Proponiamo al lettore alcuni stralci del saggio di Rinaldo Fabris, pubblicato nel 1986 dalla Pontificia Accademia delle Scienze, uno dei frutti della Commissione per lo studio del Caso Galileo voluta nel 1979 da Giovanni Paolo II nel 1979. Lo scritto ricostruisce con chiara sintesi la proposta galileiana e il contesto esegetico con cui si confrontava al tempo, fornendo le chiavi di lettura per comprendere quale esegesi delle Scritture lo scienziato pisano proponesse nella sua lettera a Maria Cristina di Lorena.
La struttura dello scritto, indirizzato a madama Cristina, assomiglia più ad un piccolo trattato che non ad una vera e propria lettera. In apertura il Galilei richiama gli antefatti: le reazioni malevoli alle sue scoperte confermano il sistema copernicano; denuncia l’abuso nell’addurre le sacre lettere per fare «damnare come eretica» la dottrina del Copernico senza averla prima conosciuta; mostra quali sono i meriti di questo uomo «non solamente cattolico, ma sacerdote e canonico» stimato dai papi e dai cardinali, il cui libro delle «Revoluzioni celesti», dedicato a Paolo III, non fu minimamente sospettato di eresia. Il tono apologetico e gli accenti polemici della lettera galileiana rispuntano qua e là interrompendo il discorso più propriamente espositivo e teorico. Questo è volto a chiarire la questione che il Galilei richiama con queste parole: «Il motivo, dunque che loro producono per condennar l’opinione della mobilità della terra e stabilità del sole, è, che leggendosi nelle sacre lettere, in molti luoghi, che il sole si muove e che la terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne seguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il sole esser per se stesso immobile e mobile la terra».[26]
La risposta a questo problema si sviluppa in modo organico – se si escludono gli intermezzi polemici di cui sopra – in quattro parti: 1. Modo di interpretare la Scrittura e suo ruolo in rapporto alle conoscenze naturali; 2. Rapporto tra teologia (Scrittura) e scienze naturali; 3. Criteri esegetici: la concordanza dei testi biblici e il consenso dei padri; 4. Esempio di interpretazione «copernicana» di Giosuè 10, 12-13. La novità di questo trattatello galileiano, rispetto all’abbozzo della lettera al Castelli, sta soprattutto nel ricorso massiccio ai testi di Agostino, assieme a qualche citazione di Girolamo, Dionigi l’Areopagita e Tommaso, con qualche riferimento ad alcuni commentari biblici più recenti. In base ad una lettera del Castelli a Galileo del 6 Gennaio 1615, si può supporre che la fonte delle numerose citazioni di Galileo sia stato un padre predicatore dei barnabiti, il quale ha promesso al Castelli di inviargli i testi di Agostino e di altri padri; questi a sua volta si propone di comunicarli a Galileo.[27]
Le linee portanti dell’argomentazione galileiana di possono riassumere nei seguenti punti:
1) In una prospettiva di fede cattolica il Galilei afferma il principio ricordato dal suo amico Castelli: «non poter mai la Scrittura sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d’assoluta e inviolabile verità».[28]
2) Ad esso si deve aggiungere un secondo principio epistemologico, ma fondato a sua volta su una asserzione di fede: «due verità non possono mai contrariarsi», cioè la verità della Scrittura e quella delle conclusioni naturali certe e sicure, fondate sulla «sensata esperienza» e le «dimostrazioni necessarie» o ragioni dimostrative. [29] Infatti, aggiunge il Galilei, ambedue, Scrittura e natura provengono da Dio, la prima come sua parola e la seconda come sua opera, la prima come «dettatura dello Spirito santo», la seconda come «osservantissima esecutrice degli ordini di Dio». A conferma di ciò riporta una frase di Tertulliano: Nos definimus Deum primo natura cognoscendum, deinde doctrina recognoscendum: natura ex operibus; doctrina ex praedicationibus. [30]
3) Il terzo principio ricordato da Galilei, il quale può richiamarsi alla tradizione dei padri e autorità della chiesa, è che l’intenzione primaria della Scrittura è quella di enunciare «gli articoli concernenti alla salute e allo stabilimento della fede»; articoli o proposizioni «che sendo necessarie per la salute degli uomini e superando ogni umano discorso non potevano per altra scienza né per altro mezzo farsi credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito santo».[31] A sostegno di tale principio Galileo può richiamarsi all’autorità di Agostino: breviter dicendum est, de figura coeli hoc scisse authores nostros quod veritas habet, sed Spiritum Dei, qui per ipsos loquebatur, noluisse ista docere homines, nulli saluti profutura (in Genesim ad literam, II,9).[32] Questo scopo primario delle Scritture è riassunto in una frase lapidaria, attribuita «a persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò è l’intenzione dello Spirito santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo».[33] Una conferma di tale intenzione primaria dei testi sacri il Galilei la desume da questa considerazione: è veramente minima e quasi nulla la parte di informazione che le sacre Scritture forniscono circa la costituzione e i movimenti dei cieli e delle stelle.[34]
4) Da questi principi Galileo deriva alcune conseguenze circa il ricorso alle Scritture nelle questioni che sono oggetto di conoscenza naturale e circa il corretto modo di interpretarle:
a) «nelle dispute naturali e che direttamente non sono de Fide non si deve partire dall’autorità delle Scritture» [35]. Chi facesse così non solo farebbe abuso dell’autorità delle Scritture sacre, ma dimostrerebbe di essere a corto di argomenti ed escluderebbe perfino la possibilità di una vera e seria ricerca scientifica. [36] Anzi, sulla base del testo succitato di Tertulliano, il Galilei sostiene che ci si deve servire delle conclusioni naturali, certe e sicure, frutto di sensate esperienze e dimostrazioni necessarie, come «dei mezzi accomodatissimi alla vera esposizione di esse Scritture ed all’investigazione di quei sensi che in loro necessariamente si contengono, come verissime e concordi con le verità dimostrate».[37]
b) Nel caso di un contrasto tra le conclusioni naturali, certe e sicure, fondate sulle sensate esperienze e le necessarie dimostrazioni da una parte e le proposizioni della Scrittura dall’altra, si deve rivedere l’interpretazione delle Scritture stesse. Questa posizione del Galilei, che sembra concordare con quella del card. Bellarmino, nella sua risposta al Foscarini, si fonda su questa argomentazione:
– Prima di tutto la verità della Scrittura non è quella dei suoi interpreti ed espositori, i quali in vario modo possono errare;
– In secondo luogo il vero senso della Scrittura non corrisponde sempre al senso immediato, «puro e nudo», delle parole, né al loro significato apparente e letterale. Infatti, aggiunge Galilei, chi si limitasse ad una interpretazione letteralistica della Scrittura sarebbe costretto ad accettare «non solo diverse contraddizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poiché sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anche talvolta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future»;[38] «le quali proposizioni (sì come), dettante lo Spirito santo, furono in tal guisa profferite dagli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozo e indisciplinato»…;[39]
– perciò, conclude il Galilei: «è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi e n’additino le ragioni particolari per ché siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione alcuna» [40]
[…]
Come si colloca Galileo Galilei rispetto agli orientamenti esegetici del suo tempo? Nelle lettere inviate a B. Castelli, a P. Dini e poi in quella più ampia indirizzata a madama Cristina di Lorena, il Galilei affronta il problema del rapporto tra Scrittura e conoscenze naturali e scientifiche. Tale questione era già stata avvertita dal canonico Copernico e più volte egli aveva promesso di affrontarla in uno scritto, ma non aveva fatto nulla. Solo nella dedica alla sua opera De Revolutionibus orbium coelestium, pubblicata alla vigilia della sua morte, tocca in termini generali la questione, affermando la distinzione metodologica dei due campi di conoscenza. A questa posizione si richiama anche il Galilei, ma per svilupparvi un discorso più ampio sui principi ermeneutici che devono ispirare un corretto rapporto tra Scrittura e scienze naturali.
Il Galilei per stabilire tali principi o criteri ermeneutici nella lettura della Bibbia si richiama a quelle testimonianze autorevoli di Agostino che sono riferite anche nei Prolegomena biblica di B. Pereyra. Anche per definire il rapporto tra verità della Scrittura e la verità scientifica Galileo può ricorrere ad alcuni testi di Agostino, Girolamo e Tommaso d’Aquino. In altri termini la posizione di Galileo circa i principi ermeneutici della Scrittura sono quelli tradizionali. L’apporto originale del Galilei consiste nell’averli ripresi in modo lucido e organico sotto l’urgenza posta dalla nuova questione, nella quale è implicato personalmente, cioè il rapporto tra autorità della Scrittura e le conoscenze naturali. Galileo dice che si deve interpretare un testo biblico secondo l’intenzione primaria della Scrittura stessa, cioè la prospettiva religiosa salvifica, tenendo conto che la sua formulazione letteraria si adatta al modo di sentire e parlare dei destinatari, storicamente e culturalmente situati. Questa orientamento, anche se ancorato all’autorità dei padri, è sollecitato dalla necessità di far fronte all’obiezione di quanti affermano l’opposizione irriducibile tra l’autorità della Scrittura e il sistema eliocentrico.
Ma è questa stessa urgenza apologetica e polemica che spinge il Galilei a fare l’esegesi di alcuni testi biblici, Sal 18 e Gios 10,12-13, dimenticando o contraddicendo i principi ermeneutici appena enunciati. Mentre da una parte afferma che si deve andare oltre il senso “nudo e immediato delle parole” dell’autore biblico – che si adatta al modo di parlare del suo tempo – d’altra parte ritiene che il senso “letterale” dei succitati passi biblici si accorda perfettamente con il sistema copernicano o eliocentrico. Questa incoerenza galileiana si può comprendere tenendo presente che la prospettiva epistemologica fondamentale del nostro autore è di carattere “scientifico”: una volta date le conclusioni naturali certe e sicure, si può partire da queste per interpretare anche i testi biblici.
Un’incoerenza analoga si riscontra negli esegeti contemporanei del Galilei. Verso la fine del XVI secolo e inizi del XVII in un eccezionale fervore di studi biblici, si vanno definendo in modo organico e chiaro i principi ermeneutici, facendo tesoro dei nuovi strumenti critici e filologici. Un ruolo privilegiato viene assegnato al senso letterale del testo, per cogliere l’intenzione dell’autore sacro, che riguarda la fede e la vita morale. Ma nell’applicazione di tale criterio ermeneutico nell’esegesi dei testi prevale la prospettiva teologica, acuita dalle preoccupazioni apologetiche e controversistiche. All’interno di questa prospettiva appare ancora confusa la linea di demarcazione tra l’affermazione di fede e l’interpretazione storico-culturale della realtà. Alle soglie del metodo e sapere scientifico non appare chiara la distinzione tra concezione ideologica e formulazione scientifica. Parimenti agli inizi dell’esegesi storico-critica non è distintamente definito il confine tra formulazione storico-culturale del testo biblico e la sua valenza religiosa-teologica.
Probabilmente un incontro meno traumatico tra le acquisizioni dell’incipiente metodo scientifico e i primi tentativi di lettura critica dei testi biblici avrebbe segnato in modo fecondo le relazioni tra sapere scientifico e ricerca religiosa nell’epoca moderna. Ma era possibile questo nel contesto storico di quel secolo? Gli esiti della storia non corrispondono sempre a quello che è possibile e desiderabile. In ogni caso non può essere senza frutto il tentativo di capire le ragioni di quegli eventi che contrassegnano ancora la storia contemporanea.
Note
[26] Lettera a madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, 1615, in Opere di Galileo Galilei, a cura di Franz Brunetti, Utet, Torino 1964, vol. I, p. 558.
[27] Cfr. Galileo Galilei, Opere, ed. Nazionale a cura di A. Favaro, vol .XII, pp. 126-127.
[28] Lettera a don B. Castelli, in Opere di Galileo Galilei, p. 526; cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, p. 558.
[29] Lettera a don B. Castelli, in ibidem, p. 528; cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, p. 564.
[30] Cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, pp. 559-560.
[31] Lettera a don B. Castelli, in ibidem, pp. 528-529; cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, pp. 560-565.
[32] Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, p. 561.
[33] Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, p. 563. La frase è attribuita al card. Cesare Baronio.
[34] Cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, p. 564; cfr. Lettera a don B. Castelli, in ibidem, p. 529.
[35] Lettera a don B. Castelli, in ibidem, p. 529; cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, p. 559.
[36] Cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, pp. 566, 586-587; cfr. Lettera a don B. Castelli, in ibidem, pp. 529-530.
[37] Cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, pp. 560-576.
[38] Lettera a don B. Castelli, in ibidem, p. 526; cfr. Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, p. 558.
[39] Lettera a madama Cristina di Lorena, in ibidem, p. 558; cfr. anche ibidem, p. 559; cfr. Lettera a don B. Castelli, in ibidem, p. 526. Cfr. Lettera a Elia Diodati, in Opere, vol. XV, pp. 24-25.
[40] Lettera a madama Cristina di Lorena, in Opere di Galileo Galilei, p. 558.
Rinaldo Fabris, Galileo Galilei e gli orientamenti esegetici del suo tempo, Pontificia Academia Scientiarum, Città del Vaticano 1986, pp. 14-18 e 43-44. N.B. La numerazione delle note a piede di pagina segue quella dello scritto originale.