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A proposito di un recente dibattito su Dio e la scienza

Michael Paul Gallagher
1993

  

Un nostro precedente articolo [1] faceva il punto su alcuni commenti apparsi a caldo sulla stampa a proposito del discorso di Giovanni Paolo II, tenuto il 31 ottobre dello scorso anno, alla Pontificia Accademia delle Scienze sul «caso» Galileo e sui problemi ad esso collegati. Si è visto che l'avvenimento ha suscitato un vivo interesse e, nella maggior parte dei casi, ha dato luogo a cronache puntuali sul suo significato di capitolo finale di una storia complessa. Galileo è stato spesso presentato dalla tradizione illuminista come la vittima per antonomasia dell'oppressione ecclesiastica. E in effetti, nell'immaginario collettivo, Galileo ancora simboleggia l'incompatibilità tra religione e scienza. Che egli abbia sofferto, e ingiustamente, è innegabile. Ma che il suo «caso» sia emblematico del supposto abisso tra scienza e religione si è ora rivelato un mito piuttosto che la realtà.

Da tale punto di vista è molto significativo che, dopo le prime cronache dell'iniziativa pontificia, abbia preso l'avvio un dibattito più approfondito, in particolar modo sui giornali italiani, riguardante gli aspetti del rapporto tra scienza e fede religiosa oggi. Si è trattato di un dibattito di grande qualità e di notevole serietà d’intenti [2]. Di per sé questa cronaca è indicativa del fatto che i presupposti dell'Illuminismo sono morti o agonizzanti e che la vecchia e indiscussa convinzione dell’incompatibilità tra i due orizzonti non appare più attendibile da un punto di vista teorico. Questo non significa che tutte le controversie si siano appianate o che tutti colore che hanno contribuito al dibattito ritengano quello tra religione e scienza un rapporto non problematico. Ma è indubbio che l’idea di un dialogo fruttuoso tra scienza e religione è vista in una luce molto positiva. I problemi relativi alla fede e alla scienza acquistano nuovo interesse persino per i non credenti. Si percepisce adesso una nota diversa nell’influenza reciproca in questo campo, in termini sia possibili sia positivi, e perciò la vecchia sfiducia è stata abbandonata in quanto frutto di approcci superati e addirittura di pregiudizi, spesso alimentati da un’interpretazione ostile del tragico episodio di Galileo.

Anche se questo articolo prende l’avvio da un dibattito svoltosi sui media italiani, per coincidenza, più o meno nello stesso periodo, due importanti iniziative avevano avuto luogo in Inghilterra e negli Stati Uniti. In Inghilterra è stata data notevole pubblicità alla donazione di un milione di sterline da parte di Susan Howatch, autrice di numerosi best-seller, per la creazione, all’Università di Cambridge, di una cattedra che studi i rapporti tra «Teologia e Scienza». Intorno alla metà di aprile poi, all’Università di Notre Dame (USA), si è svolto invece un importante Simposio, a cui hanno partecipato esperti di scienza e religione provenienti dal mondo di lingua inglese. Intitolato «Conoscere Dio, Cristo e la natura nell’era post-positivistica», questo incontro ha riunito specialisti che erano al tempo stesso cristiani impegnati. La domanda centrale intorno a cui ha ruotato il Convegno verteva su fino a che punto una epistemologia adatta alla scienza possa avvicinarsi a una epistemologia che si accordi con le affermazioni del cristianesimo.

 

Il problema del caso

Un importante promotore di questo dibattito, per guanto riguarda l'Italia, è stato Eugenio Scalfari, in un articolo su la Repubblica (di cui è direttore) pubblicato a distanza di almeno un mese dal discorso del Papa [3]. Circa due mesi più tardi, Scalfari è tornato sull’argomento con un altro articolo nel quale rispondeva a vari interlocutori [4]. Esprimeva la soddisfazione per il fatto che il dibattito si fosse dimostrato fruttuoso e di qualità e, anche se egli si proclama un non credente che non sperimenta il «bisogno» di «sentimento religioso» (parole chiave nella sua argomentazione), riconosceva che le domande profonde e permanenti sull’esistenza e sull’identità di Dio sottendono molti problemi fondamentali della scienza contemporanea. Egli interpretava l’attuale atteggiamento della Chiesa nei confronti della scienza come «tolleranza» e «flessibilità», maturato nel riconoscimento della «reciproca competenza», ma esprimeva poi un dubbio: questo senso di «conciliabilità tra scienza e fede» rappresenta una pace permanente tra i due campi?

Il problema centrale che Scalfari poneva in merito riguardava «la prevalenza del caso» nella scienza contemporanea, in quanto essa «sta sempre più abbandonando la concezione deterministica» dell’Universo. Questo nuovo modello pone un serio punto interrogativo ai presupposti anteriori riguardanti la causalità e quindi, egli sosteneva, mette in seria discussione i vecchi approcci ne confronti di Dio: «In un mondo dominato dal caso non c’è più posto per Dio».

Scalfari insisteva inoltre sul fatto che l’immagine dominante di «un Dio legislatore» esiste in tutte le religioni monoteistiche ed è anche indissolubilmente legata alla coscienza morale. «Cancellate la norma e avrete abolito il sentimento morale». In un paragrafo di particolare importanza metteva in guardia contro un’interpretazione riduttiva della sua posizione: «Io non sto affermando che Dio c’è e che si identifica con la legge. Sto sostenendo una cosa del tutto diversa: e cioè che la mente umana, se sente il bisogno di Dio, non può che pensarlo come legge; il resto è. Come dicevo, fantareligione. Attenti, amici laici, scienziati o non scienziati; la religione non è favola, è bisogno; personalmente non ce l’ho» [5].

Anche prescindendo dai problemi relativi al caso, ci sono almeno due punti discutibili in questa tesi altrimenti interessante: l’identificazione esclusiva e automatica di Dio con la legge, e della religione con il bisogno umano. Certamente in natura esistono modelli (ed essi rappresentano proprio la base dell’avventura della scienza), ma Dio è ben più che legislatore e artefice dell’ordine. Dietro a ciò si cela una tendenza della mentalità scientifica a fraintendere l’idea teologica della creazione e, quindi, a considerare Dio semplicemente come la causa prima, o come un governatore nel senso umano del termine «governare». In secondo luogo, c'è bisogno o fame di Dio, ma questa non è la sola prova che sottende la fede. Anche qui sono necessari un programma più ampio e argomentazioni con maggiore convergenza.

 

Sei problemi principali

Nelle settimane successive al primo articolo di Scalfari, numerosi esperti espressero il loro parere sulle sue opinioni riguardo al caso, sia su la Repubblica (John Barrow, Sergio Givone, David Ruelle, il card. Camillo Ruini e altri), sia su Avvenire (Bruno Musso, George Coyne), sia sul Corriere della Sera (Emanuele Severino), sia su Rocca (Carlo Molari). Il nostro scopo non è quello di riassumere ognuno di questi contributi, ma piuttosto d'individuare alcuni punti chiave emersi. Ci è sembrato più semplice sintetizzare i problemi sollevati in termini di domande, raggruppate nel seguente ordine:

1) L'ipotesi sul caso può cambiare qualcosa nell'argomentazione relativa all'esistenza di Dio? Qualcuno potrebbe sostenere che in realtà essa avvalora la posizione del credente, dando in un certo senso più spazio a Dio. Secondo un fisico matematico non credente, non è in questione una «casualità ontologica, ma una comoda descrizione della nostra ignoranza». Perché dunque, sostiene D. Ruelle contro il proprio scetticismo, attaccare Dio sulla base di questa «casualità» che è in realtà una «incertezza antologica»?

2) Inoltre, insistendo sul caso, non si dimentica il Dio dei cristiani, prendendo in considerazione solo il Dio dei filosofi, per riproporre una famosa distinzione di Pascal? Quindi, il bisogno cruciale non è quello di un ripensamento dell'esperienza religiosa, più importante di ogni dibattito sulla causalità e sulla casualità? Su questa stessa linea, il problema centrale non è quello relativo a chi è Dio e a che cosa è la fede? Perché non concentrarsi dunque su Dio come libertà e sulla fede come dramma della scelta? In breve, la scienza è davvero attinente alla specifica epistemologia della fede cristiana?

J) D'altro canto, non è pericoloso insistere su una separazione troppo radicale tra i differenti metodi di fede e scienza, con il rischio di descrivere la fede come irrazionale e meramente soggettiva? Se si trascurano quelle strade che portano a Dio le quali partono dalle esperienze e dalle domande umane, non si tralascia un nesso decisivo tra scienza e fede, costituito dalla intelligibilità della realtà e dal potere della ragione di raggiungere la verità oggettiva in generale e in particolare un'affermazione dell'esistenza di Dio (benché questa affermazione manchi necessariamente di fede teologica)? Anche se la scienza contemporanea insiste sul carattere provvisorio e relativo dei suoi metodi, non presuppone ancora l'intelligibilità della natura, che di riflesso implica un'apertura della mente nei confronti di Dio?

4) Concentrandosi sul Dio legislatore, dove va a finire l'idea del Creatore in senso più profondo, non solo come causa originaria, ma come fonte continua, libera e trascendente di tutta l'esistenza? In realtà, il rapporto tra la libertà umana e la creatività divina non potrebbe diventare più facilmente comprensibile sulla base di una scienza contemporanea fondata su modelli di realtà postmeccanicisti (o si potrebbe anche dire post-galileani) [6]?

5) Da questo punto di vista, il Papa, nel suo discorso del 31 ottobre, non ha prospettato una nuova era di autonomia delle diverse discipline, un'indipendenza non solo compatibile con il dialogo interdisciplinare per la ricerca della verità ma anche volta a favorirlo? Un'iniziativa promossa in questo senso non è il progetto –patrocinato dalla Specola Vaticana– di una serie di studi con lo scopo di «approfondire il rapporto tra la conoscenza degli avvenimenti fisici realizzata tramite le moderne cosmologie e la dipendenza degli stessi avvenimenti dalle azioni di Dio Creatore»?

6} Tuttavia i potenziali nodi di conflitto tra scienza e religione oggi non riguardano forse la sfera della tecnologia applicata, che diviene prometeica, piuttosto che il mondo della teoria astratta [7]?

Non abbiamo la pretesa, in questa sede, di dare una risposta a questi interrogativi, ma piuttosto di prendere atto della loro esistenza e del fatto che sono stati sollevati, in modo molto significativo, come risultato indiretto del discorso di ottobre del Papa su Galileo. Uno dei commenti di Scalfari sulle varie risposte suscitate dal suo articolo di novembre è particolarmente importante: «Spero risulti chiaro che il problema di cui ci stiamo occupando non è quello dell'esistenza di Dio e neppure della superiorità della scienza sulla fede o viceversa. Ci stiamo occupando dei processi mentali che sorreggono la ricerca scientifica, dei processi mentali che si raffigurano un'immagine della divinità e della maggiore o minore convergenza tra queste due attività della mente» [8].

In questa ottica, le pagine che seguono offrono due brevi prospettive supplementari: una riguarda la convergenza tra scienza e religione negli ultimi anni, l'altra distingue ciò che vi è di specifico nella fede teologica cristiana da ciò che sta all'orizzonte della convergenza scienza-religione. Con attenzione ad ambedue le aree problematiche, forniremo ora alcuni utili spunti provenienti dal mondo di lingua inglese.

 

Un nuovo rapporto tra scienza e fede

Cosa è cambiato nella scienza da renderla più aperta a orizzonti religiosi? A questa domanda ha risposto con grande efficacia Giovanni Paolo II, in un messaggio inviato nel 1988 al direttore della Specola Vaticana, un testo di cui un teologo non cattolico ha detto: «Non conosco miglior dichiarazione in materia di teologia e scienze naturali» [9]. Il Papa salutava un nuovo spirito di «interscambio dinamico [...) tra la comunità scientifica e la Chiesa stessa», descrivendolo come «un movimento ben definito, anche se fragile e provvisorio» [10]. Egli insisteva poi sulla distinta autonomia di ognuna delle due discipline, delineando in questo modo la diversità tra i due campi: «La religione non si fonda sulla scienza né la scienza è un'estensione della religione. Ciascuna ha i suoi principi, il suo modo di procedere, le sue differenti interpretazioni e le proprie conclusioni. Il cristianesimo ha in se stesso la sorgente della propria giustificazione e non pretende di fare la sua apologia appoggiandosi primariamente sulla scienza. La scienza deve dare testimonianza a se stessa» [11]. Più avanti egli aggiungeva le seguenti parole, spesso citate: «La scienza può purificare la religione dall'errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall'idolatria e dai falsi assoluti. Ciascuna può aiutare l'altra a entrare in un mondo più ampio, un mondo in cui possono prosperare entrambe» [12].

Negli ultimi anni altri commentatori cristiani, compresi molti esperti in materia sia teologica sia scientifica, hanno sottolineato la nuova atmosfera di reciproca influenza tra questi due campi, notando quanto fosse grande la differenza rispetto al passato, quando le due discipline si sono spesso ignorate o hanno assunto atteggiamenti ostili una nei confronti dell'altra. Una delle analisi condotte ha elencato quattro possibili versioni del rapporto tra religione e scienza –conflitto, indipendenza, dialogo e integrazione– e ha suggerito che il modello del dialogo è al momento il più fecondo [13].

Dietro a questo nuovo potenziale rapporto ci sono importanti mutamenti nella concezione della realtà che costituisce il fondamento delle scienze contemporanee e delle loro metodologie. Il vecchio presupposto di una visione meccanicista del mondo fisico ha lasciato il posto a una epistemologia molto più sofisticata, che concepisce la realtà come soggetta a una interazione permanente. Se il modello precedente considerava l'Universo come un orologio e Dio come un possibile orologiaio, nella fisica contemporanea le cose appaiono molto più sfumate. Partendo da questa metafora dell'orologio, il sacerdote e scienziato anglicano John Polkinghorne, ex professore di fisica matematica all'Università di Cambridge, ha sostenuto che «la maggior parte dei sistemi sono così intensamente sensibili al caso che il loro comportamento è intrinsecamente imprevedibile. La cosiddetta teoria del caos ha dimostrato che in giro ci sono molte più nuvole che orologi» [14]. E in effetti egli suggerisce che questo modello di realtà postmeccanicista, in quanto pone l'accento sull'indeterminatezza fisica, è più «aperto» a una teologia ispirata alla preghiera di supplica e a «nozioni d'interazione provvidenziale divina». Secondo Polkinghorne, dal punto di vista della nuova fisica è un atteggiamento intellettualmente irresponsabile quello di chiudere la mente alle possibili sorprese della fede religiosa. Quindi, egli sostiene, anche per gli scienziati non credenti l'incontro con la «bellezza razionale» attraverso la scienza è simile a una esperienza religiosa, e nei credenti esso ha compo tato «un diffuso ritorno alla teologia naturale almeno tra i fisici» [15].

Per la scienza classica il meccanismo di causalità era il modello interpretativo dominante, che presumeva una distinzione netta e assoluta tra il soggetto osservante e l'oggetto osservato. Ma il teologo e scienziato australiano J. Honner sostiene che «le conseguenze della fisica quantistica contemporanea potrebbero riportarci a posizioni in cui una nozione interattiva come quella di "presenza" sia un indicatore più significativo di realtà di quanto non lo sia il criterio empirico di oggettività» [16] secondo l'assunto del modello newtoniano. Se oggi la microfisica dà luogo a conseguenze metafisiche, allora essa, secondo Honner, può offrire una nuova antologia, attraverso cui arrivare alla comprensione di alcuni centrali misteri cristiani.

Effettivamente il sorgere di questioni ultime relative al senso e al mistero non è più confinato alla metafisica e alla teologia, ma è entrato nel campo della scienza in modi che sarebbero apparsi impensabili nei secoli scorsi. Il paradosso di Einstein che «l'eterno mistero del mondo è la sua intelligibilità» è stato verificato più e più volte in vari ambiti della scienza a partire dal suo tempo, col risultato di una nuova apertura al prodigioso e alla dimensione religiosa. Per quanto il fondamento della realtà fisica sia diventato più sfuggente, il «problema del mistero dell'esistenza diviene ancora più urgente alla luce del panorama cosmico dischiuso dalle scienze naturali» [17]. Questo orizzonte allargato della scienza è sì entusiasmante dal punto di vista del credente, ma talvolta può diventare la fonte di una facile sintesi da parte sia dei teologi sia degli scienziati. Una certa tendenza alla «visione globale» ha rappresentato una tentazione per gli scienziati, che li ha portati a indulgere in generalizzazioni che Incontravano una immediata popolarità, in cui «la scienza viene presentata come capace di dischiudere le fondamenta ultime della realtà, di andare incontro a tutti i desideri umani e di soddisfare tutte le aspettative». Tale concezione eleva la scienza al rango di una «saggezza immanente» che non è giustificata dalla sua metodologia di scienza [18]. Se ciò accade, gli scienziati cadono in trasgressioni epistemologiche che possono facilmente far colpo sul grande pubblico: le persone restano giustamente impressionate dalle conquiste della scienza, ma possono non essere in grado di distinguere facilmente quando lo scienziato filosofo va oltre la sua competenza. Sotto molti aspetti questa è una vecchia storia, che non ha fatto la sua comparsa per la prima volta nelle aree di frontiera della ricerca contemporanea: essa riguarda l'onestà intellettuale dello scienziato come persona e, soprattutto, la sua capacità di distinguere filosoficamente in merito alla traduzione delle intuizioni da un campo di conoscenza a un altro.

 

 

La necessità di un orizzonte teologico

Prendendo come punto di partenza un'affermazione del card. Ruini, bisogna sottolineare che tenere il dibattito sull'esistenza di Dio solo entro gli orizzonti della scienza e della filosofia significa rimanere all'interno di una prospettiva limitata. Verso la fine del suo primo articolo a riguardo, il Cardinale scriveva: «Ciò di cui ho parlato finora non è propriamente la fede nel suo senso teologico, ma è, a un livello preliminare e più generico, la possibilità di accesso dell'uomo a Dio» [19].

I credenti sono giustamente impressionati e persino esaltati dalla nuova apertura nei confronti di Dio evidenziata da alcune scoperte della scienza contemporanea. Anche l’alta qualità degli scritti pubblicati dai quotidiani e dalle riviste italiane negli ultimi mesi è indicativa di una nuova tendenza e di un nuovo reciproco interesse tra gli esperti. Tuttavia non è un segno d’ingratitudine insistere sul fatto che, per quanto la scienza stabilisca i termini di riferimento, il dibattito sarà sempre inferiore alla fede cristiana nel suo senso più pieno. Come Virgilio con Dante, la scienza può guidare la ragione umana su nuovi sentieri verso la soglia della fede, ma varcare quella soglia richiederà sempre una diversa dimensione della verità, un sì alla Rivelazione di Dio in Cristo. Questo è anche implicito nell'affermazione del Papa, citata in precedenza, quando sostiene che la intelligibilità essenziale della verità cristiana viene dall'orizzonte della fede e «non pretende di fare la sua apologia appoggiandosi primariamente sulla scienza».

In parte un simile approccio è stato l'argomento di uno dei maggiori studi sulla storia dell'ateismo, pubblicato dal gesuita americano M. J. Buckley. Il suo volume sulle origini dell'ateismo moderno [20] concentra la sua attenzione sui sec. XVII e XVIII, soprattutto in Francia, e racconta la storia di una mancanza di vigore nella teologia, a seguito della quale i difensori della fede cristiana cominciarono a limitarsi a un campo di discussione strettamente filosofico e a dimenticare il ruolo della Rivelazione e dell'esperienza religiosa. Caddero quindi nella trappola di accettare i termini del dibattito come venivano posti dai loro avversari atei, in genere entusiasti sostenitori di una spiegazione meccanicista dell'universo naturale. Il bersaglio della critica dell'Autore è il tentativo di difendere il divino senza far riferimento a Cristo. Il risultato finale fu che «il cristianesimo entrò nell'arena della difesa dell'esistenza del dio cristiano senza fare appello a nulla di cristiano» (ivi, p. 67). La tragedia stava nel fatto che i teologi si lasciarono dirottare su un terreno a loro estraneo e le loro motivazioni per la fede in un Dio personale divennero il mondo impersonale al centro della scienza contemporanea. In questo modo l'apologetica cristiana perse di vista Cristo e difese la spiegazione dell'Universo come se questo significasse difendere il Dio della Rivelazione. «Il cristianesimo, per difendere il suo Dio, si trasformò in teismo» (ivi, p. 346). Capitolando in questo modo, la religione non riuscì ad aver fiducia nelle sue rivendicazioni conoscitive autentiche: «Se la religione non ha nessuna giustificazione intrinseca, non può essere giustificata dall'esterno» (ivi, p. 360).

Le argomentazioni positive di Buckley sono state sviluppate in un successivo articolo, dove egli identifica gli elementi fondamentali di un'apologetica di fede specificamente cristiana: «La riflessione fondazionale non può escludere i dati e l'esperienza del senso religioso al fine di avvalorare l'esistenza di Dio. La religione, come la riflessione su di essa, deve possedere in se stessa i principi e le esperienze atti a svelare l'esistenza del divino. Se non c'è alcuna forza persuasiva nella fenomenologia dell'esperienza religiosa, o niente è dato di scoprire nella testimonianza di storie personali di santità, preghiera, profondo rispetto e dedizione religiosa; se non ha alcuna forza quell'esigenza impellente di assoluto già presente nel bisogno di verità, di fedeltà, di bontà e di bellezza; [...] se nessuna forza persuasiva si riscontra nella lunga storia e saggezza delle istituzioni e delle pratiche religiose, né in tutte quelle dimensioni della vita che vengono giustamente chiamate "religiose"; ma soprattutto – per chiunque prenda seriamente il problema religioso– se non dice nulla l'appello della vita e del significato di Gesù di Nazareth: allora è, in definitiva, controproducente volgersi fuori della sfera religiosa a un'altra disciplina, scienza o arte per fondare la pretesa fondazionale della religione, o per dimostrare che "c'è un amico dietro il fenomeno"» [21].

Vale la pena di notare che una conclusione simile è raggiunta anche da I. Barbour, un teologo americano di diversa tradizione. Egli avverte che fare troppo affidamento sulla scienza può portare a trascurare aree cruciali come «l'esperienza della redenzione, la guarigione delle nostre lacerazioni in una nuova integrità, e l'espressione di un nuovo rapporto con Dio e con il prossimo» [22]. Bisogna quindi sempre mantenere un delicato equilibrio tra una teologia che viene coinvolta dal discorso dominante della cultura che la circonda sino all'estremo di dimenticare che, da un lato, le sue radici e le sue fondamenta sono nella Rivelazione e, dall'altro, una teologia che è completamente chiusa nei confronti della cultura contemporanea e delle sfide poste dalle nuove frontiere della conoscenza e dell'interrogarsi.

 

Conclusione

Una delle lezioni imparate dolorosamente dalla storia di Galileo è che ogni disciplina ha bisogno di diventare più rigorosamente consapevole della propria specifica natura e di conoscere le diverse particolarità funzionali delle altre discipline. Questo significa, nello specifico, un riconoscimento delle diverse autonomie sia della scienza sia della teologia, e delle loro distinte metodologie. Ma «la legittima autonomia delle scienze non equivale a una loro separazione gnoseologica dalle altre fonti del sapere», e parimenti l'autonomia della teologia non deve trasformarsi in una ignoranza fideistica della pertinenza, pastorale e non, degli «interrogativi suscitati dalla ricerca scientifica». Piuttosto, il desiderio di stabilire di nuovo una «unità del sapere» e una «genuina interdisciplinarità» ha il suo nucleo nell'umanità stessa [23].

Per tornare al discorso del Papa del 31 ottobre, benché la scienza si sviluppi «nell'ambito dell'aspetto orizzontale dell'uomo e della creazione» e benché la teologia inizi dalla «direzione verticale» del volgersi alla Rivelazione di Dio, nondimeno le due direzioni sono unite nella natura dell'uomo in quanto «essere spirituale e homo sapiens». In questa prospettiva, il nuovo dialogo tra religione e scienza può assumere molte forme. Può concentrarsi sul contenuto o sul metodo. Può individuare più ampie problematiche di etica e di applicazione. Ma in senso stretto le discipline di per sé sono incapaci di dialogo: esso è una caratteristica dell'essere umano, di persone alla ricerca di una saggezza degna della nostra storia e delle sue sfide di oggi. In questo senso ogni nuovo dialogo tra scienza e religione può essere di vitale importanza per il futuro della nostra società.

 

Note:

[1] M. P. GALLAGHER, «Note in margine al caso Galileo», in Civ. Catt. 1993 I 424-436.
[2] Dopo la pubblicazione del precedente articolo, è stato stampato in proposito un importante libro sull’argomento: A. FANTOLI, Galileo: per il Copernicanesimo e per la Chiesa, Città del Vaticano, Specola Vaticana, 1993. Vale anche la pena di ricordare un recente articolo in materia di uno studioso francese: P.-N. MAYAUD, «Une nouvelle affaire Galilée?», in Revue d’Histoire des Sciences 45 (1992) n. 2-3, 162-230.
[3] E. SCALFARI, «Se Dio si arrende al caso», in La Repubblica, 25 novembre 1992.
[4] Id., «Noi uomini tra cielo e terra», ivi, 15 gennaio 1993.
[5] Ivi.
[6] Questa posizione, sottolineata da C. Molari in Rocca (1° gennaio 1993), è simile all'affermazione dello scienziato e teologo inglese John Polkinghorne, secondo la quale è sbagliato pensare a una «causa prima» in linguaggio temporale piuttosto che filosofico: «La ricerca di una causa prima è una ricerca della comprensione più profonda possibile di ciò che viene in essere» e comprende quindi la «causa fondamentale nel e del presente»: J. POLKINGHORNE, Science and Creation, London, SPCK, I988, II s.
[7] D'accordo con l'opinione di E. Severino è un altro esperto di lingua inglese, che ha affermato con insolita forza: «Da un punto di vista religioso, i progetti nelle scienze biologiche e nella tecnologia rappresentano la più grande sfida che il cristianesimo abbia mai dovuto affrontare»: R. BRUNGS, You see lights breaking upon us: Doctrinal Perspectives on Biological Advances, St. Louis, Versa Press, I989, III.
[8] E. SCALFARI, «Noi uomini tra cielo e terra>>, cit.            ,
[9] J.B. COBB, «One Step Further», in CTNS Bullettin (Center for Theology and the Natural Sciences) 10 (1990) I.
[10] S. MAFFEO, Nove Papi una missione. Cento anni della Specola Vaticana, Città del Vaticano, Pontificia Academia Scientiarum- Specola Vaticana, 1991, 227 s; 229.
[11] Ivi, 232.
[12] lvi, 236.
[13] I.G. BARBOUR, «Ways of Relating Science and Theology», in R. Russell - W. R. Stoeger- G.V. Coyne (edd.), Physics, Philosophy and Theology: A Common Quest for Understanding, Vatican City, Vatican Observatory, 1988, 21.
[14] J. POLKINGHORNE, «Spiritual Growth and the Scientific Quest», in The Way, October 1992, 256.
[15] lvi, 253.
[16] J. HONNER, «A new Ontology: Incarnation Eucharist Resurrection and Physics» in Pacifica 4 (1991) 16. 
[17] A. PEACOCKE, Theology for a Scientific Age, Oxford, University Press, 1990, 101. La frase di Einstein è stata citata da Giovanni Paolo II nel suo discorso del 31 ottobre, con riferimento a The Journal of the Franklin Institute, vol. 221, 1936, n . 3.
[18] G. TANZELLA-NITTI, Questions in Science and Religions Belief: the roles of faith and science in answering the Cosmological Problem, Tucson, Pachart Publishing House, 1992, 67.
[19] C. RUINI, in la Repubblica, 27 dicembre 1992
[20] M.J. BUCKLEY, At the Origins of Modern Atheism, New Haven, Yale University Press, 1987.
[21] ID., «Ateismo, Origini», in Dizionario di Teologia Fondamentale, a cura di R. Latourelle - R. Fisichella, Assisi (PG), Cittadella, 1990, 90 s.
[22] I.G. BARBOUR, «Way of Relating ...», cit ., 44.
[23] G. TANZELLA-NITTI, «Evangelizzazione e cultura scientifica», in Oss. Rom., 6 marzo 1993, 5.

 

In La Civiltà Cattolica, 1993 II, quaderno 3430, pp. 327-338.