Siate in grado di comprendere
con tutti i santi, quale sia l'ampiezza,
la lunghezza, l'altezza e la profondità [...].
Ef 3, 18
«C’è una scienza segreta in Russia che è utile nelle scienze come nella matematica, ma i cui principi generali sono tenuti segretamente nascosti»[1], scrive il matematico Kurt Gödel nel 1972, probabilmente riferendosi alla Scienza generale dell’organizzazione (1913 - 1916), meglio nota con il criptico nome di Tectologia, conosciuta in modo tacito sin dal 1926 anche dal Circolo di Vienna, diretto da Moritz Schlick, e che vide nell’emblematica figura di Bogdanov, pseudonimo di Aleksandr A. Malinovskij, un pioniere del “pensiero divergente” che nella Russia del primo Novecento si oppose eroicamente all’ideologia materialista. L’idea sottesa alla misteriosa disciplina era ripristinare, contro un volontarismo necessitante di partito (teorizzato da Lenin nel 1908 con il saggio Materialismo ed empiriocentrismo), una percezione più organica della conoscenza mediante l’utilizzo del concetto di “complessità organizzata”, ossia il carattere manifestato da ogni sistema biologico e culturale quando concepito come una realtà dinamica e interattiva, su cui la percezione e il pensiero umano siano capaci di operare un mutamento sinergico, oltre che un adattamento passivo.[2] Al di là di ogni esito immanentista o costruttivista prodotto da queste tendenze embrionali, non sarà difficile intravedere su questo primo sfondo storico-culturale il conduttore filosofico per antonomasia che nutrì in termini più maturi una rivoluzione epocale, volta a risanare - con ogni mezzo - il distacco tra scienza e cultura nella Russia sovietica: il principio di unità nella molteplicità. Non trascorsero molti anni infatti da quando V. Solov’ëv, dopo la denunciata Crisi della filosofia occidentale (1874), tracciò per la prima volta i lineamenti mistico-spirituali di una coscienza nuova:
Un essere particolare è ideale, o degno, unicamente in quanto non nega l’universale ma gli fa posto in se medesimo; allo stesso modo l’universo è ideale, o degno, solo nella misura in cui posto in se stesso al particolare. Da tutto questo possiamo facilmente dedurre la definizione formale dell’idea ossia del tipo degno di essere: essa è la piena libertà delle parti costitutive nella perfetta unità dell’intero.[3]
Ancor prima di Solov’ëv, slavofili come A. Chomjakov, fautori di un integralismo cristiano, proposero il principio della conciliarità ecclesiale (sobornost’) come manifestazione di carattere pneumatico dell’unità nella molteplicità, ben custodita dalla tradizione ortodossa.[4] Questo respiro della totalità dinamica, tipicamente russo, pare all’inizio del XX secolo innestarsi quindi entro una duplice convergenza: storico-scientifica (la teoria dei complessi) e mistico-spirituale (lo slavofilismo e l’uni-totalità della grande scuola di V. Solov’ëv). Nell’impatto con queste due matrici storiche bisogna saper confinare il terreno specifico su cui Pavel A. Florenskij muove i passi dello scienziato, preparando con una forza setacciante inarrestabile la sua “concezione cristiana del mondo”.[5] La Scuola Matematica di Mosca, massimo polo d’avanguardia scientifica, ospitò lo studioso azero negli anni 1900-1904, il quale individuò immediatamente nella figura del matematico Nikolaj V. Bugaev (1837 – 1903), padre delle funzioni discontinue, una folgorante ispirazione in grado di determinare, almeno in via metodologica, un primo criterio di discernimento del reale: «noi che abbiamo visto l’alba della “nuova arte”, siamo ora alle soglie della “nuova scienza”. E solo quando essa verrà fondata potremo apprezzare degnamente l’attività di profeti quali Georg Cantor e Nikolaj Bugaev».[6] Se il fine del sapere integro era infatti poter risanare la frattura tra pensiero scientifico e cultura, postulare la continuità come uno strato ideale cui lasciar aderire ogni fenomeno reale avrebbe rischiato di appiattirne la complessità e dunque il rivelarsi della “forma-figura”, un tassello fondamentale per legittimare un certo grado di realismo sulle cose visibili e non visibili:
Nell’accingerci a nuovo cammino – scriverà all’amico scienziato V. Vernadskij – e nel proclamare la fedeltà alla Terra, cioè all’esperimento biosferico, dobbiamo insistere sul carattere categoriale del concetto di vita, cioè sulla vita che è fondamentale e, a ogni modo, non evincibile dagli ingenui modelli della meccanica, ma che al contrario li genera. Ora siamo dei materialisti economici: dunque i modelli meccanici altro non sono che una sovrastruttura a forme obsolete di strumenti che l’industria ha superato da tempo.[7]
Per aderire pienamente a questo compito – sia in qualità di teologo che in veste di scienziato - era necessario permettere alla discontinuità dei fenomeni, al loro naturale non-essere-per-me, diremmo in maniera heideggeriana, di raccontare e di trattenere, pur nel nascondimento impreciso, la realtà come fosse un corpo organico pluridimensionale. In che modo? Una prima chiave proviene dal pitagorismo antico, rievocato in via strumentale come primo esempio di realismo matematico, ove il senso del calcolo pare intimamente legato alla raffigurazione del numero puntiforme, la cui sostanzialità, sebbene di natura misterica, si mostrava a quel tempo della filosofia interamente fedele all’essenza del fenomeno non concettualizzato:
la raffigurabilità del numero non è, di conseguenza, solo una stampella psicologica dell’aritmetica, senza la quale essa se la caverebbe comunque, pur se con minor agio; non è un abito del concetto aritmetico indossato sul numero per comodità e decoro, ma entra sostanzialmente nell’atto stesso della conoscenza numerica: essa è necessaria.[8]
Tenendo fermo il principio dell’unità nella molteplicità, secondo Florenskij, l’aporia moderna di questo linguaggio figurale risiede, in termini matematici, in un mancato legame “culturalizzato” tra la quantità numerica intera e la plasticità geometrica della sua de-formazione variabile, ottenuta a partire dalla nota crisi della diagonale quadratica √2. La tesi dal titolo Le particolarità delle curve piane come luoghi di violazione della discontinuità, discussa da Florenskij nel 1904, intende restituire perciò alcune soluzioni a tale questione, ponendo il luce la necessità di poter raffigurare l’intero andamento di una funzione discontinua e l’intensità delle sue deviazioni o curvature solo accettando il fatto che esistano al suo interno punti oscuri, numeri relativi, insomma “limiti” non quantificabili e tuttavia assimilabili, al fine di poter effettuare delle operazioni utili, entro un insieme infinito (род) o una pluralità di insiemi, sulla base di proprietà ricorrenti o intrinseche agli stessi. La scienza dei gruppi, enunciata dal matematico tedesco Georg Cantor (Fondamenti per una teoria degli insiemi, 1883) sulle orme lasciate da Bernard Bolzano (I paradossi dell’infinito, 1851) diviene per questo motivo il perno su cui lo scienziato russo ripenserà il rapporto tra plurale e singolare: «la teoria degli insiemi – dirà – è la condizione necessaria di qualunque sapere».[9] Una simile affermazione scava al suo interno, a livelli diversi, una “responsabilità” nei confronti dell’unità, sempre superiore alla somma delle singole parti, la cui costituzione monadica - o totalità - legittima una priorità conoscitiva non tanto aritmetica o puramente ideale, quanto piuttosto “ordinale”, in grado cioè di salvare porzioni di spazio, disporsi secondo tipi di ordine conservativi e tipi di crescita generativi, segmentare quindi gerarchie tra insiemi derivati. Gli atti di astrazione individuati da Florenskij – l’unità dell’insieme (il tipo d’ordine) e la potenza della sua datità infinita – pongono cioè le basi per “aumentare” il grado di realtà di ogni espressione numerica minima. Questa sottile licenza è offerta dall’isomorfismo del numero transfinito, un numero simbolico e cumulativo (א) in grado di effettuare operazioni valide tramite iterazioni di insiemi infiniti, oltrepassando la natura dei singoli elementi. Oltre al privilegio di aver restituito il giusto merito alla teoria di Cantor, oggetto di non pochi equivoci nella successiva assiomatica europea, la forza interdisciplinare di un simile approccio non si arresta qui.
Posto che «la continuità altro non è che una delle infinite modificazioni della discontinuità»[10] e che la matematica in Florenskij – come scrive Valentini – «non riguarda soltanto i numeri ma le strutture necessarie del pensiero e quelle ontologiche del mondo»,[11] in che modo possiamo distinguere il soggetto e l’oggetto, intesi come due infiniti speculari, all’interno dei nostri processi conoscitivi? Se la fenomenologia classica sottrae lo spettatore dal mondo per estrarvi l’essenza eidetica, il metodo dialettico perseguito da Florenskij funziona come una lente che, anziché estrarre il puro inviolato dall’oggetto, “compone” con un atto di sintesi le gradazioni ricorsive del suo movimento stratificato, fino a lasciarne trasparire la pienezza, il tipo di ordine figurale: questa la differenza tra empirìa ed empirismo. La prima lavora sulla serie di articolazioni, il secondo sulle impressioni isolate.[12] In tal senso, si ritiene ineludibile in Florenskij il rapporto tra scienza e pensiero, in primis, e tra scienza e cristianesimo, in via ulteriore.[13] La sfida è data dalla possibilità reale di non escludere nulla dalla Verità, tanto meno il linguaggio delle scienze, la cui cifra simbolica, il cui carattere specifico non è che «un particolare conio del linguaggio, una sua particolare struttura, un suo grado di densità»,[14] che implicitamente chiede di avvicinarsi alla vita, di tener conto, prima o poi, dell’aspetto complessivo ottenuto nel rimbalzo tra infinito soggettivo e infinito oggettivo, tra impressioni inconsce e superfici visibili. La portata di tali interferenze non è indistintamente piatta (ciò che è indistinto è per Florenskij solo la “cosalità”, il grado zero della situazione su cui innestare la riflessione, l’ambiente naturale e non culturale) o psicologizzata, finché verrà disciplinata da alcuni correttivi fondamentali: abitare l’antinomia che proviene dalla vita in sé, strutturarne l’inerenza con la persona umana, mantenere una chiara finalità, un’unità di senso. In termini cristiani diremmo: abitare l’antinomia della SS. Trinità, rivelare in Cristo il volto dell’altro, immagine e somiglianza di Dio, perseverare nella vita dello Spirito.
In ogni caso, non si tratta semplicemente di accostare due ordini linguistici paralleli o fagocitarne la reciproca autonomia; si prova quantomeno a non soffocarne la “convergenza”, l’ampiezza della rispettiva capacità di contenere una misura di reale.[15] Questo spiega l’assillante tensione del giovane Florenskij verso la conciliazione tra idealismo e realismo nella filosofia moderna: se non stabiliamo un accordo previo su ciò che oggi possiamo dire “reale”, agiremo sempre sulla via dell’analogia o della rappresentazione. Scagionare il pensiero dal marchio del nominalismo non significa livellare la processualità dei sistemi in cui siamo immersi, omologarne le asimmetrie in via esclusivamente orizzontale, per evitare di muoverci nell’abuso di entità superflue o scomodi realia escatologici.
Questo giocare al ribasso risulta anti-organico, non “conviene” cioè alla stessa varietà che ci precede e con cui stabiliamo continui rapporti di fiducia incontrollata. Prediligere quindi la capacità di reale, l’ampiezza irradiante degli oggetti che trattiamo, esige prima di tutto rovesciare ogni idealismo, ribaltarne la prospettiva antropocentrica, imparare cioè a considerare l’equipollenza tra campi del sapere come una stazione di scambio tra binari diversi, immersi nell’accumulo di forze vitali che come ciuffi erbacei invocano una “vestizione” dello sguardo nuovo, anziché la sua denutrita nudità. Nella prospettiva organica di Florenskij, questa propedeutica della percezione viene ospitata al suo livello più alto negli oggetti del culto, di cui l’icona diviene la finestra d’eccellenza.
Se è necessario stabilire dei gradi nell’ambito delle visioni, il segno divisore andrebbe individuato nel grado di diffusione più che nelle peculiarità delle visioni stesse: i più diffusi, i più popolari, dunque, saranno allora i simboli religiosi, vecchi quanto l’umanità e in tutta l’umanità diffusi, i più legati nella sostanza alla natura umana, i più saldi e i meno personali; poi verranno i simboli filosofici e subito dopo quelli scientifici; ancora più personali sono i simboli artistici e, per finire, i più isolati e dipendenti dalle peculiarità del singolo individuo e dai suoi stati d’animo saranno i sogni.[16]
Al di là di un principio semplicemente quantitativo della sua diffusione, l’icona di per sé appartiene, considerandone la composizione, alla medesima contrazione infinitesimale della figura-limite nel tempo ( l’icona assume su di sé il volto, non dice tutto del volto), benché trasposta nello spazio del culto liturgico.[17] Senza dilungarci nell’analisi del “meraviglioso” accesso offerto dal volto iconico, basterà qui indicare come al suo interno si manifesti concretamente il carattere dello stazionario intermedio, del “non ancora” che ribalta la verticalità di una metafisica dualistica, per imprimersi nella concretezza grezza del piano, secondo processi graduali di costruzione e composizione dell’unità, secondo l’arte di una crescita volta alla compiutezza. L’icona trattiene in sé un grado di diffusione che non è misurabile in termini statistici, non ha a che vedere con la quantificazione religiosa del culto: essa è la soglia tangibile e concreta di una processualità tutta interna, trasfigurante il volto nel sembiante, la faccia del mondo nella sua doratura. In termini teologici diremmo che la diffusione è un fattore “santificante”, capace cioè di lasciar emergere dal volto più zone d’ombra possibili. Se l’icona non può quindi contenere tutto il dicibile, allo stesso modo non potrà esistere una traduzione che incolli il linguaggio della scienza a quello della fede in modo arbitrario, e viceversa. Tuttavia, lavorare per contrazioni sintetiche implica imparare a trattare le costanti come costanti e le variabili come tali, i dogmi come dogmi e la teologia come la vita stessa che li nutre attraverso l’incarnazione del suo linguaggio nella storia dell’uomo: una volta pacificati questi tipi di limite, una volta custodito il canone di una sequenza tra tipi di ordine, servirebbe indagare gli strati più profondi delle cellule stazionarie, dei simboli cioè che fungono da porte d’accesso o conduttori per s-piegare una realtà arricchita da più dimensioni concordi, anche se non sincretiche. Questa fedeltà alla relazione tra le parti di un corpo organico, permanendo nella natura costante di una partitura-limite, segna i tratti di una nuova mistica, se vogliamo, o di quella “metafisica concreta” spasmodicamente ricercata dal nostro autore.[18]
A questo punto della storia, il dramma della conoscenza attuale non pare infatti porsi più nei termini del purismo oggettivante: trattenendo in sé un travaglio assetato di fertili inculturazioni, capaci di osservare i fenomeni preservandone o tracciandone una familiarità genealogica con l’uomo-persona (non quindi con l’uomo esclusivamente psichico), una concezione cristiana del mondo dovrebbe supportare il coraggio di uno sguardo “quadrimensionale”, una capacità di toccare concretamente l’uomo nel suo rapporto con lo spazio e con il tempo, un’eccedenza questa che il tempo liturgico ecclesiale, dall’anamnesi all’epiclesi, ha da sempre vissuto. Allo stesso tempo una concezione scientifica del mondo, dovrebbe assicurarsi quella continua dialettica tra campi di discontinuità e luoghi germinali del simbolo – uno di questi è il linguaggio – per lasciar aderire dinamicamente ogni sistema vitale al suo corrispettivo genere di comprensione.[19]
BIBLIOGRAFIA
Brancato F., Il futuro dell’universo. Cosmologia ed escatologia, Jaca Book, Milano 2017
Florenskij P.A., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, a cura di N. Valentini e A. Gorelov, Bollati Boringhieri, Torino 2007
Id., Iconostasi. Saggio sull’icona, a cura di G. Giuliano, Medusa, Milano 2008
Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici, omiletici e mistici, a cura di N. Valentini e L. Žak, San Paolo, Milano 2014
Id., La concezione cristiana del mondo, a cura di A. Maccioni, Pendragn, Bologna 2011
Id., Stupore e dialettica, a cura di N. Valentini, Quodlibet, Macerata 2011
Solov’ëv V., Sulla bellezza della natura, dell’arte, dell’uomo, a cura di A. Dell’Asta, Edilibri, Milano 2006
Tagliagambe S. – Rispoli G., La divergenza nella Rivoluzione. Filosofia, scienza e teologia in Russia (1920 – 1940), Editrice LaScuola, Brescia 2016
Walicki A., Una utopia conservatrice. Storia degli slavofili, Einaudi, Torino 1973
NOTE
[1] S. Tagliagambe – G. Rispoli, La divergenza nella Rivoluzione. Filosofia, scienza e teologia in Russia (1920 – 1940), Brescia 2016, 85. La reticenza di Gödel potrebbe essere motivata dal fatto che l’opera di Bogdanov in quegli anni fosse ancora “ufficialmente” sotto censura sovietica. Una traduzione italiana compare nel 1988, curata da Francesco Dioguardi, preceduta da una raccolta in lingua inglese, Essays in Tektology, pubblicata da Geroge Gorelik nel 1980.
[2] «Il titolo dell’opera, già di per sé emblematico, in quanto è tratto dal verbo greco tektainomai, “costruisco”, fa riferimento al proposito di dimostrare che ogni attività umana nel campo della tecnica, della prassi sociale, della ricerca scientifica e dell’arte può essere considerato come materiale dell’esperienza organizzativa e studiata dal punto di vista dell’organizzazione». Ivi, 29. Tale orizzonte di pensiero include anche il ruolo cruciale, ben descritto da Tagliagambe, del geo-chimico Vladimir I. Vernadskij ( fidato amico di Pavel A. Florenskij) nello studio della struttura recettivo-dinamica della biosfera. Vedi anche S. Tagliagambe, Il cielo incarnato. Epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij, Roma 2013.
[3] V. Solov’ëv, La bellezza della natura (1889) in Sulla bellezza della natura, dell’arte, dell’uomo, a cura di A. Dell’Asta, Milano 2006, 48.
[4] «Il segreto dell’armonica unione di libertà e unità, smarrito dall’Occidente, era stato invece conservato dall’ortodossia, rimasta fedele alla tradizione protocristiana: era il segreto di un’unità libera, interiore, di un’unità di vita nel seno della Grazia. Chomjakov definì l’essenza di una simile, organica e libera comunità, col nome di sobornost’, una parola che compare spesso nei testi slavo-ecclesiastici, e che, secondo il nostro, era l’esatto corrispondente del significato originario del greco ϰαϑολιϰος»: A. Walicki, Una utopia conservatrice. Storia degli slavofili, Torino 1973, 189.
[5] Ricordiamo brevemente che Pavel A. Florenskij nasce nei pressi di Evlach in Azerbaijan, il 9 Gennaio 1882. Figlio di A. Ivanovic, ingegnere ferroviario, e dell’armena Ol’ga Sapar’jan, trascorre l’infanzia e l’adolescenza tra Tiblisi e Batumi (Georgia), sviluppando un’attitudine alla ricerca solitaria, alla sperimentazione artigianale e meravigliata sulla natura che gli permise di tutelare sempre uno sguardo ludico sul mondo. Nel 1899 attraversa la crisi classica dell’intellettuale russo, scisso tra impegno sociale e dedizione scientifica. Dopo gli studi matematici presso la Facoltà di Matematica e Fisica dell’Università di Mosca, l’incontro con lo starez Antonij Florensov nel 1903 sollecitò il suo ingresso presso l’Accademia Teologica, da cui uscì nel 1914 con la nota opera La colonna e il fondamento della Verità, primo traguardo di un’immensa produzione scientifica e teologica. Nel 1918, dopo l’ordinazione presbiteriale e a seguito del matrimonio con Anna Giacintova da cui ebbe cinque figli, viene nominato responsabile della Commissione per la salvaguardia dei monumenti della Lavra di San Sergio, esposti al rischio di statalizzazione sovietica. Dopo aver servito con innumerevoli studi e fiorenti scoperte diversi laboratori statali, viene arrestato per la prima volta nel 1928 per cospirazione contro il regime e spiritualismo conservatore. Il secondo arresto avvenne nel 1933 insieme alla spedizione in Siberia, dove Florenskij lavorò senza sosta sulla creazione degli anti-congelanti e del permafrost. L’ultima fase del suo operato da scienziato con il cuore in Cristo si concluse nel lager spettrale delle isole Solovki (Mar Bianco): qui proseguì gli studi sull’estrazione dell’agar-agar dalle alghe marine fino al giorno della fucilazione, destinandosi ad una fossa comune l’8 Dicembre1937.
[6] P. A. Florenskij, Su un presupposto della concezione del mondo in Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, a cura di N. Valentini e A. Gorelov, Torino 2007, 24. N. Bugaev teorizzò nel 1893 le basi per una monadologia evolutiva, fortemente condizionato dal sincretismo culturale dell’epoca e dall’efficacia della discontinuità come principio regolativo dei fenomeni reali, assai simile alle funzioni matematiche che non individuando in tutti i punti del loro intervallo un valore intero e finito, stabiliscono strutture articolate molto fedeli a quelle del mondo.
[7] P. A. Florenskij, L’incarnazione della forma, ivi, 226 – 227.
[8] P. A. Florenskij, I numeri pitagorici, ivi, 243.
[9] P. A. Florenskij, I simboli dell’infinito ( Saggio sulle idee di G. Cantor), ivi, 45.
[10] Id, Su un presupposto della concezione del mondo, ivi, 20.
[11] N. Valentini, La simbolica della scienza in Pavel A. Florenskij, ivi, XXXVIII
[12] Il manifesto di tale svolta è contenuto nell’articolo del 1904, Empiria ed empirismo: P. A. Florenskij, Il cuore cherubico. Scritti teologici, omiletici e mistici, a cura di N. Valentini e L. Žak, Milano 2014, 63 – 132.
[13] Su questo invito, la mia tesi Il simbolo in Pavel A. Florenskij. Genealogia di un sistema complesso (2012 – 2015) si propone di organizzare e indagare gli strati prevalentemente scientifici di queste traduzioni interdisciplinari tra campi della cultura.
[14] P. A. Florenskij, Stupore e dialettica, a cura di N. Valentini, Macerata 2011, 36.
[15] Per un’indagine recente sullo stato del rapporto tra scienze e fede, nello specifico tra escatologia e cosmologia, ad esempio, il volume di F. Brancato scandisce molto bene i limiti e i rischi di un’assimilazione indebita tra linguaggi del sapere: « Ciò che invece giudico necessaria è un’altra operazione, per cui, piuttosto che cercare una disperata fusione del linguaggio della scienza con quello della teologia e viceversa, converrebbe puntare a dar vita a una comunione di linguaggi, nel rispetto degli statuti epistemologici delle due discipline, che – questo è il punto centrale di ogni tentativo di dialogo – in ogni caso condividono la preoccupazione per il futuro dell’universo. Ciò vuol dire che le metafore utilizzate dalla teologia e quelle usate dalla scienza circa la fine sono fondamentalmente compatibili, e comunque non sono in assoluta contraddizione tra di esse, e questo nonostante appartengano di fatto a due ordini diversi, poiché le prime si riferiscono a quanto è trascendente mentre le seconde a quanto è immanente »: F. Brancato, Il futuro dell’universo. Cosmologia ed escatologia, Milano 2017, 85.
[16] P. A. Florenskij, Lo strumentario in Il simbolo e la forma, cit., 201.
[17] Il senso dell’onda di diffusione compare nel saggio Iconostasi ( 1919 – 1922): intende tutelare l’organicità del reale da cui non siamo mai del tutto estraniati. L’isolamento è difatti una presunzione psichica, il cui rischio è riattivare dinamiche romantico-psicologiche tipiche dell’uomo moderno da cui l’icona si affranca completamente. « Ogni raffigurazione, per il suo inevitabile carattere simbolico, scopre il proprio contenuto spirituale in modo affatto diverso dalla nostra ascesa spirituale “dall’immagine all’archetipo”, cioè nel nostro contatto ontologico con l’archetipo stesso: allora, e solo allora il segno sensibile si riempie di linfe vitali diventando, tuttavia, essendo inseparabile dal suo archetipo, non già una “raffigurazione” ma l’onda di diffusione o una delle onde di diffusione suscitate dalla realtà »: P. A. Florenskij, Iconostasi. Saggio sull’icona, a cura di G. Giuliano, Milano 2008, 53.
[18] La definizione di metafisica concreta interessa l’opera incompiuta di Florenskij dal titolo Agli spartiacque del pensiero. Lineamenti di metafisica concreta, cominciata dal 1918 e strutturata secondo livelli di contaminazione e co-implicazione tra parola e immagine nel linguaggio di senso comune, filosofico e scientifico.
[19] «Il compito di una concezione scientifica del mondo – dirà Florenskij con un realismo quasi provocatorio – è quello di non lasciare andare Gesù Cristo via dal mondo, dai confini dell’esperienza sensoriale. Allo stesso modo, anche nell’Annunciazione, prima di manifestarsi l’Angelo sarebbe dovuto passare per la porta, e prima trovarsi in giardino, prima ancora nella strada e così via. Il nostro compito è quello di consideralo continuamente secondo la legge della conservazione dell’energia e dell’indistruttibilità della materia, seguire con l’aiuto dell’equazione differenziale il movimento di ogni sua particella»: P. A. Florenskij, La concezione cristiana del mondo, a cura di A. Maccioni, Bologna 2011, 174 – 175.