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Riflessioni su un disastro educativo e culturale

Giorgio Israel
2008

Premessa al volume Chi sono i nemici della scienza?

Nella Premessa a un testo stimolante, indirizzato a coloro che sono coinvolti nell’insegnamento e hanno a cuore la formazione delle nuove generazioni, l’Autore difende l'idea di una cultura non riduttiva, dove aspetti umanistici e scientifici possano dialogare e integrarsi con efficacia, superando luoghi comuni e steccati pregiudiziali. Interrogandosi sul motivo della crisi di interesse per la vera scienza nel nostro Paese, e citando opinionisti a tutti noti, Giorgio Israel biasima le analisi in cui «la sopravvivenza della religione viene additata come un grave freno allo sviluppo di una metodologia di pensiero rigorosa, come se gli Stati Uniti non fosse un paese molto più religioso del nostro. […] È necessario ricordare che la fede religiosa non ha mai impedito di esercitare in modo men che brillante la ragione scientifica? È superfluo stendere liste di grandi scienziati credenti…?». E l’Autore conclude: «Queste diagnosi sgangherate non sono utili soltanto a innalzare e ispessire l’antica barriera fra le due culture. Esse hanno come effetto principale la produzione di sentimenti di ostilità sempre più forti nei confronti delle scienze».

Il futuro sarà come sono le scuole oggi. 
Albert Szent-Györgyi
Premio Nobel per la medicina

 

[Coloro] che prendono come rivelazione divina ciò che «dicono i dottori» e «dicono gli scienziati» nella stampa d'oggi e dimenticano ciò che questi sacerdoti e astrologhi moderni hanno detto ieri [...] prestano al fanatismo della scienza una incredulità superiore a quella del contadino medievale verso il suo parroco.
Clifford A. Truesdell
Fisico matematico e storico della scienza

 

Disgraziatamente, gli studi «umanistici» in generale non sono percepiti oggi come aventi un ruolo centrale nell'educazione dell'uomo. Si tratta di una conseguenza della democratizzazione dell'insegnamento, ovvero di una tendenza che al contempo approvo e deploro.
Thomas Kuhn 
Filosofo della scienza 

 

 

Qualcuno sostiene addirittura che la scienza sia morta o in via d'estinzione (1). Si tratta di tesi radicali e di cui bisognerebbe diffidare, soprattutto ricordando il destino che hanno avuto tesi come quella che prediceva la fine della storia (2). Noi non possiamo tuttavia trascurare le ragioni che le ispirano: uno sguardo anche sommario permette di constatare quanto siano cambiate le caratteristiche dell'impresa scientifica nel corso dell'ultimo mezzo secolo. In precedenza, nonostante i tanti mutamenti avvenuti a partire dal '600, era possibile parlare della «scienza» come di un'entità unitaria e ben definita. Quel che ha modificato radicalmente il panorama è stato il cambiamento profondo dei rapporti tra la scienza pura e le applicazioni, tra la scienza propriamente detta e la tecnologia e il dilatarsi di una sfera di attività dominata dalla manipolazione tecnologica e in cui la scienza teorica ha un posto sempre meno centrale se non subordinato (3). Questa sfera di attività viene ormai abitualmente definita con il termine tecnoscienza (4). Nell'ambito di questa sfera, la scienza intesa nel senso tradizionale del termine - volta principalmente allo studio della natura e alla determinazione delle «leggi» che la governano - ha un ruolo sempre meno importante, se non come uno scenario di fondo che si allontana sempre di più nella dimensione del passato, poiché sono sempre meno numerose le nuove scoperte teoriche e sempre più astratti e labili i tentativi di ottenere nuove leggi generali. Ma non è di questi temi e delle forme attuali della tecnoscienza che intendiamo occuparci qui (5), sebbene sia quasi impossibile non tener conto dello stato attuale della scienza e delle immagini che essa proietta di se nel valutare le cause della crisi della cultura scientifica e insegnamento scientifico e quelle dell'approfondimento del fossato che divide la cultura scientifica dalla cultura «umanistica». Infatti è di queste ultime questioni che intendiamo occuparci. Assumeremo un approccio fenomenologico, limitandoci a un primo livello di individuazione delle cause di questa crisi e dei suoi possibili rimedi. Ragioneremo come se la scienza non fosse talmente diversa da come è stata in passato o, per meglio dire, come se il suo nucleo, sebbene offuscato, conservi sempre un ruolo significativo nel processo della ricerca e delle sue applicazioni. Del resto, questo è quel che sostiene la grande maggioranza degli scienziati. Forse essi hanno torto. Ma, in tal caso, la questione sarebbe praticamente chiusa, perché la scienza come l'abbiamo conosciuta — e cioè come una delle più grandi imprese conoscitive di tutti i tempi — non esisterebbe più, o starebbe progressivamente sparendo, e avremmo di fronte soltanto un complesso di tecniche manipolative prive, o quasi, di valore conoscitivo e pertanto di qualsiasi funzione formativa e di qualsiasi dimensione culturale. In altri termini, non si potrebbe lamentare che la scienza non sia attraente sul piano culturale e sia poco amata. All'assunzione che la scienza come impresa conoscitiva esista ancora aggiungeremo un'ulteriore restrizione. Il fenomeno della crisi della cultura scientifica e della sua separazione crescente dalla cultura umanistica, se esaminato a livello internazionale, detta un compito sterminato, e cioè la considerazione e comparazione di un gran numero di situazioni. Difatti, nonostante il carattere cosmopolita dell'impresa scientifica, le specificità nazionali si fanno comunque sentire, soprattutto sul terreno culturale. Di conseguenza, ci restringeremo al caso italiano.

Queste brevi considerazioni iniziali non sono inutili. Esse servono a chiarire quali problemi ponga il tema che vogliamo affrontare. Qualsiasi cosa si pensi della natura attuale della scienza e del suo futuro, è impossibile non convenire che nessuna società del passato è stata tanto intrisa di scienza e di tecnologia quanto lo è la nostra. Al punto che, nelle recenti discussioni sull'ignoranza matematica che dilagherebbe in tutto l'Occidente e in particolare in Italia, qualcuno ha perso la pazienza sbottando che di matematica in giro ve n'è fin troppa (6). Eppure, le lamentazioni circa la crisi della cultura scientifica e l'analfabetismo scientifico — in particolare, matematico — sono sempre più acute e in Italia diventano vere e proprie grida di allarme. Esse non sono prive di fondamento. Pur limitandosi ai dati meramente quantitativi e senza troppo concedere a inchieste e statistiche che vengono prese troppo spesso e superficialmente per oro colato (7), basta pensare al modestissimo livello di iscritti alle facoltà scientifiche, oltretutto in decremento negli ultimi anni, malgrado una lievissima e insignificante recente ripresa. Si tratta di un fenomeno caratteristico di tutti i paesi occidentali e non soltanto di un fenomeno italiano, come pretendono i soliti autoflagellanti, anche se in Italia ha assunto caratteristiche più marcate (8).

Questo clamoroso paradosso - una società sempre più irreversibilmente fondata sulla scienza e sulla tecnologia, in cui di scienza e di tecnologia si parla moltissimo (9) ma in cui la scienza suscita scarso interesse e in cui si diffonde l'analfabetismo scientifico - suscita uno stato di ansietà, un diluvio di deprecazioni, di diagnosi spesso abborracciate e di indicazioni terapeutiche affrettate. La deprecazione dominante è centrata attorno alla tesi che in Italia la scienza sia stata sempre «negata», vilipesa e bistrattata da una prepotente, insulsa e vacua cultura umanistica e filosofica dominante. Ci si è chiesti addirittura come un giovane possa apprendere a pensare razionalmente se la sua mente viene corrotta dalle letture delle imprese di Harry Potter o de II Signore degli Anellidi Tolkien, come se questi libri non fossero ampiamente letti in paesi scientificamente più evoluti del nostro. La sopravvivenza della religione viene additata come un grave freno allo sviluppo di una metodologia di pensiero rigorosa (10), come se gli Stati Uniti non fossero un paese molto più religioso del nostro. Queste diagnosi sgangherate non sono utili soltanto a innalzare e ispessire l'antica barriera tra le due culture. Esse hanno come effetto principale la produzione di sentimenti di ostilità sempre più forti nei confronti delle scienze: quale persona ragionevole potrà mai sentirsi incoraggiata a studiare una materia scientifica (o semplicemente a interessarsi di scienza) se gli si indica come prezzo da pagare la proscrizione della letteratura di fantasia; come se la mamma dovesse raccontare al suo bambino, la sera prima di addormentarsi, non una favola ma un teorema di geometria differenziale. Alcune semplici riflessioni dovrebbero indurre a cercare spiegazioni meno rozze e infondate, a elaborare un'analisi più articolata e ad assumere atteggiamenti meno irrazionali.

È necessario ricordare che la fede religiosa non ha mai impedito di esercitare in modo men che brillante la ragione scientifica? È superflue stendere liste di grandi scienziati credenti, ma basti, tra i casi più recenti, ricordare una mente matematica di primissimo livello come Ennio De Giorgi, per rendersi conto della futilità di simili «spiegazioni». E quando mai la lettura delle fiabe ha intralciato la formazione di una mentalità scientifica? Non era forse un matematico Lewis Carroll (pseudonimo di Charles L. Dodgson), autore di una delle fiabe più fantastiche mai scritte, Alice nel paese delle meraviglie (11)?D'altra parte, tutti sanno che l'impostazione umanistico-letteraria della scuola italiana, fino a che non è iniziato il suo sistematico smantellamento, non ha impedito che l'Italia producesse scienziati di prim'ordine e detenesse una posizione di primo piano in matematica, in fisica o in biologia. Al contrario, era un luogo comune che i migliori studenti delle facoltà scientifiche provenissero dal liceo classico gentiliano piuttosto che dal liceo scientifico. E anche ora che la scuola italiana è allo sbando e le facoltà scientifiche attirano pochi studenti non mancano coloro che si orientano verso studi tecnico-scientifici: difatti, le uniche facoltà che non lamentano una crisi di iscrizioni sono quelle di ingegneria e, nell'ambito delle facoltà scientifiche tradizionali, corsi di laurea come quelli di biologia molecolare, genetica e bioingegneria. Proprio questo piccolo sintomo dovrebbe suggerire di compiere un'analisi meno superficiale. Dovremmo chiederci se il deperimento delle facoltà in cui s'insegna la scienza «di base», mentre fioriscono quelle orientate verso le applicazioni e la tecnologia, non sia conseguenza di due fattori: la tendenza oggettiva verso un approccio tecnoscientifico, di cui si diceva all'inizio, e la propensione a esaltare la scienza soprattutto per le sue applicazioni. Tutti dovrebbero sapere che la scienza di base o «fondamentale» è importante e che la ricerca non deperisce proprio e soltanto in quei paesi in cui si cerca di difendere a ogni costo lo spazio della ricerca di base, malgrado la generale e inarrestabile tendenza verso il primato della tecnologia. Eppure, la scienza di base è sempre più una Cenerentola e dilaga la parola d'ordine doppiamente falsa seconde cui la scienza che non si applica direttamente a qualcosa non serve a niente e non interessa nessuno. Ci si ripete come un ritornello che la via giusta per diffondere la cultura scientifica consiste nel propagare un'immagine accattivante, divertente e utile della scienza, vicina alla vita di tutti i giorni, piena di riferimenti pratici e immagini giocose, anziché l'immagine severa della scienza «pura». Come quei cattivi medici che, in presenza di una febbre ribelle al farmaco che hanno propinato, invece di riesaminare la diagnosi, raddoppiano, triplicano o quadruplicano la dose del medesimo farmaco, ci si illude che la soluzione consista in un diluvio di discorsi sulla scienza che insistano sui suoi aspetti pratici e ludici.

Occorrerebbe invece chiedersi se le difficoltà non dipendano da una diagnosi sbagliata e da cattive medicine. Dovremmo riflettere a fondo su quale tipo di cultura scientifica stiamo diffondendo e sull'immagine della scienza che stiamo trasmettendo; chiederci se tale immagine sia corretta e interessante; avere maggior fiducia nell'intelligenza degli altri e sospettare che talora le idee interessanti sono più attraenti e gratificanti di quelle utili e che la demagogia del divertimento, del gioco e della festa è stucchevole e lascia con un sentimento di vuoto. A nostro avviso, stiamo diffondendo un'immagine della scienza che incoraggia a interessarsi alle applicazioni e alla tecnologia, mentre scoraggia coloro che sono interessati alla scienza come impresa conoscitiva. Chi nutre già propensioni per le applicazioni viene ulteriormente spinto a coltivarle, mentre gli altri, di fronte a un'immagine della scienza costretta entro gli schemi tecnoscientifici più angusti, preferiscono dirigersi verso altri lidi in cui sopravvive l'idea di cultura e non si vive soltanto di tecnologia. Stiamo sistematicamente distruggendo ogni visione umanistica della scienza e quindi non abbiamo ragione di lamentarci se l'interesse per la scienza deperisce a vista d'occhio.

Ma — si dirà — è falso che nei giornali, nelle riviste e nei libri di divulgazione non si parli di questioni concettuali o «filosofiche» legate alla scienza. Ciò è innegabile, purché si precisi di quali questioni si parla e in che modo. L'aspetto più bizzarro e contraddittorio delle concezioni positivistiche e neopositivisti che della scienza è stato, ed è, di combattere la filosofia come una forma di riflessione che si limita a porre problemi, spesso intrinsecamente insolubili, senza rispondere mai a nessuna domanda, e poi di recuperare la tendenza più dura (e discutibile) della filosofia occidentale, e cioè la pretesa di costruire non tanto una metafisica (il che è perfettamente legittimo) quanto un'ontologia, ovvero una «scienza dell'essere». La «cultura» e la divulgazione scientifica che ci vengono propinate quotidianamente, più che spiegare scoperte «positive» della scienza, appaiono tutte protese a propugnare un'ontologia materialista. Sembra che parlare delle nuove acquisizioni della scienza sia soltanto un pretesto per «dimostrare» che tutto è materiale, che tutto si riduce a neuroni, geni o particelle elementari. Se a questo si aggiunge che gran parte della divulgazione scientifica è di una qualità a dir poco deplorevole - come conseguenza dell'ossessione per le applicazioni pratiche e tecnologiche, che conduce alla presentazione dei risultati scientifici teorici in forme che raggiungono livelli sconcertanti di ignoranza e di trivialità - si ottiene una miscela esplosiva: un florilegio di cattiva filosofia gabellata come scienza e vestita di panni tecnologici.

Ma alla miscela si aggiunge una terza componente che la rende ancor più esplosiva: si tratta del disastro dell'istruzione scientifica nelle scuole di ogni ordine e grado e nell'università. Tutti riconoscono — magari a bassa voce per non urtare la suscettibilità delle confraternite politiche di appartenenza — che la riforma che ha introdotto nelle università le lauree triennali e il sistema dei crediti ha prodotto un frazionamento in corsi e corsucci, sempre più brevi e sempre più focalizzati su terni ultra-specifici o ridotti a fornire un'insignificante spolverata di nozioni generali. Nei corsi di laurea di matematica ormai la maggior parte dei teoremi viene propinata senza dimostrazioni: non c'è tempo e non si deve troppo pretendere dagli studenti. Una simile scelta poteva avere qualche giustificazione se praticata con moderazione, ma essa ha raggiunto ormai livelli tali da creare una situazione grottesca: un matematico digiuno di dimostrazioni è l'equivalente di un meccanico che non abbia mai smontato e rimontato un motore. La finta autonomia delle università ha posto al centro la preoccupazione di farsi pubblicità, magari con attività pseudoculturali, come la proiezioni di un film estivi o i « wine bar scientifici »: ormai nelle università si fa meno cultura che in qualsiasi altro luogo del paese. La crisi delle scuole secondarie è in parte di natura diversa e si riconduce a due fattori: l'immissione massiccia di personale insegnante scarsamente preparato – il grande problema dell'insegnamento della matematica nelle scuole secondarie è che esso viene svolto da insegnanti privi di preparazione disciplinare specifica – e lo smantellamento sistematico di programmi che, sebbene antiquati, avevano una loro coerenza e una provata utilità, a profitto di approcci sperimentali  dilettanteschi e persino deliranti. La causa principale è da ricollegarsi al prevalere di gruppi di pedagogisti che, per ragioni politiche e ideologiche, sono riusciti ad imporsi come una casta di superspecialisti, titolari di una “metadisciplina” consacrata alla determinazione dei contenuti di tutte le altre discipline.

La questione scolastica è fondamentale e, se è corretta la frase di Szent-Györgyi posta a epigrafe — «il futuro sarà come sono le scuole oggi» — la situazione italiana appare tale da far tremare le vene e i polsi anche se problemi analoghi affliggono diversi altri paesi occidentali, soprattutto europei.

[...]

Purtroppo il panorama di fronte a cui ci troviamo dimostra che l'immagine viene trasmessa della scienza deformata come un pezzo di elastico che viene tirato da una parte e dall'altra secondo le convenienze. É una scienza ad uso e consumo: di visioni ideologiche e talora politiche, di uno scientismo dozzinale, della cultura intesa come spettacolo, della macchina di “eventi” mediatico scientifici e delle élite che li gestiscono, del mantenimento delle posizioni di potere che di certe compagnie di giro culturali, delle congreghe del pedagogismo didattichese professionale. Il risultato  è qualsiasi cosa, meno che cultura scientifica,o semplicemente cultura.


(1) J. Horgan, La fine della scienza, Adelphi, Milano 1998.

(2) F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.

(3) Uno studio recente su questi temi è P. Forman, The Primacy of Science in Modernity, of Technology in Postmodernity, and of ideology in the History of Technology, «History and Technology», vol. 23, n. 1 e 2, 2007, pp. 1-152.

(4) Nella diffusione di questo concetto e di questa parola ha avuto un ruolo particolare il fisico francese Jean-Marc Lévy-Leblond. Da anni egli insiste sull'importanza di arrestare il processo di riduzione della scienza alla sua dimensione pratica che ha condotto al formarsi di una «tecnoscienza» in cui scienza e tecnica si confondono e perdono la loro autonomia. Per l'introduzione della tematica della tecnoscienza nel dibattito italiano cfr. G. Israel, II giardino dei noci. Incubi postmoderni e tirannia della tecnoscienza, Cuen, Napoli 1998.

(5) Su questi terni e alcune loro implicazioni cfr. G. Israel, II giardino dei noci cit.; e Liberarsi dei demoni. Odio di sè, scientismo e relativismo, Marietti, Milano-Genova 2006.

(6) «II successo di Harry Potter non dimostra la crisi della matematica in Occidente, ma al contrario il suo trionfo. Harry Potter, con il suo straordinario "realismo magico" è l'uscita di sicurezza dall'ossessione della matematica dalla quale si può evadere solo con la letteratura o con il brutto voto a scuola. La matematica, infatti, è l'anima della Tecnica contemporanea, dal frullatore al frigorifero, ma anche del parlare, perché persino il più spontaneo e il più incolto parlare è strutturato in regole rigorose, dentro quella matematica che già il grande matematico Bertrand Russell, con un'autoironia povera di seguaci, definiva "la sola scienza esatta in cui non si sa mai di che cosa si sta parlando né se quelle che si dice è vero"» (F. Merlo, Ma siamo un popolo di grandi calcolatori,«La Repubblica»,  3 agosto 2007).

(7) Tale è il caso dei rapporti Pisa (Programme for International Student Assessment) del 2003 e del 2007. Difatti, questi sondaggi provocano troppo spesso le risposte desiderate ed è sufficiente modificare di poco il tipo di quesiti per ottenere risultati radicalmente diversi, in cui un paese all'ultimo posto dal punto di vista della capacità matematica scala improvvisamente un gran numero di posizioni.

(8) La crisi è marcata nel caso italiano in quanto le regole permissive di valutazione nella scuola secondaria consentono di «scaricare» almeno una materia nel pacchetto dei «debiti formativi» che quasi mai vengono recuperati. Questa materia è molto spesso la matematica. Risulta che più dei 40% degli studenti della scuola secondaria italiana ha un debito formativo in matematica e ciononostante riesce allegramente ad andare avanti nella carriera scolastica. 1 recenti provvedimenti che hanno introdotto l'obbligo del recupero annuale dei debiti formativi potrebbero migliorare la situazione ma appaiono ancora troppo deboli e permissivi.

(9) Difatti, è una favola che non si parli di scienza sulla stampa e che non venga pubblicato un gran numero di libri e riviste dedicati alla divulgazione scientifica. Per un'accurata confutazione di tale pregiudizio si veda M. Bucchi, Scegliere il mondo che vogliamo. Cittadini, politica, tecnoscienza, II Mulino, Bologna 2006.

(10) P. Odifreddi, Matematica. La scienza odiata dagli italiani, «La Repubblica», 3 agosto 2007. La deplorazione per l'interesse nei confronti di Harry Potter e de II Signore degli Anelli è parimenti dovuta a Odifreddi.

(11) Dodgson-Carroll fu autore di un trattato di teoria dei determinanti pubblicato nel 1867.

Giorgio Israel, Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza, Lindau, Torino 2008, pp. 5-15.