Anche se i dubbi circa l'ortodossia di Galileo erano ormai chiariti presso le autorità ecclesiastiche romane, la sua intensa attività a favore del copernicanesimo, soprattutto dopo il suo arrivo a Roma, insieme con la presa di posizione di un teologo come Foscarini, avevano creato troppa confusione perché la Chiesa potesse ancora esitare a prendere una chiara posizione in merito.
Di fatto, il 19 febbraio, due proposizioni che riassumevano le affermazioni principali del sistema copernicano venivano sottoposte all'esame dei qualificatori del S.Uffizio. Esse erano cosi formulate:
- Che il sole sii centro del mondo, et per conseguenza immobile di moto locale;
- Che la terra non è centro del mondo, né immobile, ma si move secondo sé tutta, etiam di moto diurno (XIX, 320).
I teologi incaricati di esaminare le proposizioni, se erano competenti nel loro campo, non lo erano certamente in quello astronomico. Pure, essi non ebbero timore di dare una risposta e nel breve spazio di tempo (meno di quattro giorni) loro accordato dal S. Uffizio. Ovviamente, nell'incrollabile sicurezza delle loro convinzioni filosofiche e teologiche, i qualificatori non giudicarono di aver bisogno di più tempo per dare il loro giudizio su un'opinione così evidentemente assurda. E del resto, dopo mesi di accese dispute in merito, a Roma, essi dovevano già avere la loro opinione precisa in mente. Essa fu senza dubbio concordata nella riunione del martedì 23 febbraio (cfr XIX, 320).
Nella successiva riunione plenaria dei qualificatori e consultori del S. Uffizio del giorno seguente (mercoledì 24 febbraio), essi si accordarono sulle seguenti qualifiche da dare alle due proposizioni.
Circa la prima:
«Tutti dissero che tale proposizione è stolta ed assurda dal punto di vista filosofico e formalmente eretica, in quanto contraddice espressamente le affermazioni della S. Scrittura in molti luoghi secondo il senso proprio delle parole ed il senso dei S. Padri e dei Dottori teologi.»
Circa la seconda:
«Tutti dissero che tale proposizione merita la stessa censura filosofica; e dal punto di visto della verità teologica, e per lo meno erronea nella Fede» (XIX, 321).
Lo stesso giorno di questa riunione del S. Uffizio, il cardinale Orsini aveva perorato la causa di Galileo presso il papa, durante un concistoro dei cardinali. Il momento non poteva essere meno felice. Secondo la relazione inviata otto giorni dopo dall'ambasciatore Guicciardini a Picchena,
«il Papa gli disse che era bene che lo persuadesse a lasciare questa opinione. Orsini replica qualcosa, incalzando il Papa, il quale mozzò il ragionamento et gli disse che havrebbe rimesso il negozio a' SS.ri Cardinali del S.to Offizio: et partitosi Orsino, fece S.S.ta chiamare a se Bellarmino, et discorso sopra questo fatto, fermarono che questa opinione del Galileo fosse erronea et heretica: et hier l'altro, sento fecero una congregazione sopra questo fatto, per dichiararla tale» (XII, 242).
L'intervento di Orsini in favore di Galileo e la reazione del papa erano state una cosa pubblica e così pure la successiva convocazione di Bellarmino da parte di Paolo V. Questo, dunque, Guicciardini poteva averlo facilmente saputo. Ma non poteva aver saputo nulla più di voci che tale incontro aveva senza dubbio provocato a proposito delle decisioni prese, in esso, dal papa e Bellarmino in occasione del loro incontro. Così le sue affermazioni in merito, come pure quelle sugli avvenimenti successivi sono assai meno attendibili.
Il giorno seguente, giovedì 25 febbraio, ebbe luogo la consueta riunione settimanale dei cardinali del S. Uffizio al palazzo del Quirinale alla presenza del papa. Senza dubbio le censure dei qualificatori, insieme con le altre questioni connesse con la teoria copernicana (come quella dei libri scritti da autori cattolici in favore di essa) furono discusse durante la prima parte della seduta come d'uso dall'Assessore, accompagnato dal Commissario del S. Uffizio. Ciò spiega il fatto che i verbali(redatti nella seconda parte della seduta) non ne fanno menzione. E questo spiega anche la necessità di informare appunto i due ufficiali del S. Uffizio, l'Assessore e il Commissario, su quanto era stato deciso in quella prima parte della seduta. Ciò è quanto risulta dal documento già pubblicato da Favaro:
«L'illustrissimo Signor Cardinale Millini ha reso noto ai Reverendi Padri e Signori l'Assessore e il Commissario del S.Uffizio59 che il Santissimo [il papa], essendogli stata riferita la censura dei Padri Teologi sulle proposizioni del matematico Galileo, che il sole sia il centro del mondo e immobile di moto locale, e che la terra si muova anche di moto diurno, ha ordinato all'illustrissimo Signor cardinale Bellarmino di chiamare davanti a sé il detto Galileo e di ammonirlo ad abbandonare le dette proposizioni, e [ha pure ordinato che] se egli si rifiutasse di ubbidire, il Padre Commissario alla presenza di un Notaio e di testimoni, gli dia l'ordine di astenersi del tutto dall'insegnare o difendere una tale dottrina e opinione o di trattare di essa: se poi non dovesse acconsentire, venga imprigionato». (XIX,321, mia trad.).
Il fatto che l'incarico dell'ammonimento privato a Galileo fosse stato dato a Bellarmino sembra confermare quanto aveva riferito l'ambasciatore Guicciardini a proposito della convocazione di Bellarmino da parte di Paolo V. Durante l'incontro del papa con Bellarmino, questi era forse già stato in grado di comunicare a Paolo V la ratifica delle qualifiche sulle due tesi copernicane di Galileo, avvenuta quello stesso giorno. Ad ogni modo, la risposta dei qualificatori era praticamente scontata in partenza. II problema che si poneva era quello dei provvedimenti da prendere nei confronti di Galileo. Alla luce delle censure date dai qualificatori, le dottrine di Galileo erano chiaramente "erronee nella fede" e - per quanto riguardava l'immobilità del Sole - addirittura eretiche. Ma come procedere verso di lui? Galileo era ormai famoso in tutta l'Europa e "matematico e filosofo primario" del Granduca di Toscana, di cui godeva pubblicamente la fiducia e l'appoggio. D'altra parte non si poteva dubitare della sincerità della sua fede, nonostante le sue idee astronomiche. Probabilmente fu Bellarmino stesso che propose a Paolo V il procedimento dell'ammonimento privato, da realizzare nel modo già visto. E ciò spiegherebbe il fatto che l'incarico di tale ammonimento fu dato dal papa proprio a lui, in occasione della riunione del S. Uffizio del giorno seguente. Con questo espediente, lo si metteva a tacere una volta per tutte, ma senza ledere la sua fama (l'eventualità che Galileo si ostinasse a rifiutare la sottomissione, con il conseguente imprigionamento, dovette sembrare estremamente remota) e quindi anche senza offendere il Granduca. Quanto poi al copernicanesimo sostenitori "teologi", la Congregazione dell'lndice (della quale era membro anche Bellarmino) avrebbe provveduto a neutralizzare convenientemente l'uno e gli altri.
Che Bellarmino adempisse effettivamente l'incarico affidatogli consta da due documenti contenuti nello stesso fascicolo dei "Processi" di Galileo. II primo in ordine di tempo segue immediatamente quello della seduta del 25 febbraio. Mi limito a dare la sua traduzione dal latino:
«Venerdì 26 dello stesso [mese: si tratta dunque del giorno dopo, 26 febbraio]. Nel palazzo dell'abitazione usuale del detto Illustrissimo Signor Cardinale Bellarmino, e nell'appartamento di Sua Signoria Illustrissima, lo stesso Illustrissimo Signor Cardinale, chiamato il sopraddetto Galileo, e una volta questi apparso dinanzi alla Signoria Sua Illustrissima, alla presenza del Reverendissimo Padre Fra' Michelangelo Segizzi da Lauda, dell'Ordine dei Predicatori, Commissario generale del S. Uffizio, ha ammonito il predetto Galileo sull'errore della suddetta opinione e [lo ha ammonito insieme] ad abbandonarla; e immediatamente dopo (successive ac incontinenti), alla presenza mia ecc., e dei testimoni ecc., essendo presente ancora il medesimo Illustrissimo Signor Cardinale sopraddetto, il P. Commissario ha ingiunto e ordinato nel proprio nome del Santissimo Signor Nostro il papa e di tutta la Congregazione del S. Uffizio, al predetto Galileo ancora lì presente, di abbandonare del tutto (omnino desereret) la predetta opinione che cioè il sole sia centro del mondo e immobile e la terra si muova e di non tenerla, insegnarla o difenderla62 con parola o con gli scritti, in qualsiasi modo, d'ora in poi; in caso contrario si procederà contro di lui nel S. Uffizio. A questa ingiunzione il medesimo Galileo si è sottomesso e ha promesso di ubbidire (XIX, 321-322, mia trad.). [Alla fine di questa documento sono citati i nomi di due testimoni, ambedue familiari di Bellarmino]».
Il Secondo documento fu redatto più tardi: esso è infatti la trascrizione del verbale della seduta del S. Uffizio del 3 marzo successivo (nella quale venne preso atto del Decreto della Congregazione dell'Indice contro gli scritti copernicani, di cm parlerò fra breve). Nella prima parte di tale verbale si legge:
«Avendo il Cardinale Bellarmino riferito che Galileo Galilei matematico, è stato, secondo gli ordini di questa Congregazione, ammonito di dover abbandonare (deserendam) l'opinione che ha finora sostenuto, essere il sole il centro delle sfere e immobile, la terra invece mobile, e che si è sottomesso...» (XIX, 278, mia trad.).
La differenza fra questi due documenti è evidente. Il secondo è perfettamente d’accordo con la decisione papale notificata al S. Uffizio il 25 febbraio. Galileo è stato convocato e si è sottomesso all’ammonizione del Cardinale Bellarmino. Sembrerebbe dunque che non ci sia stato nessun bisogno dell’intervento del Commissario del S. Uffizio (condizionato - come sappiamo – a un eventuale rifiuto di Galileo a sottomettersi all’ammonizione di Bellarmino), intervento del quale non viene fatta alcuna menzione. Invece nel primo documento si ha una potente contraddizione con il procedimento stabilito. Subito dopo l'ammonizione di Bellarmino, infatti, si ha l'intervento del Commissario Segizzi, in forma comminatoria. Ma non si dice che tale intervento sia stato motivato -come prescritto - da un rifiuto a sottomettersi da parte di Galileo. Oltre alle contraddizioni interne di questo documento si è spesso sottolineato in passato il fatto che esso è privo delle firme di Bellarmino, Segizzi, del notaio che lo redasse e dei due testimoni (familiari di Bellarmino), in esso nominati.
Tutto ciò ha portato, dalla seconda meta del secolo XIX (da quando, cioè, si sono cominciati a conoscere questi documenti segreti), a una serie di interpretazioni contrastanti, specialmente a proposito del primo documento, arrivandosi persino a sostenere che esso sia un falso, costruito nella fase istruttoria del processo di Galileo, nel 1632, per potere accusare quest'ultimo. Secondo un'altra ipotesi, avanzata prima da Von Gebler e poi da de Santillana, il falso sarebbe invece stato perpetrato nel 1616, nello stesso giorno della convocazione di Galileo da parte di Bellarmino. Santillana afferma: «Possiamo [...] immaginare che il commissario Segizzi, mentre seguiva gli eventi e si preparava a intervenire (che egli fosse presente lo sappiamo), messo in scacco dalla mansuetudine di Bellarmino e dal pronto assenso di Galileo, decidesse di omettere il protocollo, anche se le sue istruzioni in proposito erano chiare e i testimoni già designati, evidentemente dal cardinale stesso. Ritornato nel suo ufficio avrebbe domandato al suo assistente di redigere invece del protocollo una minuta di processo verbale quale egli lo desiderava». Questa interpretazione ha il merito di spiegare perché il processo verbale non sia stato incluso nella paginazione.
Come si vede da queste ultime parole di de Santillana, un motivo fondamentale per negare l'autenticità del documento è la mancanza dell'originale, con le firme di Bellarmino e dei testimoni, nell'incartamento del processo di Galileo. Ma questa mancanza è stata giustamente attribuita da Beretta alla forma di "imbreviatura" in cui è stato redatto dal notaio il documento e alle circostanze storiche che portarono alla perdita del documento originale redatto in forma pubblica. D'altra parte, tutta la supposizione di de Santillana non e più oggi seguita da nessuno studioso galileiano. Se come afferma de Santillana, il Commissario del S. Uffizio avesse fatto inserire nel dossier il documento contenente la sua ingiunzione che di fatto non era mai avvenuta, avrebbe dovuto in primo luogo mettere bene in chiaro, in esso, che Galileo si era rifiutato di sottomettersi al precetto di Bellarmino. Al contrario, le parole successive ac incontinenti non sembra possano essere interpretate che come un intervento precipitoso, che andava contro le istruzioni.
Lo stesso problema si pone in tutte le altre interpretazioni che sostengono la falsificazione del documento. Quando si fabbrica un falso, con l'intento di farlo apparire come vero, si deve cercare di evitare qualsiasi sospetto in merito alla sua autenticità. Ora, le istruzioni di Mellini erano chiare. Segizzi era autorizzato ad intervenire se e solo quando Galileo avesse rifiutato di assentire all'ammonizione di Bellarmino. Un falso avrebbe dovuto perciò affermare chiaramente che, appunto, Galileo si era rifiutato e che perciò il Commissario era intervenuto. Ma questa affermazione fondamentale manca. Nessuno dei sostenitori della falsificazione è stato in grado di offrire una spiegazione in merito.
In conclusione, tutte le tesi della falsificazione alle quali ho qui solo brevemente accennato, risultano completamente insoddisfacenti.
Per sostenere, al contrario, l'autenticità del documento, è necessario cercare di risolvere due problemi. Il prima è quello del perché l'intervento abusivo di Segizzi ebbe luogo. Il Secondo è quello di spiegare il silenzio di Bellarmino in merito, sia nella sua relazione al S. Uffizio del 3 marzo, sia nell'attestato rilasciato a Galileo due mesi dopo.
Per quanta riguarda il prima problema, è ovvio che qualsiasi tentativo di ricostruzione dell'accaduto non può pretendere di offrire molto più di una probabilità. Tale è quella proposta da Morpurgo Tagliabue 1963, 14-25 e in parte seguita da Drake 1988, 335-336 [1].
Secondo Morpurgo Tagliabue, dopo aver udito l'ingiunzione di Bellarmino, Galileo avrebbe esitato un momento a rispondere (o avrebbe obiettato qualcosa). Allora il Commissario Segizzi, decise di intervenire e aggiunse senz'altro l'espresso comando, nella forma più severa che conosciamo. Galileo, di fronte a un'intimazione di tal genere, si sarebbe senz'altro sottomesso.
Io penso che questa ricostruzione debba essere ulteriormente dettagliata, in base a quanto Galileo affermerà al momento del primo interrogatorio, nell'aprile 1632. Da questo risulta che la prima parte della seduta non consistette in una semplice e rapida comunicazione del precetto, da parte di Bellarmino, ma si svolse in un'atmosfera che il cardinale (noto per la sua gentilezza e certamente non maldisposto verso lo scienziato) volle rendere il meno tesa possibile. Secondo Galileo (e non ci sono motivi per cui egli non dicesse la verità in proposito) Bellarmino gli avrebbe all'inizio menzionato un particolare che egli (Galileo) avrebbe voluto rivelare solo a Urbano VIII. E avrebbe iniziato la sua comunicazione del precetto, affermando che la tesi copernicana si poteva accettare ex suppositione, e aggiungendo, solo dopo, la parte vera e propria del precetto. Che Galileo abbia esitato o fatto qualche domanda in merito è possibile, ma non sicuro. Quello che è facile immaginare è lo stato d'animo con cui Segizzi assistette a questa formulazione "benigna" del precetto da parte del cardinale gesuita. È assai probabile che il Commissario non avesse nessuna intenzione di fungere da semplice comparsa e fosse preparato fin dall'inizio ad intervenire. Fu forse soltanto un momento di silenzio da parte di Galileo a fornirgli l'appiglio per il suo precipitoso e del tutto ingiustificato intervento.
Se questo è vero, come reagì Bellarmino? Nonostante tutta la sua gentilezza, Bellarmino sapeva essere chiaro e severo, quando si trattava di questioni di principio. E certo questa era il caso. Non è certamente azzardato pensare che egli dovette dire a Segizzi che il suo intervento era stato prematuro e in violazione delle istruzioni. Ed è egualmente assai probabile che egli abbia voluto che dal verbale che il notaio lì presente doveva redigere e che Bellarmino stesso sapeva sarebbe rimasto negli atti come un resoconto di quanto effettivamente accaduto, risultasse che non c'era stata una reazione negativa da parte di Galileo a giustificare l'azione del Commissario. Se non fu lui stesso a suggerire la formula "successive ac incontinenti” fu il notaio che la usò per seguire gli ordini del cardinale. Di fronte alla reazione del Cardinale Segizzi non ebbe certamente il coraggio di obiettare. Coì dovette nascere questo famoso documento da cui risulta chiaramente, anche per me, che l'intervento di Segizzi era stato abusivo.
Ma cosa dovette dire Bellarmino a Galileo? Ovviamente non doveva essergli sfuggito quanto quest'ultimo fosse rimasto scioccato dall'intervento del domenicano, di cui per di più non conosceva l'identità, come affermerà al momento del primo interrogatorio del suo processo. Non sembra troppo azzardato pensare che, una volta partito Segizzi, il cardinale abbia detto a Galileo che l'intervento del domenicano era stato un atto impulsivo e che perciò non doveva preoccuparsene.
Il secondo problema da cercare di risolvere è come conciliare questa ricostruzione della convocazione di Galileo da parte di Bellarmino con le due successive affermazioni del cardinale a proposito di essa, nelle quali nessuna menzione viene fatta dell'intervento del Commissario Segizzi. Come già sappiamo, il 3 marzo, in occasione della seduta settimanale dei Cardinali del S. Uffizio, tenuta alla presenza del papa, Bellarmino comunicò di avere eseguito il mandato affidatogli di ammonire Galileo ad abbandonare la sua opinione copernicana e che Galileo si era sottomesso. Il silenzio a proposito dell'ingiunzione di Segizzi è spiegabile (sempre sulla base della nostra ricostruzione dell'accaduto) per il fatto che il cardinale doveva averla considerata abusiva e quindi priva di qualsiasi valore legale. Ciò che contava, per lui, era solo quanto egli aveva personalmente adempiuto. D'altra parte, accennare all'indebito intervento del Commissario avrebbe significato mettere quest'ultimo (assai probabilmente - come d'uso - presente alla seduta) in una situazione gravemente imbarazzante e questo il cardinale dovette giudicarlo non necessario.
La seconda dichiarazione del cardinale avrà luogo il 26 maggio, sotto forma dell’attestato da lui rilasciato a Galileo. Rimando quindi la questione del perché anche in quell’occasione Bellarmino non abbia fatto alcuna menzione (almeno esplicita) dell’intervento di Segizzi al momento in cui tratterò di quel documento.
In questa stessa riunione del 3 marzo fu data notizia della decisione della Congregazione dell’Indice a proposito degli scritti copernicani. È quindi necessario parlare ora di come si era arrivati a tale decisione.
Essa ebbe luogo in occasione della riunione della Congregazione dell'Indice del I marzo, tenuta nella residenza del cardinale Bellarmino, membro - oltre che del S. Uffizio - anche di questa Congregazione. Egli aveva avuto ovviamente dal papa l'ulteriore incarico di sottoporre agli altri cardinali membri il problema della formulazione teologica dello status del copernicanesimo nei confronti della S. Scrittura e delle misure da prendere nei confronti delle opere di Copernico, di de Zuniga e di Foscarini. I particolari di questa riunione sono ora noti grazie alle ricerche compiute da W. Brandmuller [2].
Alla riunione presero parte - oltre a Bellarmino - altri cinque cardinali: Centini e Galamini (che erano pure membri del S. Uffizio) Maffeo Barberini, Bonifazio Caetani e Lancellotti, solo membri della Congregazione dell'Indice. La discussione dovette essere lunga e probabilmente accesa a giudicare dalle parole del verbale: [...] et "mature" prius jnter dictoos Ill.mos [cardinales] discusso hoc negotio, "tandem" decreverunt [virgolette mie]. La decisione raggiunta è riportata qui sotto nel testo del relativo Decreto. Un secondo documento registra l'approvazione di questa decisione da parte del papa e insieme il suo volere che la sospensione e proibizione di queste opere non fosse pubblicata da sola, ma insieme con quella di altri libri, come di fatto avvenne. Brandmuller osserva che probabilmente si volle così evitare di dare troppo rilievo al provvedimento, tenuto conto anche - si può aggiungere - dell'opinione di qualche cardinale (come Maffeo Baberini e Bonifazio Caetani).
La decisione di Paolo V fu resa nota al S. Uffizio in occasione della già menzionata riunione del 3 marzo ed è registrata con le parole immediatamente seguenti quelle che riferiscono l'avvenuta ammonizione di Galileo da parte di Bellarmino;
«ed essendo stato riferito il Decreto della Congregazione dell'Indice, con cui sono proibiti e sospesi, rispettivamente, gli scritti di Nicola Copernico De Revolutionibus orbium caelestium, di Didaco Astunica su Giobbe e del frate carmelitano Paolo Antonio Foscarini, il Santissimo [il papa] ha ordinato che l'editto di questa proibizione e, rispettivamente, sospensione, venga pubblicato dal Maestro del Sacro Palazzo» (mia trad.).
Di fatto, il decreto della Congregazione dell’Indice venne pubblicato due giorni dopo (5 marzo 1616). Dopo aver riportato la proibizione di varie altre opere, il decreto aggiungeva:
«E poiché è anche pervenuto a conoscenza della predetta Sacra Congregazione che quella dottrina pitagorica, falsa e del tutto contraria alla Divina Scrittura, sulla mobilità della terra sull’immobilità del sole, insegnata anche da Nicola Copernico [nel] De Revolutionibus orbium caelestium e da Dicaco Astunica [nel Commentario] su Giobbe, si sta divulgando ed è accettata da molti, come si può vedere da una lettera stampata da un Padre carmelitano, dal titolo: “Lettera del R. Padre Maestro Paolo Antonio Foscarini sulla mobilità della terra e stabilità del sole, et il nuovo sistema pitagorico del mondo. In Napoli, per Lazzaro Scorriggio, 1615”, nella quale il detto Padre tenta di mostrare che la predetta dottrina sulla immobilità del sole nel centro del mondo e sulla mobilità della terra è consona alla verità e non si oppone alla S. Scrittura; perciò, affinché una tale opinione non serpeggi ulteriormente a pernicie della verità cattolica, ha decretato di sospendere, finché non siano corretti, i detti Nicola Copernico De Revolutionibus orbium, e Didaco Astunica su Giobbe; che il libro del Padre Paolo Antonio Foscarini carmelitano sia invece del tutto da proibire e condannare; e che tutti gli altri libri, che parimenti insegnano lo stesso, siano da proibire; come [di fatto] con il presente Decreto li proibisce, condanna e sospende rispettivamente tutti» (XIX, 323, mia trad.).
Questo Decreto conclude quello che viene spesso chiamato il primo processo di Galileo. In realtà, anche se all’inizio c’erano state denunce contro di lui e i suoi scritti, la conclusione della vicenda prescindeva dalla persona di Galileo (almeno nel documento reso pubblico, il Decreto della Congregazione dell’Indice), limitandosi a metterlo a tacere con un precetto in forma del tutto privata. Come ho già detto, si era voluto così evitare di urtare il Granduca Cosimo II, di cui era nota la stima per Galileo, “suo matematico e filosofo primario”, non meno che lo stesso Galileo, di cui si riconosceva (almeno ai vertici della gerarchia ecclesiastica) la sincerità della fede cattolica.
L'ambasciatore di Toscana a Roma, Guicciardini, che era stato contrario fin dall'inizio alla venuta di Galileo nell'Urbe, poteva mostrare ora al Granduca di aver avuto ragione. Lo aveva già fatto - anzi - con un giorno di anticipo sulla pubblicazione del Decreto dell'Indice, nella lettera già menzionata del 4 marzo. In essa così commentava:
«II Galileo ha fatto più capitale della sua opinione che di quella de' suoi amici: e il Sig.or Card.le Dal Monte et io, in quel poco che ho potuto, et più cardinali del S.to Officio l'havevano persuaso a quietarsi, et non stuzzicare questo negozio: ma se voleva tenere quella opinione, tenerla quietamente, senza far tanto sforzo di disporre e tirar gl'altri a tenere l'istesso, dubitando ciascuno che la sua venuta qua gli fusse pregiudiziale et dannosa, et che non fusse venuto altrimenti a purgarsi et a trionfare de' suoi emuli, ma a ricevere un fregio» (XII, 241·242).
E poco dopo aggiungeva:
«egli [Galileo] s'infuoca nelle sue opinioni, ci ha estrema passione dentro, et poca fortezza et prudenza a saperla vincere: tal che se li rende molto pericoloso questo cielo di Roma, massime in questo secolo, nel quale il Principe di qua aborrisce le belle lettere et questi ingegni, non può sentire queste novità né queste sottigliezze, et ogn'uno cerca d'accomodare il cervello et la natura a quella del Signore [...] Il Galileo ci ha de' frati et degli altri che gli voglion male et lo perseguitano, et, come io dico, è in uno stato non punto a proposito per questo paese, et potrebbe mettere in intrighi grandi se et altri, et non veggo a che proposito né per che cagione egli ci sia venuto, né quello possi guadagnare standoci» (XII, 242).
Ovviamente, Guicciardini voleva persuadere il Granduca a richiamare al più presto Galileo a Firenze. Ma Galileo non era uomo da darsi facilmente per vinto. Il Decreto della Congregazione dell'Indice non aveva menzionato lui, né alcuno dei suoi scritti. Ed egli si doveva essere ben guardato dal riferire esattamente a Guicciardini (o a chiunque altro) quanto era avvenuto nella residenza di Bellarmino, soprattutto l’intervento e l’ingiunzione di Segizzi. Dunque, non era proprio il caso di ritirarsi precipitosamente da Roma, dando così l’impressione di una sconfitta personale. Né era d’accordo, evidentemente, con la versione dei fatti data da Guicciardini. Scrivendo a Picchena il 6 marzo diceva infatti:
«Io, come dalla natura stessa del negozio si scorge, non ci ho interesse alcuno, né punto mi ci sarei occupato, se, come ho detto, i miei nemici non mi ci avessero intromesso. Quello che io ci abbia operato , si può sempre vedere dalle mie scritture, le quali per tal rispetto conservo, per poter sempre serrar la bocca alla malignità, potendo io mostrare come il mio negoziato in questa materia è stato tale che un santo non l’havrebbe trattato né con maggior reverenza né con maggior zelo verso la S.ta Chiesa: il che forse non hanno fatto i miei nimici, che non hanno perdonato a macchine, a calunnie et a ogni diabolica suggestione, come con lunga istoria intenderanno loro AA. Ser.me, e V.S. ancora, a suo tempo» (XII, 244).
Evidentemente, con il Segretario del Granduca, Galileo tendeva a fare apparire il suo comportamento a Roma come il più moderato e circospetto possibile. E cercava pure di minimizzare l’importanza del Decreto dell’Indice. Nella stessa lettera, dopo aver notato che in tale decreto la teoria copernicana non era stata condannata come eretica, ma che erano stati proibiti solo quei libri che tendevano ex professo a provare che tale teoria non ripugnava alla Scrittura, Galileo aggiungeva:
«All'opera del Copernico stesso si leveranno 10 versi della prefazione a Paolo terzo, dove accenna non gli pare che tal dottrina repugni alle Scritture; e, per quanto intendo, si potrebbe levare una parola in qua e in là, dove egli chiama, 2 o 3 volte, la terra sidus: e la correzione di questi due libri è rimessa al S. Card. Gaetano. Di altri autori non si fa menzione» (XII, 244).
Guicciardini non fu il solo ad attribuire alla mancanza di tatto di Galileo la presa di posizione della Chiesa. Keplero, la cui opera Epitome Astronomiae Copernicanae e, più esattamente, la prima parte parte, Doctrina Sphaerica, pubblicata a Linz nel 1617, venne due anni dopo proibita dalla Congregazione dell'Indice (Decreto del 10 maggio 1619) come copernicana, alluse assai probabilmente anche a Galileo quando attribuì tale proibizione alla «inopportunità di alcuni che hanno trattate verità astronomiche in luogo non conveniente e con metodo non proprio».
Che la Chiesa avesse voluto trattare Galileo con speciale riguardo è dimostrato dall'udienza accordata a quest'ultimo da Paolo V appena una settimana dopo la pubblicazione del Decreto dell'Indice. Secondo la relazione che Galileo ne dette a Picchena lo stesso giorno 12 marzo, il papa si intrattenne con lui a lungo («per tre quarti d'ora»), mostrandosi molto benevolo e assicurandolo di essere persuaso della sua integrità e sincerità di mente. E Galileo continuava:
«e finalmente, mostrandomi io di restare con qualche inquiete per dubbio di havere ad essere sempre perseguitato dall'implacabile malignità, mi consolo con dirmi che io vivessi con l'animo riposato, perché restavo in tal concetto appresso S. Stà e tutta la Congregazione, che non si darebbe leggiermente orecchio ai calunniatori, e che vivente lui io potevo essere sicuro; et avanti che io partissi, molte volte mi replica d'esser molto ben disposto a mostrarmi anco con effetti in tutte le occasione [sic] la sua buona inclinazione a favorirmi» (XII, 248).
Il Granduca, sotto l'influsso dell'ambasciatore Guicciardini, desiderava che Galileo si quietasse finalmente e, soddisfatto dell'attestazione di benignità da parte di Paolo V, si persuadesse a tornare a Firenze. Ma Galileo non aveva fretta. Pochi giorni prima della decisione del S. Uffizio, il Granduca, ignaro di quanto stava per accadere, aveva pregato Galileo di attendere a Roma l'arrivo del cardinale Carlo de' Medici, per potere comparire al suo fianco e rendere interessanti, con la sua conversazione, i convivi del cardinale con le varie personalità romane (XII, 237). Galileo, aveva dunque un buon pretesto per restare a Roma. La sua comparsa accanto al cardinale avrebbe costituito una prova pubblica che egli godeva del favore del Granduca e delle personalità ecclesiastiche non meno di prima.
Non era soltanto l'amor proprio a dettare questo atteggiamento a Galileo. Egli voleva senza dubbio sentire, restando a Roma, cosa sarebbe trapelato della vicenda in cui si era trovato coinvolto, per poter parare i colpi che i suoi avversari avrebbero cercato di menargli in proposito.
Di fatto, si erano cominciate ben presto a spargere voci secondo cui Galileo sarebbe stato chiamato all'lnquisizione per rendere conto delle sue convinzioni copernicane, convinzioni che egli avrebbe abiurato, dopo di che gli sarebbero state imposte severe penitenze da parte del cardinale Bellarmino.
Dato che queste voci non accennavano a diminuire, Galileo decise di ricorrere allo stesso Bellarmino. Questi gli rilasciò il 26 maggio la seguente dichiarazione:
«Noi Roberto Cardinale Bellarmino, havendo inteso che il Sig.or Galileo Galilei sia calunniato e imputato di havere abiurato in mano nostra, et anco di essere stato per ciò penitentiato di penitentie salutari, et essendo ricercati della verità, diciamo che il suddetto Sig.or Galileo non ha abiurato in mano nostra né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua opinione o dottrina, né manco ha ricevuto penitentie salutari né d'altra sorte, ma solo gl'e stata denuntiata dichiarazione fatta da N.ro Signore et publicata dalla Congregatione dell'Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico, che la terra si muove intorno al sole et che il sole stia nel centro del mondo senza muoversi da oriente ad occidente, sia contraria alle Sacre Scritture e perciò non si possa difendere né tenere. Et in fede di ciò abbiamo scritta e sottoscritta la presente di nostra propria mano, questi [sic] dì maggio 1616» (XIX, 348).
Come tutti gli studiosi galileiani non mancano di notare, anche in questa sua dichiarazione Bellarmino non fa alcuna menzione dell’intervento di Segizzi. E ciò costituisce, per coloro che sostengono la falsità del documento che lo riporta, un’ulteriore e definitiva conferma di tale falsità. La risposta che si può dare in contrario è, in primo luogo, la stessa che ho già proposto per il documento del 3 marzo. Bellarmino aveva considerato l’intervento di Segizzi come prematuro e abusivo e perciò privo di qualsiasi valore legale. Non c'era quindi alcun bisogno di menzionarlo.
In secondo luogo, è importante notare che Bellarmino non parla in questa dichiarazione di precetto da lui amministrato ad abbandonare la teoria copernicana (come gli era stato prescritto di fare dalle istruzioni del cardinale Mellini, riportate nel documento del 25 febbraio e come Bellarmino stesso aveva affermato di aver fatto nella sua dichiarazione al S. Uffizio del 3 marzo). Egli dice invece che a Galileo è stata "denunciata" la dichiarazione fatta dal papa e pubblicata dalla Congregazione dell'Indice,92 che la dottrina copernicana non si può "difendere né tenere". Ora, queste due ultime parole non appaiono nel Decreto dell'Indice, ma risultano di fatto pronunciate (insieme con altre due: "insegnare" e "in qualsiasi modo") da Segizzi, nella seconda parte del tanto discusso documento. Citate qui da Bellarmino, esse potrebbero forse essere viste come una conferma indiretta di quanto accaduto quel 26 febbraio, tanto più che Bellarmino scrive semplicemente "denunciata" senza premettere "da noi".
Guicciardini era sempre più esasperato dal comportamento di Galileo che, almeno a stare al resoconto dell'ambasciatore a Picchena, lungi dal mostrarsi fiaccato dal lungo combattimento e rattristato dal suo epilogo, non aveva perduto nulla della sua combattività e della sua capacità di gioire della vita (XII, 259).
Ormai anche a Firenze si era stanchi di questa faccenda che stava andando troppo per le lunghe e preoccupati dei suoi possibili ulteriori sviluppi. Il 23 maggio Picchena inviava a Galileo un cortese ma chiaro invito a rientrare a Firenze al più presto (XII, 261) e Galileo iniziò il viaggio di ritorno ai primi di giugno. Alla vigilia della partenza, però, si era munito di un attestato dei cardinali Dal Monte e Orsini, che mettevano in rilievo come Galileo lasciasse Roma conservando l'intera reputazione e stima di quanti avevano trattato con lui e assicurando che era chiaro a tutti quanto a torto fosse stato calunniato dai suoi nemici (XII, 263-264). Questi attestati erano importanti per Galileo, a cui premeva a tutti i costi di non perdere la stima e l'appoggio del Granduca, tanto più che doveva essersi reso conto dell'ostilità dell'ambasciatore Guicciardini nei suoi confronti e senza dubbio temeva che questi avesse dato un resoconto degli avvenimenti tutt’altro che favorevole a lui. Sappiamo già quanto queste apprensioni fossero fondate.
Si concludeva così un episodio che Galileo e i suoi amici cercavano di far apparire come in nessun modo lesivo della sua fama. Ma in fondo al loro cuore essi (e in primo luogo Galileo) dovevano provare una profonda amarezza. Il piano concepito da Galileo di far tacere gli oppositori, convincendo le autorità ecclesiastiche della necessità di non dare giudizi affrettati sul copernicanesimo, era fallito.
NOTE
[1] Vedi G. Morpurgo-Tagliabue, I processi di Galileo e l’epistemologia, Armando, Roma 1981, pp. 14-25 e S. Drake, Galileo: una biografia scientifica, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 335-336.
[2] Vedi W. Brandmuller, Galilei e la Chiesa, ossia il diritto di errare, Lev, Città del Vaticano 1992, pp. 79-81 e W. Brandmuller, E. Greipl, Copernico, Galilei e la Chiesa. Fine della controversia (1820). Gli Atti del Sant’Uffizio, Leo Olschki, Firenze 1992, pp. 145-151.
Dal testo proposto sono state omesse le note di commento dell’autore
Annibale Fantoli, Galileo per il Copernicanesimo e per la Chiesa, Specola Vaticana, Lev, Città del Vaticano 2010, pp. 210-226