Tecnologia e responsabilità. Riflessioni sui nuovi compiti dell'etica

Discorso originariamente pronunciato all’International Congress of Learned Societies in the Field of Religion, tenuto a Los Angeles nel settembre 1972, e incluso in Religion and the Humanizing of Man, a cura di James M. Robinson (Council on the Study of Religion, 1972). Successivamente pubblicato in «Social Research», 15 (primavera 1973).

Il saggio di Hans Jonas che qui riproponiamo si interroga sulle implicazioni etiche della tecnologia contemporanea. Jonas propone che gli sviluppi tecnologici attuali, quelli in corso da mezzo secolo almeno, pongono la questione etica su basi significativamente nuove rispetto ai sistemi etici del passato. Partendo da questo punto di vista, il saggio offre riflessioni stimolanti su almeno tre temi d’interesse antropologico tanto profondo quanto attuale: la comprensione effettiva della presenza dell’uomo nel mondo, l’impatto che il futuro (previsto o immaginato) ha o dovrebbe avere sul presente, la tecnica come “spinta in avanti inesauribile della specie” umana. L’imperativo forse più importante che si ricava dalla lettura del saggio è che, la “nuova tecnologia” impone radicalmente il dovere – metodologico ed etico – di raggiungere una conoscenza “commisurata alle dimensioni causali del nostro agire”.

Tutti i sistemi etici precedenti – sia che imponessero rettamente di compiere o meno determinate azioni, sia che definissero i principi su cui tale imposizione si fondava, sia che stabilissero i motivi per cui era d'obbligo rispettare tali principi – condividevano tacitamente i seguenti presupposti, tra loro collegati: che la condizione umana, determinata dalla natura dell'uomo e delle case, fosse data una volta per tutte; che su questa base si potesse immediatamente stabilire quale fosse il bene dell'uomo; e che la portata dell'azione umana, e perciò della responsabilità dell'uomo, fosse rigidamente definita. Fulcro della mia argomentazione sarà mostrare che questi presupposti non sono più validi, e riflettere sul significato di questo fatto per la nostra condizione morale. Più precisamente, la mia tesi sarà che, in conseguenza di determinati sviluppi delle nostre capacità, la natura dell’agire umano è mutata, e poiché l'etica è connessa con l'agire, da ciò dovrebbe derivare che la mutata natura dell'agire umano richiede anche un mutamento nell'etica: questa non semplicemente nel senso che nuovi oggetti dell'agire hanno ampliato materialmente l'ambito dei casi a cui devono essere applicate le regale vigenti del comportamento, ma nel senso più radicale che la natura qualitativamente nuova di certe nostre azioni ha dischiuso una nuova dimensione eticamente significativa, di cui non esistono precedenti nei criteri e nei canoni dell'etica tradizionale.

Le nuove capacità a cui penso sono, ovviamente, quelle della moderna tecnologia. Di conseguenza, cercherò innanzitutto di spiegare come questa tecnologia influisca sulla natura del nostro agire, in quali modi essa, sotto il suo dominio, renda l'agire differente da ciò che è stato in ogni epoca. Poiché l'uomo non è mai stato privo di tecnologia, la questione verte sulla differenza, in relazione ad esso, tra la tecnologia moderna e quella antecedente. Inizieremo con una voce antica sulle capacità e gli atti dell'uomo, che sembra evocare, per cosi dire, un modello primitivo di ìtecnologia – il famoso Coro dall'Antigone di Sofocle.

Molte le cose
tremende, ma di tutte
più tremenda è l'uomo.
Oltre il livido
mare avanza,
nell'australe vento
burrascoso, passando
tra profondi muri
d'acqua mugghianti intorno.
Suprema
tra gli dei, la Terra,
instancabile immortale, logora
con aratri che di anno
in anno la rivoltano, avanti
e indietro, con l'apporto
della razza equina.
Le specie degli uccelli
volubili cattura, e le stirpi
delle bestie selvatiche e
le forme viventi nel mare
salato, tra maglie
avvolgendole, fraudolento,
l'uomo. Doma
con trucchi le bestie che hanno
tane agresti e vagano
per le montagne, e il collo
del cavallo di folta
criniera e l'infaticabile
toro montano aggioga.
 
A se stesso insegnò
la parola e il pensiero
simile al vento, e le civili
consuetudini, e come
i morsi all'aperto
del gelo terribile
per chi non ha riparo
e le piogge sferzanti
scompare, in tutto
ingegnoso. Mai
in difetto d'ingegno
a ogni destino fa fronte. Ade
solo non scampa, ma con sforzo
comune apprestò vie
di scampo a mali
irrimediabili.
Capisce, inventa, ha
sulle arti dominio
oltre l'attesa, e ora
al bene, ora
al male, serpeggiando
volge. Se
del paese le leggi
applica e la giustizia
degli dei, sancita
da giuramento, in alto
sarà nella patria. Sprezzante
il senza patria a chiunque
capiti – brutta
faccenda – s'aggrega.
Al mio focolare costui
non s'avvicini, comuni
con me pensieri non abbia
chi queste cose compie.[1]

Questo omaggio alle capacita dell'uomo, pieno di timore reverenziale, ci parla della sua irruzione violenta e profanatrice nell'ordine cosmico, dell'invasione arrogante dei vari domini della natura da parte del suo ingegno inesauribile; ma anche della sua capacità di edificare – mediante il linguaggio e il pensiero, acquisiti spontaneamente, e un certo senso della socialità – la dimora per la sua stessa umanità, l'artefatto costituito dalla città. La profanazione della natura e la civilizzazione dell'umanità vanno di pari passo. Entrambe si compiono senza tener conto degli elementi, l'una avventurandosi al loro interno e soggiogando le loro creature, l'altra fortificando una nicchia contro di essi nel rifugio costituito dalla città e dalle sue leggi. L'uomo è l'artefice della sua vita in quanto vita umana, poiché può piegare le circostanze al suo volere e alle sue esigenze, e non è mai inerme, salvo che di fronte alla morte.

Tuttavia, c'è qualcosa di timoroso, persino di inquietante, in questa esaltazione della meraviglia che è l'uomo – un'esaltazione che nessuno può scambiare per sfrontata millanteria. Con tutta la sua sconfinata ingegnosità, l'uomo è ancora piccolo rispetto agli elementi: proprio questo rende le sue incursioni così audaci e fa sì che essi tollerino la sua impudenza. Quando usa, come se fossero di sua proprietà, le creature della terra, del mare e dell'aria, egli non muta ancora la natura che ingloba quegli elementi, né diminuisce la loro potenza generativa. Non può danneggiarli ricavando il suo piccolo regno dai loro. Essi durano nel tempo, mentre i suoi disegni hanno vita breve. Per quanto egli devasti la Terra, la più grande divinità, anno dopo anno con il suo aratro - essa è eterna e inesausta; egli deve e può fare assegnamento sulla sua paziente sopportazione, e deve conformarsi al suo ciclo. Anche il mare è eterno. Per quanto egli getti le reti sulle creature marine, l'oceano fecondo e inesauribile. E non subisce danni quando le navi lo solcano, ne viene insudiciato da ciò che l'uomo getta nei suoi abissi. E per quante malattie l'uomo riesca a curare, le sue capacità nulla possono contro la morte.

Tutto questo vale perché le incursioni dell’uomo nella natura, cosa di cui egli stesso si rendeva conto, erano essenzialmente superficiali, e incapaci di turbare il suo equilibrio stabilito. Ne esiste, nel coro dell'Antigone o in qualsiasi altro luogo, un accenno al fatto che questo è soltanto l'inizio e che più importanti risultati dell'ingegno e del potere devono ancora essere raggiunti - che l'uomo è perennemente dedito alla conquista. Egli aveva a tal punto ridotto la sfera della necessità, ingegnandosi per estorcerle quanto serviva a rendere umana la sua vita, che poteva fermarsi li. Lo spazio che aveva in questo modo creato fu riempito della città degli uomini – destinata a racchiudere e non ad estendersi – per cui un nuovo equilibrio si stabilì all'interno del più ampio equilibrio del tutto. Tutto il bene o il male a cui l'uomo, una volta o l'altra, può essere condotto dalla sua facoltà inventiva si trova all'interno della nicchia umana, e non tocca la natura delle cose.

L'invulnerabilità del tutto, che le molestie dell'uomo possono solo scalfire, cioè il carattere fondamentalmente immutabile della Natura in quanto ordine cosmico, era in verità lo sfondo di tutte le imprese dell'uomo mortale, comprese le sue intromissioni in quello stesso ordine. La vita dell'uomo oscillava tra ciò che perdura e ciò che muta: ciò che perdura era la Natura e ciò che muta le sue opere. La più grande di queste opere era la città, a cui egli poteva conferire un certo grado di stabilità mediante le leggi che creava per essa e che si impegnava a rispettare. Ma nulla garantiva che questa stabilità innaturale sarebbe durata a lungo. In quanto artefatto precario, essa può finire o deperire. Nemmeno all'interno del suo spazio artificiale, dove pure l'uomo esercita il libero arbitrio, ciò che è arbitrario può mai soppiantare le condizioni fondamentali del suo essere. È proprio la mutevolezza delle vicende umane a garantire la stabilità della condizione umana. II caso, la buona e la cattiva fortuna e la follia, i grandi equilibratori nelle faccende umane, agiscono come una sorta di entropia e, a lungo andare, riportano ogni proposito formulato alla legge eterna. Le città sorgono e cadono, le dominazioni vanno e vengono, le famiglie prosperano e declinano: nessun mutamento è durevole e, alla fine, poiché tutte le temporanee deviazioni si bilanciano, la condizione dell'uomo rimane quella che è sempre stata. E così, persino nel suo stesso artefatto, il controllo dell'uomo è limitato e prevale la sua natura durevole.

Eppure, questa roccaforte di sua stessa creazione, nettamente separata dal resto delle cose e affidata a lui, costituiva l'intero e unico ambito dell'agire responsabile dell'uomo. La natura non era oggetto della responsabilità umana – poiché essa provvede a se stessa e, con qualche blandizia e un po' di arroganza, anche dell'uomo: con essa non l'etica, ma solo l'intelligenza le era appropriata. Ma nella città, dove gli uomini hanno a che fare con altri uomini, all'intelligenza deve unirsi la moralità, poiché questa e l'anima del suo essere. Ogni etica tradizionale si trova all'interno di questa cornice infra-umana, e si collega alla natura dell'agire delimitato da questa stessa cornice.

Ricaviamo da quanto precede quelle caratteristiche dell'agire umano che sono significative per un confronto con lo stato attuale delle cose.

1. Tutto ciò che aveva a che fare con il mondo extra-umano, cioè l'intera sfera della techne (ad eccezione della medicina), era eticamente neutrale - sia rispetto all'oggetto, sia rispetto al soggetto di tale agire: rispetto all'oggetto, perché influiva poco sulla natura, capace di autoconservazione, delle case e perciò non sollevava alcun problema che riguardasse un danno permanente all'integrità del suo oggetto, l'ordine naturale nel suo insieme; rispetto al soggetto agente, perché la techne come attività concepiva se stessa come uno specifico tributo alla necessita e non come un progresso illimitato e autoconvalidantesi verso il fine primario dell'umanità, perseguibile con uno sforzo e una partecipazione estremi da parte dell'uomo. La vera vocazione dell'uomo risiede altrove. In breve, l'azione sul mondo non-umano non costituiva una sfera davvero significativa dal punta di vista etico.

2. L'etica acquistava rilievo nella relazione diretta tra uomo e uomo, compresa la relazione dell'uomo con se stesso: ogni etica tradizionale e antropocentrica.

3. Quanto all'agire in questa sfera, l'entità «uomo», come la sua condizione fondamentale, era considerata costante nella sua essenza, e non essa stessa oggetto di una techne capace di darle nuova forma.

4. II bene e il male di cui l'agire doveva occuparsi erano strettamente connessi all'atto, sia nella prassi stessa, sia nella sua portata immediata, e non erano oggetto di pianificazione a lungo termine. Questa prossimità dei fini valeva per il tempo come per lo spazio. II campo d'azione effettivo era ristretto; la previsione, la definizione degli obiettivi e l'imputazione di responsabilità erano a breve termine, il controllo sugli eventi limitato. Una condotta corretta aveva i suoi criteri immediati e il suo compimento era pressoché immediato. La lunga serie di conseguenze più remote era lasciata al caso, al destino o alla provvidenza. L'etica era quindi etica del qui ed ora, delle circostanze che si verificano tra gli uomini, delle situazioni ricorrenti, caratteristiche della vita privata e pubblica. L'uomo probo era colui che affrontava queste circostanze con virtù e saggezza, coltivando queste capacita in se stesso e rassegnandosi per il resto all'ignoto.

Tutte le prescrizioni e le massime dell'etica tradizionale, pur nella loro fondamentale diversità, appaiono limitate a questa immediata definizione dell'azione. «Ama il tuo prossimo come te stesso»; «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te»; «Insegna a tuo figlio la via della verità»; «Persegui l'eccellenza sviluppando e attuando le potenzialità più elevate del tuo esse re in quanto uomo»; «Subordina il tuo bene individuale al bene comune»; «Non trattare mai il tuo prossimo soltanto come un mezzo, ma sempre anche come un fine in sé»-e così via. Si osservi che in tutte queste massime colui che agisce e l'«altro» rispetto al suo agire condividono un presente comune. Sono coloro che vivono nel mio tempo e che sono in rapporto con me ad avere un diritto sulla mia condotta nella misura in cui essa influisce su di loro con i fatti o le omissioni. L'universo dell'etica è costituito dai contemporanei, e il suo orizzonte, volta al futuro, è limitato dall'arco prevedibile delle loro vite. Altrettanto limitato è l'orizzonte del luogo in cui colui che agisce e l'altro si incontrano come prossimo, arnica o nemico, come superiore e sottoposto, come più debole e più forte, e in tutti gli altri ruoli in cui gli esseri umani interagiscono tra loro. Tutta la moralità era conformata a questo campo d'azione immediato.

Da ciò consegue che la conoscenza necessaria – oltre al volere morale – per garantire la moralità dell'azione, era conforme a queste limitazioni: non era la conoscenza della scienziato o dell'esperto, ma un genere di conoscenza immediatamente accessibile a tutti gli uomini di buona volontà. Kant arrivò ad affermare che «in sede morale la ragione umana può essere facilmente portata, anche nell'intelletto più comune, a grande esattezza e perfezione»[2]; che «non c’è bisogno né di scienza né di filosofia per sapere ciò che si deve fare per essere onesti e buoni, e persino saggi e virtuosi... [L'intelligenza comune] può sperare di cogliere nel segno quanto può riprometterselo in ogni caso il filosofo»[3]; e ancora; «Non ho dunque bisogno di grande perspicacia per sapere cosa debbo fare affinché la mia azione sia moralmente buona. Inesperto dell'andamento delle cose, incapace di far fronte a tutto ciò che accade», posso tuttavia sapere in che modo agire in conformità con la legge morale.[4]

È vero che non tutti i pensatori interessati all'etica hanno sminuito tanto l'importanza dell'aspetto cognitivo dell'agire morale. Ma anche quando ad esso è stato dato molto più rilievo, come in Aristotele, in cui la percezione della situazione e di ciò che è appropriato per essa esige un'esperienza e un discernimento notevoli, tale conoscenza non ha nulla a che fare con il sapere oggettivo. Ovviamente, essa implica un concetto generale del bene dell'uomo in quanto tale, un concetto basato sulle presunte costanti della natura e della condizione umana, che può trovare o no espressione in una teoria propria. Mala sua traduzione nella prassi richiede una conoscenza del qui ed ora, e questa è del tutto non teoretica. Questa «conoscenza» peculiare della virtù (del «dove, quando, in rapporto a chi e come») rimane confinata all'occasione immediata, nel cui contesto definito si svolge e si conclude l'azione come azione dell’agente. Se l'azione sia buona o cattiva viene deciso interamente in quel contesto limitato. Essa fa risplendere la sua luce morale, visibile a chi la osserva. Nessuno era ritenuto responsabile delle conseguenze involontarie del suo atto, se questa era compiuto a fin di bene, ben ponderato e correttamente eseguito. Al braccio corto del potere umano non occorreva il braccio lungo della conoscenza predittiva; la brevità dell'uno e tanto poco colpevole quanto quella dell'altro. Proprio perché il bene dell'uomo, conosciuto nella sua universalità, e lo stesso in ogni epoca, la sua realizzazione o violazione ha luogo in ogni epoca, e il suo luogo finito e sempre il presente.

 Tutto questo è decisamente cambiato. La portata, gli obiettivi e le conseguenze dell'azione determinati dalla tecnologia moderna sono così nuovi che l'etica precedente non è più in grado di abbracciarli. Oggi, il coro dell'Antigone sulle portentose capacità dell'uomo dovrebbe essere letto in modo differente; e la sua ammonizione all'individuo perché rispetti le leggi della terra non sarebbe più sufficiente. Certo, le vecchie prescrizioni dell'etica del «prossimo» – sulla giustizia, la carità, l'onestà e così via – sono ancora valide, per la loro immediatezza, nella sfera più prossima, quella quotidiana dell'interazione tra gli uomini. Ma questa sfera è eclissata dall'estendersi dell'ambito dell'agire collettivo, in cui l'attore, l'azione e l'effetto non sono più gli stessi; un ambito estremamente potente, capace di imporre all'etica una nuova dimensione della responsabilità, mai immaginata prima.

Prendiamo, per esempio, quale prima, importante mutamento nel quadro tradizionale, la vulnerabilità critica della natura a causa delle iniziative della tecnica umana insospettata prima che cominciasse a manifestarsi in un danno già provocato. Questa scoperta, così sorprendente da condurre al concetto e alla nascita dell'ecologia, modifica addirittura la concezione che abbiamo di noi stessi come elemento causale nel più ampio sistema delle cose. Mediante le sue conseguenze, essa rivela chela natura dell'agire umano e de facto mutata, e che un oggetto di tipo completamente nuovo - nientemeno che l’intera biosfera del pianeta - si è aggiunto a quelli di cui siamo responsabili a causa del nostro potere su di essi. Un oggetto di importanza incomparabile, tale da far apparire insignificanti tutti gli oggetti precedenti dell'agire umano! La natura come responsabilità umana è certamente un novum su cui riflettere nell'ambito dell'etica. Che genere di obbligo agisce in essa? È in gioco più che un interesse utilitaristico? È davvero la prudenza a suggerirci di non uccidere la gallina dalle uova d'oro, o di non segare il ramo su cui siamo seduti? Ma il «noi» che siede qui e che può cadere nel vuoto è l'intera umanità futura, e la sopravvivenza delle specie è più di un dovere, ispirato dalla prudenza, dei suoi membri attuali. Nella misura in cui è il destino dell'uomo, in quanto influenzato dalla condizione della natura, a indurci a preoccuparci della salvaguardia della natura, certamente tale preoccupazione e ancora l'espressione del carattere antropocentrico di ogni etica classica. Anche così, la differenza è grande. La limitazione dell'agire alla prossimità e alla contemporaneità non è più possibile, spazzata via dall'espansione spaziale e temporale delle sequenze di causa ed effetto che la tecnica stabilisce via via, anche quando vengono avviate per fini immediati. La loro irreversibilità, insieme alla loro ampiezza complessiva, determina un altro fattore di novità nell'equazione morale. A questa si aggiunge il loro carattere cumulativo: le loro conseguenze si sommano, e la situazione dell'agire e dell'essere che ne conseguono si differenzia sempre più da quella in cui si trova il primo agente. In questo modo, l'autopropagazione cumulativa del mutamento tecnologico del mondo trascende le condizioni degli atti che ad esso contribuiscono, e passa soltanto attraverso situazioni che non hanno precedenti, rispetto alle quali l'esperienza non insegna nulla. E non ancora paga della sua trasformazione, del fatto di essere diventata irriconoscibile rispetto a ciò che era all'inizio, l'accumulazione in quanto tale può distruggere la base dell'intera sequenza, la condizione stessa della sua esistenza, A tutto questo dovrebbe tendere, in egual misura, la volontà della singola azione, se questa dev'essere moralmente responsabile. Ad essa l'ignoranza non fornisce più un alibi.

In queste circostanze, la conoscenza diventa un dovere impellente più di quanto lo sia mai stata in precedenza, e dev'essere commisurata alle dimensioni causali del nostro agire. Il fatto stesso che questo non sia possibile, e cioè che la conoscenza predittiva sia in ritardo rispetto alla conoscenza tecnica che alimenta la nostra capacita di agire, acquista importanza dal punto di vista etico. Il riconoscimento dell'ignoranza diventa complementare al dovere di conoscere e, di, conseguenza, di­ venta parte dell'etica che deve guidare l'ancor più necessaria autogestione del nostro smisurato potere. Nessuna etica precedente doveva tener conto della condizione globale della vita umana e del lontano futuro, addirittura della sopravvivenza, della specie. Il fatto che ora questi costituiscano dei problemi, esige, in breve, una nuova concezione dei diritti e dei doveri, per cui l'etica e la metafisica tradizionali non forniscono nemmeno i principi, per non parlare una dottrina compiuta.

E se la nuova modalità dell'agire umano implicasse che non si può tener conto soltanto dell'interesse dell'uomo, che il nostro dovere va oltre, e che l'antropocentrismo riduttivo dell'etica precedente non tiene più? Perlomeno, non è più insensato chiedersi se la condizione della natura extra-umana, la biosfera nel suo insieme e nelle sue singole parti, ora ridotta in nostro potere, sia stata affidata all'uomo e abbia una sorta di pretesa morale su di noi, non solo, ancora una volta, nel nostro interesse, ma nel suo stesso interesse e diritto. Se così fosse, occorrerebbe ripensare a fondo i principi fondamentali dell'etica. Questo vorrebbe dire ricercare non solo il bene dell'uomo, ma anche il bene delle cose extra-umane, cioè estendere il riconoscimento dei «fini in sé» al di là della sfera dell'uomo e fare in modo che il bene dell'uomo includa la responsabilità per tali fini. Nessuna etica precedente ci ha preparati a questo ruolo di tutela e la visione dominante, scientifica, della Natura ancora meno. A dire il vero, quest'ultima ci nega drasticamente tutti gli strumenti concettuali per pensare alla natura come a qualcosa da rispettare, avendone fatto un mero oggetto indifferente della necessità e del caso, e avendola spogliata di qualsiasi dignità teleologica. Eppure, una muta preghiera per la salvezza della sua integrità sembra salire dalla totalità minacciata del mondo vivente. Dovremmo prestarle ascolto, riconoscendo come valida la sua pretesa, in quanto sanzionata dalla natura delle cose, oppure dovremmo respingerla come l'espressione di un mero sentimentalismo da parte nostra, a cui possiamo abbandonarci nella misura in cui vogliamo e possiamo permettercelo? La prima eventualità (se le sue implicazioni teoriche fossero prese sul serio) spingerebbe il necessario ripensamento dalla dottrina dell'agire, cioè l'etica, sul terreno di una dottrina dell'essere, cioè la metafisica, in cui l'etica intera deve alla fine trovare i suoi fondamenti. Su questo tema speculativo dirò solo che dovremmo divenire consapevoli che le scienze naturali possono non avere il monopolio di un discorso sulla Natura.

 

Tornando a considerazioni strettamente legate all'uomo, esiste un altro aspetto etico relativo allo sviluppo della techne come ricerca che si estende al di la dei confini pragmaticamente limitati delle epoche precedenti. Abbiamo scoperto che in passato la techne costituiva un misurato tributo alla necessità, non la via che conduceva l'umanità a perseguire l'obiettivo che si era scelta – uno strumento scarsamente adeguato al perseguimento di fini immediati ben precisi. Oggi, la techne, nella forma della moderna tecnologia, si è trasformata in una spinta in avanti inesauribile della specie, nella sua impresa più significativa: il suo progresso illimitato, in direzione di mete sempre più elevate, tende ad essere identificato con la vocazione dell'uomo, e la sua conquista di un controllo totale sulle cose e sull'uomo stesso appare come il compimento del suo destino. Pertanto, il trionfo dell'homo faber sul suo oggetto esterno significa anche il trionfo della struttura interna dell'homo sapiens, di cui egli era solo una parte sussidiaria. In altri termini, la tecnica, indipendentemente dalle sue realizzazioni oggettive, assume rilevanza etica in virtù del posto centrale che ora occupa nel disegno dell'uomo. La sua creazione cumulativa, l'espandersi dell'ambiente artificiale, rafforza continuamente le particolari capacità umane che l'hanno generata, rendendo inevitabile un loro ininterrotto impiego creativo nella sua gestione e nel suo ulteriore progresso, e offrendo loro in cambia altri successi che possono solo aumentarne la pretesa inesorabile. Questo feedback positivo in cui la necessità funzionale e i risultati si rafforzano reciprocamente (un feedback della cui dinamica, non dimentichiamolo, fa parte l'orgoglio per il risultato conseguito) assicura la crescente supremazia di una parte della natura umana su tutte le altre e, inevitabilmente, a scapito di queste. Se nulla attrae come il successo, nulla è insidioso come il successo. Più seducente e dispendioso di qualsiasi altra cosa faccia parte dell'uomo nella sua interezza, l'espandersi del suo potere si accompagna ad una contrazione dell'immagine che egli ha di sé e del suo essere. Nell'immagine che ha di sé – quella potente auto­rappresentazione che determina il suo essere reale non meno di quanto lo rifletta - l'uomo è ora sempre più l'artefice di ciò che ha fatto e che può fare, e soprattutto colui che stabilisce ciò che sarà in grado di fare. Ma non si tratta di me o di voi: si tratta della totalità degli uomini, non del singolo artefice o dell'azione individuale; e l'ambito in cui si pone in modo decisivo la questione della responsabilità è costituito dal futuro indefinito, non dal contesto attuale dell'azione. Ciò richiede un nuovo tipo di imperativo. Se la sfera della fabbricazione ha invaso lo spazio vi tale dell'azione, allora la moralità non può che invadere la sfera della fabbricazione, da cui si era in passato tenuta a distanza, e questa nella forma dell'intervento pubblico. L'azione pubblica non si è mai trovata a doversi occupare di questioni cosi complesse e così lontane nel tempo. In realtà, la diversa natura dell'agire umano cambia la natura stessa della politica.

Infatti, il confine tra «città» e «natura» è stato cancellato: la città degli uomini, un tempo una nicchia nel mondo extra­umano, si estende all'intera natura terrestre e ne usurpa il posto. Tra naturale e artificiale non esiste più differenza: il naturale viene assorbito nella sfera dell'artificiale e al tempo stesso la totalità degli artefatti, le opere dell'uomo che influiscono su di lui e mediante lui, genera una propria «natura», cioè una necessita con cui la liberta umana deve confrontarsi in un senso completamente nuovo. Un tempo si poteva dire: Fiat justitia, pereat mundus, «Sia fatta giustizia, e possa il mondo perire» – laddove «mondo» significa ovviamente l'enclave rinnovabile nel tutto imperituro. Una cosa simile non può essere più affermata neppure in senso retorico quando la distruzione totale dovuta alle azioni dell'uomo – siano esse giuste o inique – è diventata una possibilità reale. Questioni mai regolate dalla legge entrano nel corpus delle leggi che la città totale deve darsi perché ci sia un mondo per le generazioni future.

Il fatto che in futuro dovrebbe esistere un simile mondo, abitabile dall'uomo, e che questa mondo dovrebbe essere abitato in futuro da un'umanità degna di questo nome, può essere facilmente riconosciuto come un assioma generale o come un auspicio convincente dell'immaginazione speculativa (tanto convincente e indimostrabile quanto l'affermazione secondo cui è «meglio» che ci sia almeno un mondo piuttosto che nessuno): ma in quanto affermazione morale, cioè in quanto obbligo di carattere pratico nei confronti dei posteri di un lontano futuro, e in quanto principio di decisione nell'azione attuale, esso è del tutto diverso dagli imperativi dell'etica precedente della contemporaneità; ed è comparso sulla scena morale solo in virtù delle nostre nuove e ampie capacità di prescienza.

La presenza dell'uomo nel mondo era stata un dato basilare e indiscutibile, da cui aveva tratto origine l'idea dell'obbligo nel comportamento dell'uomo. Ora, essa è diventata un oggetto dell'obbligo - e precisamente dell'obbligo di assicurare il presupposto stesso di ogni obbligo, e quindi l'appiglio per un universo morale nel mondo fisico – il fatto che possano esistere dei candidati per un ordine morale. La differenza che questa comporta rispetto all'etica può essere illustrata con un esempio.

L'imperativo categorico di Kant diceva: «Agisci soltanto secondo quella massima mediante la quale tu puoi, nella stesso tempo, volere che essa divenga una legge universale». Il «puoi» qui citato è quello della ragione e della sua coerenza con se stessa: data l'esistenza di una comunità di attori umani (di esseri razionali che agiscono), l'azione dev'essere tale da pater essere immaginata, senza che vi sia contraddizione, come una pratica generale di quella comunità. Si noti che la riflessione fondamentale della morale, qui, non è morale, ma logica: l'«io posso volere», come l'«io non posso volere», esprime compatibilità o incompatibilità logica, non approvazione o disapprovazione morale. Ma non c'è alcuna contraddizione nell'idea che l'umanità un giorno finirà, e quindi neppure nell'idea che la felicità delle generazioni attuali e di quelle immediatamente seguenti sarà acquistata al prezzo dell'infelicità e persino della scomparsa di quelle future cosi come, dopotutto, non c'è contraddizione nell'idea opposta che l'esistenza o la felicità delle generazioni future sarà acquistata al prezzo dell'infelicità o addirittura della parziale estinzione di quelle attuali. II sacrificio del futuro a vantaggio del presente none da un punto di vista logico più con testabile del sacrificio del presente a vantaggio del futuro. La differenza consiste soltanto nel fatto che in un caso la serie continua, e nell'altro no. Mail fatto che essa dovrebbe continuare indipendentemente da come si distribuisce la felicita o l'infelicità, anche con una continua prevalenza dell'infelicità sulla felicità, o addirittura dell'immoralità sulla moralità – non può essere dedotto dalla regola della coerenza interna della serie, lunga o breve che sia: si tratta di una prescrizione di tipo molto diverso, esterna e «precedente» ad essa, e il suo fondamento ultimo può essere soltanto metafisico.

Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e diretto al nuovo tipo di soggetto agente potrebbe suonare così: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana»; oppure, tradotto in negativo: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione non distruggano la possibilità futura di una vita siffatta»; oppure, semplicemente: «Non compromettere le condizioni di una permanenza illimitata dell'umanità sulla terra»; oppure, più in generale: «Nelle tue scelte attuali, includi la futura integrità dell'Uomo tra gli oggetti della tua volontà».

È immediatamente evidente che la violazione di questo tipo di imperativo non comporta alcuna contraddizione razionale. Io posso volere il bene attuale sacrificando il bene futuro. È anche evidente che il nuovo imperativo si rivolge all'azione pubblica, e non alla condotta privata, che è esterna alla dimensione causale in cui quell' imperativo ha valore. L'imperativo categorico di Kant era diretto all'individuo, e il criterio a cui si informava era immediato. Esso imponeva a ciascuno di noi di considerate ciò che sarebbe successo se la massima della nostra azione attuale fosse diventata il principio di una legislazione universale, o se già lo fosse stata; la coerenza o l'incoerenza di una tale ipotetica universalizzazione diventa il banco di prova della nostra scelta privata. Ma questo ragionamento non accennava alle probabilità che la nostra scelta privata divenisse davvero legge universale, o che potesse favorire questa trasformazione. L'universalizzazione è un experimentum mentis dell'attore privato, diretto a verificare la moralità immanente nella sua azione. In realtà, le conseguenze vere e proprie non vengono considerate affatto, e il principio non è quello della responsabilità oggettiva, ma del carattere soggettivo della propria autodeterminazione. II nuovo imperativo chiama in causa una coerenza diversa: non quella dell'atto con se stesso, ma quella dei suoi effetti ultimi con la permanenza dell'agire umano in futuro. E l'«universalizzazione» che contempla non è affatto ipotetica – cioè, uno spostamento puramente logico dall'«io» individuale a un «tutti» immaginario, senza alcun rapporto di causalità («se tutti agissero in questo modo»); al contrario, le azioni soggette al nuovo imperativo – le azioni della collettività – hanno quale riferimento universale l'ambito reale della loro efficacia: esse acquistano il carattere della «totalità» con l'aumentare della loro portata e cosi sono destinate ad incidere profondamente sull'ordine universale delle cose. Questo aggiunge al calcolo morale un aspetto temporale che era del tutto assente dall'operazione logica immediata dell'imperativo kantiano: mentre quest'ultimo procede per estrapolazioni in un ordine sempre presente di compatibilità astratta, il nostro imperativo procede per estrapolazioni in un futuro reale prevedibile: la dimensione teleologicamente aperta della nostra responsabilità.

 

Si potrebbero fare confronti analoghi con tutte le altre forme storiche dell'etica della contemporaneità e dell'immediatezza. La nuova forma dell'agire umano esige un'etica della previsione e della responsabilità adeguata, altrettanto nuova quanto i problemi che deve affrontare. Abbiamo visto che si tratta dei problemi posti dalle opere dell'homo faber nell'epoca della tecnologia. Ma non abbiamo ancora accennato alla categoria potenzialmente più minacciosa e sinistra di queste nuove opere. Abbiamo considerato la techne soltanto nelle sue applicazioni nell'ambito non umano. Ma l'uomo stesso è diventato uno degli oggetti della tecnologia. L'homo faber si volge a se stesso ed è pronto a trasformarsi nell'artefice di tutto il resto. Questo compimento del suo potere, che preannuncia verosimilmente la sopraffazione dell'uomo, questo soggiogamento finale della natura da parte dell'artificio, fa appello alle ultime risorse del pensiero etico, che non si è mai trovato di fronte alla possibilità di scegliere delle alternative a quelli che venivano considerati i limiti definiti della condizione umana.

a) Consideriamo, per esempio, il più fondamentale di questi «dati», la mortalità dell'uomo. Chi mai prima si era trovato nella necessità di decidere quale durata della vita desiderate e scegliere? Non c’è ra alcunché da scegliere circa il limite superiore, «settant'anni, ottanta per i più robusti». La legge inesorabile della mortalità era oggetto di rammarico, di rassegnazione o di vani (per non dire ridicoli) sogni-desideri di possibili eccezioni – ma stranamente, non veniva quasi mai accettata in quanto tale. La fantasia intellettuale di un George Bernard Shaw e di un Jonathan Swift specula sul privilegio di non dover morire, oppure sulla maledizione di non poter morire (Swift, con quest'ultima, fu il più acuto dei due). Mito e leggenda si sono dilettati con questi temi su uno sfondo, generalmente riconosciuto, di immutabilità, che induceva invece l'uomo saggio a implorare: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (Salmo 90). Niente di tutto questo avveniva nella sfera dell'azione e della decisione operativa. Il problema era soltanto come riferirsi al dato indiscutibile.

Ma, ultimamente la scura nube dell'ineluttabilità sembra dissolversi. Certi risultati positivi ottenuti nel campo della biologia cellulare infondono la speranza concreta di prolungare, forse di estendere all'infinito la durata della vita, mediante la neutralizzazione dei processi biochimici dell'invecchiamento. La morte non appare più come una necessità insita nella natura della vita, ma come una disfunzione organica evitabile, sulla quale, almeno in teoria, è possibile intervenire e che può essere ritardata. L'eterno desiderio dell'uomo mortale sembra vicino ad essere soddisfatto. E per la prima volta dobbiamo chiederci seriamente: «Quanto è desiderabile tutto questo? Quanto è desiderabile per l'individuo, e quanto per la specie?» Questi interrogativi implicano questioni come il senso autentico della nostra finitudine, l'atteggiamento nei confronti della morte e l'importanza dell'equilibrio tra morte e procreazione dal punto di vista generale della biologia. Ancor prima di queste questioni fondamentali vengono quelle più pragmatiche sulla scelta delle persone a cui offrire tale vantaggio: persone dotati di qualità e meriti particolari? Persone socialmente eminenti? Chi può comprarselo? Tutti? La linea giusta sembrerebbe quest'ultima. Ma ci sarebbe un contraccolpo negativo all’estremo opposto, alla fonte. Infatti, è chiaro che, su larga scala, il prezzo della longevità dev'essere un rallentamento proporzionale nell'avvicendamento delle generazioni, cioè un afflusso minore di nuova vita. Il risultato sarebbe una percentuale sempre più ristretta di

giovani in una popolazione sempre più anziana. Questo sarebbe un bene o un male per la condizione general dell’uomo? Il genere umano ne trarrebbe un vantaggio o uno svantaggio? Inoltre, sarebbe giusto occupare il posto dei giovani? Morire è vincolato all'esser nati: la mortalità non è altro che l'altra faccia di quella fonte inesauribile che è la «natalità» (per usare un termine di Hannah Arendt). È sempre stato così; ora, occorre riflettere sul suo significato nella sfera della decisione.

Consideriamo il caso estremo (che, peraltro, non si realizzerà mai): se abolissimo la morte dovremmo abolire anche la procreazione, perché quest'ultima è la risposta della vita alla prima; di conseguenza, avremmo un mondo di anziani, senza più giovani, e un mondo di persone conosciute, senza più la sorpresa costituita da coloro che in precedenza non esistevano. Ma forse è proprio questa la saggezza insita nella dura legge della nostra mortalità: il fatto che essa adempie alla promessa eternamente rinnovata della freschezza, immediatezza ed entusiasmo della gioventù, oltre a garantirci la diversità in quanto tale. Non vi è alcun surrogato di ciò nella maggiore accumulazione di un'esperienza prolungata: questa non potrà mai riconquistare lo straordinario privilegio di vedere il mondo per la prima volta e con nuovi occhi; non potrà mai riprovare lo stupore da cui, secondo Platone, trae origine la filosofia, né la curiosità del bambino che abbastanza di rado continua a vivere come sete di conoscenza nell’adulto, fino a quando anche lì non viene meno.

Questo inizio sempre ripetuto, che si ottiene soltanto al prezzo di una fine sempre ripetuta, può essere verosimilmente la speranza dell'umanità, ciò che può impedirle di scivolare nella noia e nella routine, la sua opportunità di conservare la spontaneità della vita. Occorre anche riflettere sul ruolo del memento mori nella vita dell'individuo, e su ciò che la sua attenuazione, fino all'indefinitezza, può comportare per essa.

Di conseguenza, ciò che per sua natura è un dono benefico della scienza all'uomo, il parziale esaudimento del suo desiderio più antico – sfuggire alla maledizione della morte – finisce per danneggiare l'uomo. Non intendo fare il profeta, né, a dispetto della mia evidente inclinazione, esprimere dei giudizi. La mia opinione e che già il dono promesso solleva delle questioni che non sono mai state poste prima in termini di scelta concreta, e che nessuno dei principi dei sistemi morali precedenti, che desse per scontata l'esistenza di elementi costanti nell'uomo, è in grado di affrontarle. Eppure, esse devono essere affrontate in modo etico in base a dei principi, e non semplicemente sotto la spinta dell'interesse.

b) Lo stesso può dirsi per tutte le altre capacità quasi utopistiche che stanno per rendersi disponibili grazie ai progressi della scienza biomedica, nel momento in cui si traducono in tecnologia. Fra queste, il controllo del comportamento e molto più vicino alla realizzazione pratica del quadro ancora ipotetico a cui accennavo sopra, e le questioni etiche che solleva sono molto meno profonde, ma hanno un riferimento più diretto alla concezione morale dell'uomo. Ancora una volta, il nuovo tipo di intervento trascende le vecchie categorie etiche. Esse non ci hanno preparato ad esercitare, per esempio, un controllo sulla mente con mezzi chimici o con la stimolazione elettrica diretta del cervello mediante l'impianto di elettrodi – un controllo giustificato, si suppone, da scopi legittimi e persino lodevoli. La commistione di potenzialità benefiche e pericolose e evidente, ma non è facile porre dei limiti. Sollevare i malati mentali dalla prostrazione e liberarli dai sintomi inibenti sembra inequivocabilmente benefico. Ma dall'alleviare le sofferenze del malato, un obiettivo del tutto in armonia con la tradizione della medicina, al sollevare la società dal disagio di un comportamento individuale problematico da parte dei suoi membri, il passo è breve: si tratta del passaggio dall'applicazione medica a quella sociale; e questa schiude un campo indefinibile, con potenzialità inquietanti. I gravosi problemi della presenza e dell'assenza di norme nella moderna società di massa rendono l'estensione di questi metodi di controllo alle categorie non mediche estremamente allettante per il controllo della società. Sorgono numerosi problemi relativi alla dignità e ai diritti dell'uomo. La difficile scelta tra misure preventive e assistenza ex-post sollecita delle risposte concrete. Dobbiamo stimolare gli scolari all'apprendimento con la somministrazione in massa di droghe, evitando cosi l'appello alla motivazione autonoma? Dobbiamo sconfiggere l’aggressività controllando elettronicamente le regioni cerebrali? Dobbiamo generare sensazioni di felicità o di piacere, o quantomeno di appagamento, mediante la stimolazione (o l'anestetizzazione) indipendente dei centri appropriati – indipendente, cioè, dagli oggetti della felicità, del piacere e dell'appagamento e dal loro conseguimento nella vita e nelle realizzazioni personali? Le possibilità sono molteplici. Le aziende potrebbero essere interessate a qualcuna di queste tecniche per aumentare la produttività dei loro dipendenti.

Indipendentemente dal problema della coercizione o del consenso, ed anche dal problema degli effetti secondari indesiderati, tutte le volte che evitiamo di affrontare problemi umani in modo umano mettendo in atto un meccanismo impersonale, perdiamo un po' della nostra dignità ed individualità e compiamo un passo in avanti verso i sistemi di programmazione del comportamento, allontanandoci dalla condizione di individui responsabili. Il funzionalismo sociale, per quanto importante, è solo un aspetto della questione. Decisivo è il tipo di individui che compongono la società, rendere l'esistenza della società preziosa nell'insieme. In qualche punto, lungo la linea del controllo crescente della società, a cui corrisponde la perdita progressiva dell'autonomia individuale, deve porsi la questione della mancanza di valore dell'impresa umana. Affrontandola, evochiamo l'immagine dell'uomo a cui ci sentiamo vincolati. Dobbiamo ripensarla alla luce di ciò che oggi possiamo fare ad essa e che non avremmo mai potuto fare prima.

c) Questo vale in misura ancora maggiore rispetto all'ultimo oggetto di una tecnologia applicata all'uomo stesso – il controllo genetico degli uomini futuri. L'argomento è troppo vasto perché possa essere affrontato in modo sbrigativo. Qui mi limiterò a segnalare questo ambiziosissimo sogno dell'homo faber, che si riassume nel fatto che l'uomo vorrebbe acquistare il controllo della propria evoluzione non solo allo scopo di preservare l'integrità della specie, ma anche di modificarla, perfezionando il proprio disegno. Se abbiamo il diritto di farlo, se abbiamo i requisiti necessari per assumere questo ruolo creativo, è la questione più seria che possa porsi ad un uomo che si trovi improvvisamente a disporre di tali fatidiche capacità. Chi creerà le nuove immagini? Con quali criteri? Sulla base di quale conoscenza? Inoltre, dev'essere affrontata la questione del diritto morale di compiere esperimenti sui futuri esseri umani. Queste domande, a cui occorre dare una risposta prima di intraprendere un viaggio nell'ignoto, mostrano con estrema chiarezza come la nostra capacità di agire ci stia spingendo oltre i confini di tutti i sistemi morali precedenti.

 

II tratto, significativo dal punto di vista etico, comune a tutti gli esempi citati è ciò che chiamerei la tendenza intrinsecamente «utopistica» delle nostre azioni sotto l'influenza della moderna tecnologia, sia che essa agisca sulla natura umana o non umana, e sia che l'«utopia» situata alla fine del percorso sia stata o meno pianificata. Dati il genere e la portata dei suoi effetti a catena, il potere tecnologico ci spinge in direzione di un tipo di obiettivi che in passato erano peculiari alle Utopie. In altri termini, il potere tecnologico ha trasformato quelli che solitamente erano, e dovrebbero essere, giochi sperimentali, forse illuminanti, della ragione speculativa, facendone dei progetti in concorrenza tra loro, e quando scegliamo tra gli uni e gli altri, scegliamo tra i casi estremi di conseguenze remote. L'unica cosa che possiamo davvero conoscere di tali conseguenze e il loro carattere estremo – il fatto che esse riguardano la condizione complessiva della natura sulla terra e il tipo di creature che la devono popolare. In conseguenza dell'inevitabile dimensione «utopistica» della tecnologia moderna, la distanza salutare tra questioni comuni e questioni ultime, tra l'esercizio di una normale prudenza e quello di una saggezza illuminata, si riduce continuamente. Poiché ora viviamo costantemente all'ombra di un utopismo che non abbiamo scelto, profondamente radicato, automatico, siamo costantemente posti di fronte a questioni su cui potremmo decidere con sicurezza solo possedendo un'enorme saggezza – una situazione impossibile per l'uomo in generale, perché egli non possiede tale saggezza, e in particolare per l'uomo contemporaneo, che nega l'esistenza stessa del suo scopo, cioè, il valore e la verità oggettivi. Abbiamo soprattutto bisogno di saggezza quando crediamo meno in essa.

Se dunque la nuova natura del nostro agire esige una nuova etica della responsabilità – una responsabilità ampia, che arriva fin dove arrivano le nostre capacità - essa esige anche, in nome di quella stessa responsabilità, un nuovo genere di umiltà – un'umiltà che, a differenza di quella precedente, non e dovuta alla limitatezza, ma all'ampiezza eccessiva delle nostre capacità, cioè alla preminenza della nostra capacita di agire su quella di prevedere, valutare e giudicare. Di fronte alle possibilità quasi escatologiche degli attuali processi della tecnica, il fatto stesso di non conoscerne le conseguenze ultime diventa una ragione per stabilire con responsabilità dei limiti – ciò che è secondo solo a possedere la saggezza.

Vale la pena ricordare un altro aspetto della nuova etica della responsabilità per un futuro lontano: l'incapacità del governo rappresentativo di far fronte alle nuove esigenze sulla base del suo funzionamento e dei suoi principi normali. Secondo questi ultimi, solo gli interessi attuali fanno udire la loro voce e sentire il loro peso, esigendo considerazione. È di tali interessi che le istituzioni pubbliche devono tener conto, ed è questo il modo in cui si produce il rispetto concreto dei diritti (e non solo il loro riconoscimento astratto). Ma il futuro non è rappresentato, non è una forza che possa giocare un ruolo determinante. Ciò che non esiste non ha una lobby e coloro che non sono ancora nati non hanno alcun potere. Questa responsabilità verso di loro non si fonda su alcuna realtà politica nell'attuale processo decisionale, e quando essi ci accuseranno, noi, gli imputati, non ci saremo più.

Ciò ripropone in termini radicali l'antica questione del potere del saggio, ovvero della forza delle idee libere dall'interesse personale, nel corpo politico. Quale forza deve rappresentare il futuro nel presente? Comunque, prima che tale questione possa diventare un problema concreto, la nuova etica deve trovare la sua teoria, in base alla quale possa essere deciso ciò che si deve e non si deve fare. Vale a dire: prima della questione della forza, viene il problema della capacità intuitiva e del valore conoscitivo che possa rappresentare il futuro nel presente.

 

Ed ecco dove mi areno, e dove tutti si arenano. Infatti, proprio lo stesso movimento che ci ha dotato delle capacità che ora devono venir regolate da norme – il movimento del sapere moderno chiamato scienza – ha eroso, in modo complementare e ineluttabile, i fondamenti da cui queste norme dovrebbero derivare; anzi, ha distrutto l'idea stessa di norma. Fortunatamente, non il senso normativo, neppure rispetto a norme particolari. Ma questo senso vacilla quando un sedicente sapere lo contraddice, o anche soltanto quando gli sottrae ogni forza normativa. In ogni caso, si trova sempre in difficoltà di fronte al vigore della cupidigia e della paura. Ora deve anche arrossire per la vergogna davanti al cipiglio della superiore conoscenza, in quanto privo di fondamenti e incapace di crearne. In un primo tempo, fu la Natura ad essere «neutralizzata» rispetto al valore, poi anche l'uomo stesso. Ora, noi rabbrividiamo nella nudità di un nichilismo in cui la condizione di quasi-onnipotenza convive con quella di quasi-vacuità, la più grande abilità con un sapere minimo. Per l'importanza decisiva delle nostre azioni, quella conoscenza autentica che abbiamo perduto è diventata più necessaria e urgente di quanto lo sia mai stata in ogni altro momento dell'avventura dell'umanità Ahimè! L'urgenza non assicura il successo! Al contrario, bisogna ammettere che perseguire la saggezza, oggi, richiede una buona dose di stoltezza. La natura stessa dell'epoca che ha tanto bisogno di un'etica fa sospettare una presa in giro. Non possiamo fare altro che procedere per tentativi.

Si tratta di sapere se, evitando di reintrodurre la categoria del sacro, la categoria più danneggiata dall'illuminismo scientifico, possiamo avere un'etica capace di esercitare un controllo sulle enormi capacità che oggi possediamo, che aumentano costantemente e di cui siamo quasi costretti a far uso. Se si considerano queste conseguenze abbastanza imminenti da arrivare a colpirci, può esercitare un controllo la paura – che è spesso il miglior surrogato di un'autentica virtù o saggezza. Ma questo espediente ci impedisce di abbracciare prospettive più ampie, che qui sono ciò che più conta, specialmente perché gli inizi sembrano perlopiù innocui nella loro limitatezza. Soltanto il timore della trasgressione del sacro è indipendente dai calcoli della paura terrena e dal conforto dell'incertezza di conseguenze remote. Ma la religione come forza che forgia lo spirito non c'è più, e non può più essere chiamata in aiuto dell'etica. Quest'ultima deve reggersi sulle sue basi mondane cioè, sulla ragione e sulla propria forza filosofica. E mentre della fede si può dire che c'è o non c'è, si ritiene che l'etica debba esserci.

Dev'esserci perché gli uomini agiscono, e l'etica serve a mettere ordine nelle azioni e a regolare il potere di agire. Quindi, è tanto più necessaria quanto più grandi sono le capacità di agire che devono essere regolate; infine, il principio ordinatore deve essere adatto oltre che alla loro ampiezza, al loro genere. Pertanto, le nuove capacità di agire esigono nuove regole etiche e forse anche una nuova etica.

Il comandamento «Non uccidere» è stato formulato perché l'uomo ha la capacità di uccidere e spesso l'occasione per farlo, se non addirittura una propensione all'assassinio – in breve, perché l'assassinio viene effettivamente commesso. Soltanto sotto la pressione di vere e proprie abitudini rispetto all'agire, e in generale del fatto che l’azione ha luogo sempre senza che debba esserci prima un ordine, entra in scena l'etica come regola di tale agire, fondata sull'idea del bene o di ciò che e consentito. Tale pressione deriva dalle nuove capacità tecnologiche dell'uomo, che possono essere esercitate dal momento stesso in cui vengono acquisite. Se davvero esse sono così nuove come si sostiene qui, e se a causa delle loro possibili conseguenze esse davvero hanno abolito la neutralità morale di cui hanno finora goduto le relazioni della tecnica con la materia, allora la loro pressione impone di ricercare nuove prescrizioni etiche capaci si di assumere la loro guida, ma innanzitutto di opporre la propria validità teorica a quella stessa pressione. Questa saggio si proponeva di dimostrare questi presupposti. Se vengono accettati, noi che facciamo del pensare la nostra attività principale abbiamo un compito che ci terrà occupati tutta la vita. Dobbiamo riuscire a portarlo a termine, perché qualunque sia il nostro modo di agire seguiremo un'etica piuttosto che un'altra, e senza uno sforzo supremo per determinare quella giusta rischiamo di seguirne una sbagliata per ignavia.


[1] Sofocle, Antigone, Milano, Feltrinelli , 1987, 335-375

[2] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bari , Laterza, 1970, p. 9.

[3] Ibidem, pp. 25-26.

[4] Ibidem, p. 24.

H. JONAS, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici. Il Mulino, 1991, pp. 42-63