1267. Nei nostri tempi sono pericolosi soprattutto i naturalisti. La fisiologia finirà per prendere dimensioni tali da liquidare la morale. Si scorgono già notevoli indizi della nuova aspirazione: trattare l'etica alla stregua della fisica, per cui allora tutta l'etica diventa illusione: l'etica dell'umanità trattata in base alla media statistica, calcolata come si calcolano le oscillazioni delle leggi naturali.
Un fisiologo s'impegna a spiegare l'uomo intero. Qui vale anzitutto il “principiis obsta...”. Ma a me che me ne importa? Che m'importa della corrente centrifuga e centripeta dei nervi, della circolazione del sangue, dello stato dell'uomo visto col microscopio nel seno della madre? “L'etica ha abbastanza compiti per me”. Ho forse bisogno di sapere come si fa la digestione per digerire? O come avviene il movimento del sistema nervoso, per credere in Dio ed amare gli uomini? E se uno ora mi volesse dire: sì, per questo certamente non sono necessari, io domanderei di nuovo: Ma se divento un naturalista, la scienza non indebolirà la mia passione etica? E chissà se io con questa molteplice conoscenza di analogie, di mostruosità, di questo e quel fenomeno, non perderò sempre più l'impressione della legge morale, del “tu devi”, dell'imperativo “si tratta di te”? Tu non hai da impicciarti con nessun altro uomo, anche se cadessero insieme il cielo e la terra: “tu devi”. Non è forse un premunirsi di una massa di scappatoie e di subdole scuse: non è un allontanare lo sguardo dalla cosa importante, questo farmi cominciare con la fisiologia invece di mandare a spasso tutta la fisiologia e dire senz'altro: “Ora comincia”!?
Voglio immaginare un fisiologo di spirito (perché questi autentici macellai che credono di poter spiegare tutto col microscopio e col bisturi, mi fanno ribrezzo): costui che farà mai? Confesserà anzitutto che ogni passaggio è un “salto”, che non può spiegare come sorga una coscienza, né come una coscienza del mondo esteriore diventi coscienza di sé, coscienza di Dio. Confes serà che, per quante spiegazioni dia del sistema nervoso, quel che in fondo ne è l'essenza, egli non la potrà spiegare. Un fisiologo di spirito confesserà che non vi è alcuna analogia fra gli animali e l'uomo: ammetterà in breve la e dialettica qualitativa”. Ammette dunque che in fondo egli non può spiegare nulla. Ma, allora, cosa fa? Scheletrizza, disseziona, penetra fin dove può col bisturi, per mostrarci che egli non può. Se uno sa che, strappando i petali dal fiore e spaccando il gambo e osservando poi ogni parte al microscopio, non potrà mai spiegare l'elemento costitutivo della pianta, allora perché lo fa? Non mantiene costui il suo allievo in un'auto-contraddizione balorda? Invece di dire in quattro e quattr'otto: “Questo io non te lo posso spiegare”, aduggia l'allievo con una massa di particolari e un sapere estremamente seducente e incantatore, che però finisce sempre col confessare l'incapacità di spiegare l'“ultima”. Ma appunto per essere trattenuti da tutto quel sapere, si perde la genuina espressione etica. Invece di cominciare a mangiare con appetito, invece di esser armati alla leggera, senza l'ingombro di alcun sapere sul sistema nervoso, sul complesso dei gangli, sulla circolazione del sangue ecc.: invece di cominciare l'etica con entusiasmo, ci si ingombra con la fisiologia della digestione: con quel quasi-sapere; cioè, con tutto questo, però in fin dei conti non si arriva mai a spiegare l' “ultima cosa”. Prendiamo i problemi della libertà e della necessità. Cominci pure il fisiologo a spiegare come la circolazione del sangue influisca in tale o tal altro modo, e la pressione dei nervi così e così ecc.: non potrà però mai provare la sua tesi che la libertà sia una pura immaginazione. Quando avrà scritto quattro volumi “in-folio”, pieni di numeri e di meraviglie, dovrà confessare: “Davanti a quest''ultima cosa' la mia meraviglia si arresta”. A che scopo allora tutto quel sapere? Non è questo un canzonare gli uomini, un toglier loro a poco a poco l'entusiasmo, un tenerli nell'illusione di credere che un giorno, per mezzo di un microscopio ancora più grande, si riuscirà a spiegare che la libertà è un'illusione e tutto si riduce a funzioni naturali?
Se Iddio si mettesse a gironzolare con un bastone in mano, vedreste come le buscherebbero, specie codesti osservatori così impettiti coi loro microscopi! Col suo bastone Dio sbandirebbe da essi e dai naturalisti ogni ipocrisia. L'ipocrisia consiste infatti nel dire che le scienze portano a Dio. Sì, in un modo “superiore”, ma l'impertinenza è precisamente questa. Ci si può facilmente persuadere che un naturalista è un ipocrita. Poiché, se uno gli volesse dire che ogni uomo, dopo tutto, ne ha abbastanza della sua coscienza e del Piccolo Catechismo di Lutero, il naturalista storcerebbe il naso. Egli vuole — da uomo superiore! — fare di Dio una bellezza sostenuta, un artista fenomenale che non tutti sono in grado di capire. Alto là! No, l'esigenza religiosa ed umana è che nessuno, proprio nessuno, può capire Dio; che il più sapiente deve attenersi umilmente alla “stessa cosa” dell'ingenuo. Qui sta la profondità dell'ignoranza socratica: rinunziare con tutta la forza della passione a ogni sapere curioso, per essere semplicemente ignoranti riguardo a Dio; rinunziare a quest'apparenza (che sarebbe pur sempre una differenza da uomo a uomo) di poter allestire osservazioni col microscopio. Goethe invece, che non era uno spirito religioso, si attaccò vilmente a questo sapere che avrebbe da crear differenze.
Ma una tale scientificità diventa pericolosa e funesta, specialmente quando la si vuoi portare anche nella sfera dello spirito. Si trattino pure le piante, le stelle e le pietre a questo modo: ma trattare a questo modo lo spirito umano è una bestemmia che serve solo a indebolire la passione dell'etica e della religiosità. Mangiare è molto più ragionevole dello speculare con il microscopio sulla digestione. Ed il pregare Dio non potrebbe mai come il mangiare esser detto qualcosa di più basso delle osservazioni scientifiche, ma è assolutamente la cosa più alta.
Poi si viene a sapere dalla fisiologia che “l'incosciente è il primo stadio e il cosciente il secondo”, ma che poi alla fine il rapporto si inverte e il cosciente esercita in parte un influsso formativo sopra l'incosciente. Ora la fisiologia diventa estetico-sentimentale: parla della nobile espressione, della fisionomia, della condotta ecc., di una personalità colta, Dio mio, cos'è mai tutto questo? Un po' di miseria e al massimo un po' di Paganesimo. San Paolo non parla del “diventare belli” col pregare, col predicare ecc...; no, ma “anche se il nostro uomo esteriore si corrompe, quello interiore si rinnova tuttavia di giorno in giorno” [2Cor 4, 16].
La Fisiologia materialistica è comica (credere che, ammazzando, si possa trovare lo spirito che vivifica!); la fisiologia moderna, anche la più dotata di spirito, è sofistica. Ammette che il miracolo non si può spiegare e tuttavia essa vuoi esistere, diventa sempre più voluminosa e tutti questi volumi trattano di quella cosa, di quelle tante e così mirabili cose, le quali però non possono spiegare il miracolo.
Allora la fisiologia sofistica dice che è un miracolo il fatto che si crea una coscienza, un miracolo che l'idea divenga anima e l'anima divenga spirito (brevemente: i “passaggi qualitativi”). Se questo si deve prendere assolutamente sui serio, tutta codesta scienza se ne va all'aria, questa scienza che esiste quindi solo per ischerzo. Il suo vero compito è il miracolo, ma questo essa non lo può spiegare: che giovano allora tutte quell'altre cose ch'essa spiega? Ora, per poter fare della sofistica, o piuttosto per diventare una scienza di molti volumi, la fisiologia si comporta a questo modo. Essa dice: veramente il passaggio (dall'inconscio alla coscienza, ecc.) è un miracolo, ma avviene sempre “a poco a poco” (allmählig) .
Con la dialettica è facile vedere dove qui s'annida il sofisma. La questione non è se ciò impieghi poco o molto tempo per accadere, ma se avvenga per miracolo. Ecco il sofisma: tutta la scienza non è che una parentesi. La cosa non è più o meno un miracolo, a seconda che impieghi molto o poco tempo per accadere. Si vede perciò come era in accordo con codesto tipo di scienza quel medico che, scrivendo la storia della trapanazione, la divise in due parti, di cui la prima si occupava del tempo in cui la trapanazione non era conosciuta. Tutta la psicologia tratta in fondo di ciò che è qualitativamente indifferente. Ma chiamare questo “scienza” è un sofisma. Questo “a poco a poco” (allmählig) può ora significare varie cose nei differenti casi: può significare il regno vegetale, il regno animale, i seimila anni del mondo, la statistica della procreazione, e Dio sa quante altre cose! Ma dal punto di vista qualitativo totale ciò non significa nulla, assolutamente nulla, se si vuole sostenere che il miracolo non si può spiegare. Il tutto si riduce ad approssimazioni: “press'a poco”, “press'a poco e quasi”, “quasi come se, press'a poco come se uno, ecc.”. Questo è tutto quel che si tratta nei molti volumi, per cui si usa il microscopio.
1271. La maggior parte delle pubblicazioni che oggi pullulano sotto il nome di scienza (specialmente le scienze naturali) non è per nulla scienza, ma curiosità. “Tutta la rovina verrà alla fine dalle scienze naturali”. Molti ammiratori credono che quando la ricerca è impiantata col microscopio si abbia senz'altro la serietà scientifica. Oh, la stolta superstizione del microscopio; anzi, l'osservazione microscopica rende la curiosità ancor più comica! Che un uomo in perfetta buona fede ed insieme con profondità dica: “Io non posso vedere con i miei soli occhi come si crea la coscienza”, è ovvio. Ma che un uomo si metta al microscopio, spasimante di vedere e scoprire, senza vedere un bel niente: questo è comico ed è particolarmente ridicolo, qualora ciò debba essere la serietà. Considerare la scoperta del microscopio come un piccolo spasso, una piccola perdita di tempo, va bene: ma considerarla come una cosa seria, è da sciocchi. Anche l'arte della stampa è quasi una trovata satirica: poiché, Dio mio, ciò non ha mostrato abbastanza quanto son pochi quelli che hanno veramente qualcosa da comunicare? Così questa enorme scoperta ha favorito la diffusione di tutte quelle chiacchiere che altrimenti sarebbero morte sul nascere.
Søren Kierkegaard, Diario, a cura di Cornelio Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, vol. 3, pp. 241-247 [VII1 A 182 e VII1 A 186].