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L’unità di scienza e filosofia e l’ideale di riforma dell’università di Federigo Enriques

Francesca Gambetti
Segretario nazionale della Società Filosofica Italiana
2021

Il 1906 può essere considerato un anno spartiacque nel percorso professionale e di ricerca di Federico Enriques, che dagli studi più strettamente matematici si apre alle questioni che oggi definiremmo di filosofia della scienza e a quelle di politica dell’istruzione. In quell’anno, infatti, pubblica il corposo volume Problemi della scienza nel quale, come lui stesso afferma, erano confluiti “i risultati maturi di quindici anni di ricerche”, e interviene al primo convegno della Società Filosofica Italiana (SFI), organizzato dal 20 al 21 settembre (data scelta volutamente dagli organizzatori per il suo valore simbolico), a Milano, che quell’anno ospitava l’Esposizione Universale, presentando la relazione L’ordinamento delle università in rapporto alla filosofia (Enriques 1907), nella quale avanza una prima critica agli ordinamenti accademici italiani, e propone un modello di riforma che si ispira alla sua visione unitaria del sapere, al profondo legame tra filosofia e scienze. 

In quella relazione Enriques si presentava come la voce “estranea all’insegnamento ufficiale della Filosofia”, scelta dal Consiglio direttivo della SFI per ‘riaffermare’ “i bisogni sempre più generalmente sentiti di una riforma universitaria confacente all’odierno progresso della idealità filosofica”, voce che poteva esprimere “le aspirazioni che si diffondono ormai anche fra i docenti delle Facoltà scientifiche” (Enriques 1907, 37).

Le criticità dell’università italiana individuate erano essenzialmente tre: 1) l’estrema specializzazione degli insegnamenti, che aveva avuto come conseguenza la “netta distinzione fra le Facoltà” e soprattutto la separazione della filosofia dalle scienze matematiche e naturali; 2) la moltiplicazione e la differenziazione delle cattedre (che non trovava riscontro nelle università straniere) che appesantiva e parcellizzava il percorso formativo degli studenti; e 3) il progressivo restringimento dei criteri di valutazione per la selezione dei docenti, che di fatto era la maggiore causa della frammentazione del sapere. 

Questo sistema, nella lettura di Enriques, era responsabile della ‘meschina’ riduzione della scienza a tecnica, perché dava maggiore importanza alle questioni di metodo e alle differenze ‘accidentali’ tra le discipline, invece che ai problemi generali e ai fini della ricerca.

La separazione delle facoltà, inoltre aveva determinato l’irrigidimento dei piani di studio, obbligando gli studenti a seguire percorsi predefiniti, che rispondevano a logiche tradizionali, mentre al contrario avrebbero dovuto essere liberi di scegliere quegli insegnamenti che andavano incontro alla nuova realtà economica e sociale nazionale, che richiedeva professionalità più articolate e complesse.

Il danno maggiore però era stato commesso dal legislatore italiano che aveva considerato la filosofia una disciplina complementare del curricolo storico e letterario, insegnata da poche cattedre affini e separata dalle scienze matematiche e naturali, che invece erano state le matrici del pensiero moderno, come esemplificato dalle figure di Cartesio e Bacone.

Per Enriques queste scelte avevano permesso all’Italia di registrare un certo sviluppo sul piano tecnico, senza però che ci fosse stato un reale “progresso delle idee direttive”, al punto che la scienza italiana era nella condizione di dare solamente “una somma di risposte a problemi generali posti da altri”, non essendo in grado di dare alcun apporto originale allo sviluppo scientifico mondiale (Enriques 1907, 39).

Di qui la proposta di riforma dell’università di Enriques, che aspirava a una “unità del sapere”; una università filosoficamente riformata, che prevedeva un’unica Facoltà filosofica, che congiungeva “fra loro e alla Filosofia, tutte le discipline teoriche, come ad es. le Matematiche e l’Economia; la Zoologia, l’Anatomia e la Fisiologia; la Geologia e la Geografia”, che erano state “arbitrariamente separate secondo viete ed assurde distinzioni” (Enriques 1907, 40). Al di fuori di questa Facoltà sarebbero rimasti solamente “gli insegnamenti di pratica applicazione”, come le cliniche mediche e il Politecnico degli ingegneri. 

Per Enriques, la filosofia avrebbe dovuto dunque aprirsi alle questioni generali sollevate dalle scienze particolari, che rappresentavano un momento propedeutico rispetto alla fondamentale comprensione dei problemi e degli scopi ultimi della conoscenza. Solo dopo un approfondito training formativo nei “campi di studio più disparati”, come le “scienze matematiche, fisiche o biologiche, giuridiche ed economiche, glottologiche e storiche”, la filosofia avrebbe potuto aprire le menti mature ai problemi generali e non costituire “il rifugio di intelligenze vaghe e oscure, cui una pseudoscienza dà l’illusione della superiorità” (Enriques 1907, 41).

Una proposta di riforma molto audace quella di Enriques, che lascia intravedere anche una velata critica al mondo della filosofia italiana, rimasta ai margini del fecondo dibattito sugli oggetti, gli scopi e il metodo della ricerca filosofica, che si era ampiamente sviluppato in Europa. Una filosofia che avrebbe dovuto confrontarsi con i problemi della vita reale, che avrebbe dovuto essere il centro di una radicale riforma della società, rigenerata anche attraverso un ampio processo di maturazione dell’opinione pubblica, e che invece era ancorata a una visione elitaria della conoscenza e della società.

Due anni più tardi Enriques riprende e amplia la critica al sistema universitario italiano, ribadendo come questo negli ultimi cinquant’anni avesse registrato un certo sviluppo, testimoniato da un apprezzabile progresso scientifico, dall’espansione delle professioni liberali e dell’industria, ma come, in quella nuova fase storica, apparisse inadeguato rispetto alle mutate esigenze della società e dell’economia italiana, che pertanto rischiava di rimanere indietro rispetto gli altri paesi europei.

L’ordinamento dell’università allora in vigore 1) addestrava solo alle professioni tradizionali e non era in grado di preparare a quelle nuove “che vanno evolvendosi, moltiplicandosi e intrecciandosi nel progresso sociale” (Enriques 1908, 134); inoltre 2) frammentando gli insegnamenti isteriliva la ricerca, penalizzando in modo particolare “i nuovi rami della scienza che non erano contemplati nei vecchi quadri, mentre la nuova produzione scientifica mondiale metteva in relazione tutti i saperi” (Enriques 1908,  135); infine 3) non preparava adeguatamente i futuri insegnanti delle scuole, che non solo mancavano di una specifica formazione pedagogica, ma che avevano ricevuto “una preparazione formale e quasi meccanica, dove la memoria supplisce all’intelligenza”, causata dalla mole di studi dovuta all’accrescimento dei programmi (Enriques 1908, 138).

Le università italiane, infatti, per aggirare la legge che vietava l’istituzione di cattedre non necessarie e che proibiva la nomina di più titolari per una stessa materia,  per far posto a nuovi studiosi, avevano creato nuove cattedre, “particolarizzando” quelle esistenti; proprio tale meccanismo aveva prodotto per gli studenti universitari un sovraccarico intellettuale che rispondeva a logiche accademiche e non formative. Gli studenti, dal canto loro, subivano tale aggravio di studio ma, pur di conseguire la laurea, non si ribellavano, accontentandosi di quella preparazione mnemonica, “formale e meccanica”, che non “preparava alla vita”. L’università avrebbe dovuto insegnare a “sviluppare l’attitudine a cogliere le linee generali delle cose, a formarsi traverso i particolari un concetto d’insieme, ad agire con vigore d’iniziativa, coordinando i mezzi allo scopo” (Enriques 1908, 139). Invece il modello in uso andava in senso opposto, e preparava “uomini disposti ad un lavoro infecondo, e caratteri fiacchi, incapaci di comprendere le responsabilità sintetiche dell’azione, pronti a rifugiarsi ogni momento nelle scuse della procedura e nell’osservanza della forma” (Enriques 1908, 139). Una università che, diremmo oggi, era orientata più verso i contenuti che verso le competenze, mentre invece avrebbe dovuto incitare i giovani “a lavorare su pochi dati e a trovare da sé ciò che per avventura manchi, […] a saper valutare […] in rapporto agli scopi” (Enriques 1908, 140).

Nell’analisi di Enriques una reale ed efficace riforma dell’università doveva inoltre intervenire anche sul sistema di reclutamento dei docenti, che non seguiva i criteri della qualità e della preparazione del candidato, ma quelli della fedeltà e della appartenenza campanilistica. Il candidato locale doveva seguire la strada tracciata rigorosamente: “bisogna arrolarsi per lunghi anni in un laboratorio che porti la voluta etichetta, ed in quello guadagnarsi l’anzianità sui compagni di studio; bisogna intraprendere dati lavori, faticosamente, senza tregua per fornire prova costante della propria attività; e guai a passare da un laboratorio ad un altro, ad interrompere la produzione per meditare o studiare, o peggio ancora per tentare ricerche che oltrepassino i limiti stabiliti nella definizione delle cattedre!” (Enriques 1908, 142).

A questa prassi avrebbe dovuto porre rimedio il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che però esercitava solamente un controllo formale delle nomine universitarie, senza poter entrare nel merito, e che, essendo formato dai rappresentanti delle stesse Facoltà,  di fatto finiva per riaffermare i localismi che avrebbe dovuto prevenire.

Sulla scorta di questa lucida analisi, Enriques riproponeva il suo modello di università, che sulla base di tre principi ispiratori: 1) “deve corrispondere alle esigenze sintetiche della rinnovata coscienza filosofica e della vita pratica, avverso il particolarismo scientifico-didattico dell’epoca precedente”; 2) “deve ravvivare lo spirito d’iniziativa dei nostri Atenei, promovendone la libera differenziazione”; 3) “deve sancire il principio della libertà degli studi ed, emancipando i giovani dal peso di un’erudizione formale, prepararli alle professioni e alla vita con un esercizio più attivo delle loro facoltà” (Enriques 1908a, 371-372).

Riprendendo le considerazioni della relazione presentata al primo convegno della SFI propone di unificare almeno le Facoltà di Scienze e di Lettere, lasciando fuori il Politecnico per gli ingegneri, il Policlinico per i medici e le Scuole normali di Magistero per gli insegnanti (Enriques 1908a, 363). 

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Benedetto Croce (25 febbraio 1866 – 20 novembre 1952)

La Facoltà filosofica avrebbe dovuto godere di ampia autonomia, e accanto a un piccolo numero di insegnamenti fissi avrebbe potuto attivare insegnamenti variabili, rispondenti a precise finalità scientifiche e pratiche. La laurea sarebbe stata sancita da un esame complessivo finale, cui si accedeva dopo aver frequentato un certo numero di corsi, scelti liberamente dallo studente. In linea generale sarebbe stato individuato solamente il numero minimo dei corsi, e successivamente sarebbe stata accertata la serietà del programma seguito e, nel caso, richiesta un’integrazione agli studi. Oltre alla laurea generale si sarebbero potuti attivare altri diplomi o titoli, che però non avrebbero avuto valore abilitante. L’abilitazione alle professioni e l’ammissione ai pubblici uffici infatti si sarebbero conseguiti mediante esami di Stato o mediante pubblici concorsi. 

La soppressione delle facoltà avrebbe richiesto conseguentemente anche una modifica della composizione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che sarebbe stato formato non solo dai membri dell’Università, ma anche da rappresentanti delle diverse professioni, dell’industria, della magistratura e da docenti delle scuole medie ed elementari.

Sulla questione della riforma del sistema universitario Enriques tornò ancora negli anni successivi, fino al 1911, anno della celebre querelle con Benedetto Croce avvenuta all’indomani del IV Congresso internazionale di filosofia, che di fatto segnò la progressiva marginalizzazione del matematico livornese all’interno dell’ambiente filosofico italiano, facendo tramontare definitivamente ogni possibilità di attuazione del suo modello di unificazione del sapere, di congiunzione di scienza e filosofia.

  


 

Bibliografia

Enriques 1907: Federigo Enriques, L’ordinamento delle università in rapporto alla filosofia, in Atti del Primo Convegno della Società Flosofica Italiana, Milano 20 e 21 settembre 1906, Cuppini, Bologna 1907, rist. anast. Armando, Roma 2011, pp. 37-42.

Enriques 1908: Federigo Enriques, L’università italiana. Critica degli ordinamenti in vigore, «Rivista di Scienza», II (1908), pp. 133- 147.

Enriques 1908a: Federigo Enriques, La riforma dell’università italiana, «Rivista di Scienza», II (1908), pp. 362-72.