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In principio Dio creò il cielo e la terra

Jacques Arnould
2002
All’interno di un esame filologico sul significato biblico del “cielo”, Jacques Arnould espone in modo divulgativo ma efficace il significato del’espressione biblica “Creatore del cielo e della terra”, ponendo in risalto somiglianze e differenze fra la narrazione del Genesi e quelle presenti in altre tradizioni religiose. Cielo e volta celeste assumono significati diversi a seconda dei diversi contenuti associati dall’Autore sacro a tali espressioni, manifestando tuttavia una straordinaria originalità rispetto al modo con cui ne parlano altre narrazioni religiose.

Dio crea il firmamento. Capolettera “O”, miniatura di Sano di Pietro, sec. XV, Parigi, Museo Marmottan-Monet.

 


«Una tovaglia stesa sotto un melo non può raccogliere che mele», scriveva Antoine de Saint-Exupéry in Terra degli Uomini, «una tovaglia stesa sotto le stelle non può ricevere che polvere di stelle… La cosa più stupefacente è che ci fosse là, in piedi sul dorso arrotondato del pianeta, tra questo panno calamitato e queste stelle, una coscienza d’uomo nella quale questa pioggia poté riflettersi come in uno specchio». E, qualche pagina dopo: «Io non ero null’altro che un mortale smarrito tra sabbia e stelle, consapevole soltanto della dolcezza di respirare». Secoli separano l’autore di queste righe e coloro che hanno composto i primi celebri versetti della Bibbia: «In principio Dio creò il cielo e la terra…».

Secoli separano Antoine de Saint-Exupéry dai redattori della Genesi, ma anche un abisso intellettuale e culturale: che cosa può esserci in comune tra il pilota della prima linea aerea Tolosa-Dakar e i discendenti diretti dei nomadi semiti? Certo, non molto, se non questa notte  trapuntata di stelle come solo i deserti possono offrire alla contemplazione, con una domanda: che cosa è l’uomo, di fronte a questo cosmo, magnifico e nello stesso tempo terribile?

A questa domanda che assilla l’umanità dal suo principio, i credenti cercano di rispondere affermando nello stesso tempo la loro fede in Dio, Creatore del cosmo, la cui bellezza non cessa di affascinare il beduino come l’aviatore. Allora, la domanda dell’uomo prende una strada pressoché tragica, alla pari della meditazione di Saint-Exupéry: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» si stupisce, si inquieta l’autore del salmo 8. «Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi». Mortale senza alcun dubbio, l’uomo nondimeno afferma di avere una posizione particolare, in seno alla creazione divina, perché è stato creato, come precisa il primo capitolo del libro della Genesi, ad immagine del suo Creatore. Un’affermazione che ha probabilmente contribuito a conferire alla natura uno statuto di secondo piano, di decorazione e, denunciano gli autori contemporanei vicini alle correnti ecologiste, a mantenere, ovvero a far nascere, in seno alle tradizioni cristiane e occidentali, atteggiamenti di dominio e di spreco nei confronti dell’ambiente terrestre.

 

E il cielo che posto merita di occupare?

L’immensità della volta celeste, la sua bellezza, la sua luminosità, la regolarità del corso degli astri, la violenza dei fenomeni che provengono dal cielo o che vi si svolgono: come l’umanità avrebbe potuto sfuggire al fascino esercitato dal cielo e all’idea di collocarvi la sfera divina, cioè di divinizzarlo, come le religioni cosiddette naturalistiche? Così, per la tradizione egizia di Eliopoli, Šu, il principio maschile divino, e Tefnut, il principio femminile divino, hanno dato vita alla dea Nut, la volta celeste, per collocarla al di sopra dello zoccolo terrestre, rappresentato dal dio Geb suo sposo. Le tradizioni mesopotamiche sembrano anch’esse rispettare la «personalità divina»: il dio del cielo, colui che abita la volta celeste senza esservi tuttavia identificato, è il dio supremo, il dio degli dèi. Così, nell’epopea accadica narrata dall’Enuma Eliš (il titolo ripete l’incipit del racconto: «Quando in alto…»), il dio Marduk. vincitore di Tiamat (le acque salate primordiali) si serve di una metà del corpo del dio vinto per formare la volta celeste, collocarvi le stelle, affidare alla luna il compito di regolare i mesi e al sole quello di regolare lo svolgimento dell’anno.

Seguendo il sistema cosmico mesopotamico, in realtà, l’universo e diviso in un cielo (l’Alto) e in un inferno (il Basso); gli dei risiedono nell’Alto, ma anche nel Basso; in mezzo, si trovano il mare e la terra, proprietà degli dei, di cui l’umanità è incaricata di amministrare le risorse.

Gli autori della Bibbia come i loro lettori, si evolvono in un contesto culturale e mitologico analogo; neppure loro sono rimasti insensibili al fascino dei cieli, soprattutto quelli d’Oriente. Tuttavia, essi sono stati ben attenti a non assimilare o, peggio ancora confondere celeste e divino; la loro cura di ridurre il sole e la luna a semplici luminarie, create solo nel quarto giorno nel primo racconto della creazione del libro della Genesi, ne costituisce probabilmente una delle dimostrazioni più conosciute. Significa che il cielo occupa soltanto un posto secondario e decorativo nei racconti biblici di creazione?

Noi sappiamo qual è la posta di questi racconti: proporre una cosmogonia, in altri termini rispondere alle domande circa l’inizio e la fondazione del mondo. Come Dio si pone all’origine del mondo? Come vi si radica l’umanità? Come vi inserisce la sua natura, la sua libertà, la sua responsabilità? A proposito di questi testi, gli esegeti tedeschi parlano volentieri di Urgeschichte, cioè di storia «originaria» o di storia delle origini. La parola chiave è proprio questa: «origini», che gli autori di questi racconti cercano di presentare con la massima precisione ai credenti, in particolare in presenza di altre tradizioni cosmogoniche. Non c’è il rischio di confondere l’opera di creazione con un processo di emanazione in cui un essere (divino) trarrebbe dalla sua propria sostanza, come realtà separata, una sostanza simile o analoga, oppure produrrebbe in se stesso un nuovo modo di essere, allo stesso tempo distinto da lui (egli potrebbe sussistere senza di lui) e indistinto (esso non potrebbe essere supportato che da lui). La creazione non attiene neppure alla processione, in altri termini ad una visione di sostanza nel corso della quale una natura immutabile sarebbe comunicata nella sua interezza a vari esseri; e neppure è una trasformazione nel corso della quale un agente esterno interverrebbe per cambiare lo stato di un essere. Quando il Dio della Bibbia crea, mettendo in opera la sua onnipotenza, egli porta all’esistenza e al di fuori di lui una realtà che in precedenza non esisteva in alcun modo; la tradizione cristiana parlerà di creazione ex nihilo (a partire dal nulla). Parecchie immagini sono state utilizzate per evocare, presentare, spiegare l’opera della creazione, quella del vasaio è probabilmente una delle più conosciute. La settimana, il racconto in sette giorni del primo capitolo della Genesi, si rifà ad un’altra immagine, quella della separazione: Dio crea separando. E il cielo occupa una parte centrale in questo modo di parlare della creazione.

Senza dubbio, l’espressione «il cielo e la terra» è usata in primo luogo per designare la totalità della realtà creata. Simultaneamente, essa introduce il principio di separazione che domina la tradizione teologica soggiacente ai racconti della creazione: nel primo giorno, «Dio separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte»; poi, nel secondo giorno, «Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento». Ed è ancora questione di separazione, nel primo racconto della Genesi (1,4-7), a proposito della creazione degli esseri viventi, erbe dei campi ed alberi da frutto, bestie selvatiche e uccelli del cielo, ciascuno creato, separato e differenziato dagli altri, potremmo dire, «secondo la sua specie».

 

Dio «viaggiatore delle nubi»

Sottolineiamolo bene: Dio non crea separandosi dalla sua creazione, come in un processo di emanazione; egli crea separando quello che il secondo versetto del primo capitolo della Genesi qualifica come tohu-bohu, materia informe, deserta (per usare le espressioni della Bibbia in italiano). La lezione è chiara: la separazione di cui Dio è l’artefice non è di quelle che danno vita a santuari, a zone sacre, a riserve del divino in seno alla realtà. Al contrario, poiché è innanzitutto funzionale, l’opera creatrice toglie al creato e, in particolare, alla volta celeste, agli astri che essa contiene, ogni pretesa di sacralità: tutti sono tratti dal medesimo caos primordiale. Il cielo non appartiene alla sfera divina più della terra, non essendo questa che un’immagine speculare del firmamento. Se la volta celeste è posta in mezzo alle acque per separare «le acque dalle acque», anche il suolo si oppone alla massa e alla potenza delle acque; l’estensione e la solidità sono appannaggio tanto del firmamento quanto della terraferma. Per questo motivo la sua fondazione da parte di Dio è descritta, ad esempio nel libro di Giobbe, come quella che avviene «mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio» (Gb 38,7). Così la liturgia cosmica non è un fatto solo del cielo; anche la terra vi ha diritto, quando viene a spezzare la superbia dei flutti, in altri termini i resti del caos primordiale.

Questo caos minaccia sempre di riprendere il sopravvento. di sommergere i limiti posti da Dio nei suoi confronti. Così, al tempo del diluvio, quando «eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono» (Gn 7,11): le acque invasero la superficie del suolo, quelle di sopra si mescolarono a quelle di sotto; il mondo ripiombò nella sua condizione primitiva. E Dio dovette di nuovo fare opera di creazione, separare il cielo dalla terra, il liquido dal solido, ed anche aggiungere una guardia supplementare, quella di un arco nelle nubi per impedire alle acque del diluvio di devastare un’altra volta la terra… Almeno sino ai tempi descritti dall’Apocalisse in cui, una volta ancora, cielo, terra e mare si troveranno confusi. Così creazione, separazione e desacralizzazione sono strettamente legate nei racconti della creazione. Tuttavia gli autori biblici non hanno completamente abbandonato il ricorso al cielo per evocare la sfera divina, il dominio del Creatore. Accanto all’arcobaleno, garante dell’alleanza tra Dio e la sua creazione, gli astri del cielo ricevono la custodia del tempo (in particolare quello del šabbat) e l’incarico di lodare il loro Creatore; ma non per questo ricevono un carattere divino: essi semplicemente assicurano una funzione, un servizio divino. In modo analogo i racconti della creazione parlano molto poco, o per nulla di ciò che Dio è, ma invece di ciò che egli fa. Egli crea, separa. nomina, chiama; è ancora più evidente nel secondo racconto di creazione della Genesi in cui Dio fa piovere, pianta, impasta, plasma, soffia. Niente a che vedere tra la quieta fissità della volta celeste e l’attività pressoché febbrile del Creatore! Il che fa dire ad un teologo che il Dio dei racconti della creazione appare in primo luogo sotto i tratti di un «viaggiatore delle nuvole» all’interno delle quali si sposta, agisce, invia ordini. Il suo soffio già aleggiava sulle acque dell’abisso primordiale; e quando egli scende dai cieli per salvare il suo eletto in difficoltà, come nel salmo 18, egli cavalca un cherubino e piana sulle ali del vento. Per quanto strano questo possa sembrarci, in questi racconti di creazione, il cielo non è una residenza per Dio, dove si troverebbe il suo trono e al quale le creature terrestri aspirerebbero come ad una patria perduta o a un paradiso promesso. In senso proprio, non c’è un aldilà celeste. Il cielo esiste in primo luogo per i compiti di cui è incaricato (quello di trattenere le acque superiori e di dispensarle con saggezza per rendere fertile la terra, quello di garantire il buon svolgimento del tempo, quello di lodare la bellezza e l’onnipotenza di Dio); i suoi limiti sono quelli delle attività che vi dispiega il suo Creatore. Altre pagine della Bibbia, oltre a quelle richiamate qui, la tradizione cristiana stessa, hanno certamente fatto ricorso all’immagine del cielo per designare la residenza di Dio e dei suoi eletti; i racconti della creazione mostrano invece un’estrema reticenza nel farne uso. Sia per salvaguardare la radicale trascendenza di Dio di fronte ad ogni cosa creata, ma anche, paradossalmente, per poter lasciare Dio libero di farsi vicino della terra e degli uomini.

Ancor prima che si parli di incarnazione, questi racconti non presentano Dio come colui che passeggia nel giardino dei nostri progenitori, col favore della brezza della sera, o ancora come colui che chiude lui stesso la porta dell’arca di Noè, prima di scatenare il diluvio? Spogliando il cielo dei suoi attributi sacri o divini, gli autori del la Bibbia non hanno allontanato Dio dalla sua creazione; al contrario essi hanno aperto la via all’incredibile: un giorno, Dio squarcerà i cieli per abitare la terra e riconciliare così in suo Figlio tutte le creature, tanto sulla terra quanto nei cieli.

 

da “Il cielo nella Bibbia”, ne Il mondo della bibbia, 61 (2002), n. 1, pp. 5-8, tr. dal francese di R. Bertazzoli.