”, amava ripetere; precisando in altre occasioni: “una fede che non diventa cultura non è una fede pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Parlando nella sede dello storico Ateneo di Bologna nel 1982, affermò che “la Chiesa ha bisogno dell'università, perché la fede possa incarnarsi e divenire cultura”.
I rapporti fra fede e scienza, fra messaggio cristiano e sapere scientifico, sono delicati e sono suscettibili di varie analisi. Anche il pensiero di Giovanni Paolo II su tali rapporti può essere spiegato e messo in luce in vari modi e con vari livelli di profondità. Vorrei qui solo suggerire che, a mio avviso, nell’esortazione ad una fede che deve divenire cultura c’è qualcosa che condensa anche il suo modo di vedere il rapporto fra fede e scienza. L’annuncio del Vangelo, per essere recepito e compreso, deve inculturarsi. Perché risulti significativo a chi si occupa di ricerca scientifica, il cristianesimo deve saper parlare anche la lingua della scienza, saper riconoscere ciò che nella scienza lo provoca, nel presente come nel passato, e in definitiva gli apre orizzonti. Non si tratta però di una “strategia” o di una sorta di captatio benevolentiae da parte di chi si avventura in un mondo per lui nuovo, o peggio ostile. Diventare cultura è infatti una necessità per la fede. Cogliendo i suoi legami e le sue implicazioni in rapporto ad ogni altra ricerca della verità — e la scienza è una di queste — la fede cristiana può essere meglio pensata, meglio vissuta, meglio accolta. Una fede che non è capace di mostrare cosa essa c’entri con l’uomo e con la sua vita, con la sua ricerca e con le sue scoperte, è una fede debole. Con parole diverse, ma secondo una linea di pensiero del tutto analoga, troviamo lo stessa idea anche nell’attuale Pontificato di Benedetto XVI, quando ama insistere nel presentare il cristianesimo come religione del Logos, amica della ragione, giungendo a dire in varie occasioni che il vero Dio non può essere un Dio senza ragione, un Dio che la metta fra parentesi o la contraddica.
La prospettiva di Giovanni Paolo II di lasciare che la fede diventasse cultura è in fondo ciò che fa comprendere il senso di certe prese di posizione che a suo tempo poterono risultare inedite o progressiste, come ad esempio la volontà di far tornare a studiare cosa davvero accadde nel Caso Galileo, assumere la teoria dell’evoluzione biologica come dato di cui tener conto nel pensiero teologico, ma anche lasciare che gli strumenti e i costumi di popoli africani entrassero nelle cerimonie liturgiche a san Pietro in Vaticano. In sostanza, non si può chiedere alla cultura e alle culture di aprirsi alla fede e all’evangelizzazione, se la fede stessa non si dimostra capace di informare ogni cultura andandole incontro. Una vera sintesi fra la fede e la cultura è un'esigenza tanto dell'una che dell'altra; eppure, al tempo stesso, il messaggio cristiano supera ogni cultura, perché la Chiesa che annuncia Cristo non viene a portare o ad imporre la cultura di un altro popolo o di un'altra razza. Nel pensiero di Giovanni Paolo II, il rapporto fra fede e cultura viene spesso presentato con un carattere di circolarità e di reciproca provocazione. Il fatto che la fede non si identifichi con una specifica cultura è, in fondo, proprio ciò che le permette di farsi cultura, di inculturarsi.
Anche il grande incontro delle religioni del mondo ad Assisi nel 1986, un episodio che fu commentato da molti media come una decisione che rompeva con tutta la tradizione teologica precedente, era in realtà anch’esso una manifestazione del modo con cui Giovanni Paolo II intendeva il rapporto fra fede cristiana e cultura, cultura religiosa in questo caso. La fede cristiana deve sapersi proporre come pienezza e appagamento della domanda religiosa dell'uomo, e dunque di tutte le religioni della terra, se queste interpretano in modo autentico e sincero la dimensione religiosa dell’essere umano. E per farlo, deve in primo luogo ascoltarle. Come il cristianesimo non si identifica con nessuna specifica cultura, così non può identificarsi con nessuna specifica religione, ma proprio per questo è in grado di assumere e fare proprio ciò che di vero e di buono c’è in ogni religione, o meglio nella autentica religiosità umana; e questo secondo l’insegnamento della Nostra aetate del Vaticano II, un insegnamento che Giovanni Paolo II aveva ben presente.
Sono trascorsi solo 6 anni dalla morte di Papa Wojtyla, ora beato Giovanni Paolo II. Vi sarà ancora tempo e possibilità di studiare a lungo il messaggio del suo Pontificato e di comprenderlo sempre meglio. Quanto abbiamo finora vissuto è però più che sufficiente a convincerci che il suo pontificato, facendoci entrare nel terzo millennio dell’era cristiana, ci ha introdotto anche ad un nuovo modo di concepire la modernità e ci ha consegnato un modo più profondo di concepire il rapporto fra fede e cultura. È questa una delle più belle eredità che lascia agli intellettuali e agli scienziati, ma della quale ci gioviamo davvero tutti.