La conoscenza naturale di Dio in dialogo critico con la filosofia stoica

Nel seguente brano, tratto dal libro II° del Divinae Institutiones, Lattanzio offre al lettore diversi spunti di riflessione sulla creazione. L'Autore invita a osservare i fenomeni della natura, il firmamento, i moti celesti come un dono fatto da Dio agli uomini, perché questi potessero imparare a volgere lo sguardo verso l'alto. Lattanzio sottolinea come le dottrine predicate dagli stoici e dai filosofi, i quali consideravano il sole e la luna alla pari di divinità a cui rendere culto, siano erronee per loro stessa origine, spiegandone i motivi.

Mentre tutti gli altri esseri dotati di un principio vitale, guardano coi loro corpi la terra, perché essi non ebbero un principio di ragione e di superiore saggezza, Iddio fece l'uomo capace di guardare in alto: la nostra mente può volgersi alle stelle; così volle il Signore, quando ci creò. Ora è chiaro che i culti pagani non hanno nulla di quanto può rispondere al principio razionale dell'uomo, perché questa divina creatura è costretta, per essi, ad adorare cose umili e terrene. Il Padre nostro, quel Dio unico e solo, pur plasmando d'argilla l'uomo, questa creatura intelligente e capace di ragione, lo sollevò poi da terra e gli concesse la facoltà di contemplare la grandezza del suo stesso Creatore.

E questo ottimamente ebbe a cantare quell’insigne poeta: «E mentre gli altri animali guardano proni alla terra, diede all'uomo un volto eretto e gli comandò di guardare al cielo e di volgere gli occhi in alto, alle stelle». (1) E fu certamente da questa facoltà che i Greci dissero l'uomo anthropos (ἄνθρωπος) quasi capace di volgersi all'alto. Rinnegano se stessi, dunque, abdicano al nome di uomini, quelli che rivolgono il loro sguardo, non in alto, ma in basso; a meno che questo fatto di poter noi stare eretti sulla nostra persona, non ritengano essi, essere stato concesso a noi senza ragione alcuna.

Ma Iddio volle che noi potessimo guardare il cielo, non a caso o vanamente: anche gli uccelli e quasi tutti gli animali, pur privi del dono della parola, vedono il cielo; ma a noi, creature umane, fu concesso propriamente di fissare le nostre pupille al firmamento, fermi e sicuri, in tutta la rigidezza della nostra persona perché ivi non cercassimo e leggessimo un principio di fede, perché noi arrivassimo a contemplare e ad intendere Dio, che appunto nel cielo risiede, coll'anima nostra giacché non possono arrivare a vederlo i nostri occhi. E questo non può fare certamente chi adora o bronzo o pietra, che sono oggetti materiali e terreni.

È cosa contraria e biasimevole che, mentre la natura del nostro corpo, che pure è fragile e caduco, guarda in alto, l'animo, che ha un principio immortale, s'abbassi e s'avvilisca, dal momento che la figura e il portamento dell'uomo non stanno ad indicare e a significare altro, se non che la mente dell'uomo debba guardare colà, dove anche l'occhio si volge, e l'animo debba, colla visione del cielo, innalzarsi come il corpo, ad imitare così quello, cui deve reggere e dominare. Ma gli uomini immortali distolgono lo sguardo dall'alto e lo fissano sulla terra; sono solleciti dell'opera terrena delle loro mani, l'adorano e la temono, nei simulacri, come se vi potesse essere qualche cosa di maggiore di chi è stato l'Artefice dell'uomo stesso.

(…)

«O anime rivolte verso la terra e prive d’ogni scintilla di divino!» (2)
Volgete il vostro sguardo al cielo: è stato il vostro Dio creatore che v'ha chiamato alla contemplazione di esso; fu lui che a voi concesse il volto che può affissarsi nell’alto, e voi lo curvate a terra; siete voi che abbassate a quanto è umile e dispregevole il vostro pensiero, che, come il vostro corpo, dovrebbe guardare al suo Creatore e Fattore sublime: par quasi che vi pentiate di non essere nati quadrupedi!... Non è lecito mettere la creatura fatta ad immagine ed a somiglianza divina, alla pari cogli esseri terreni, che guardano proni la terra. Perché voi, rinunziando ai benefici celesti, di cui Iddio ha voluto esservi prodigo, vi prostrate spontaneamente a questa nostra terra? Voi, infelici, vi confondete con quanto è umile e terreno, allorché andate cercando in basso, quanto invece dovreste cercare nell'alto dei cieli.

Codeste fragili costruzioni delle mani dell’uomo, queste figure abilmente plasmate, di quale materia sono formate? Quale altra cosa è, se non semplice terra, quella da cui hanno avuto origine? Perché dunque volete abbassarvi a qualche cosa d'inferiore? Perché lasciate che la terra gravi sui vostri capi? Quando voi vi umiliate alla terra e vi fate miseri e bassi, da voi stessi spontaneamente vi sommergete in balìa di potenze inferiori, vi condannate alla morte, perché nulla di più basso e di più umile della terra vi è, se non la morte e il triste mondo sotterraneo. Volete sfuggire tutto questo? Ebbene, disprezzate la terra che è stata posta sotto i vostri piedi, mantenete il corpo nella sua dignità ed efficienza: esso, voi lo riceveste da Dio, ardito e puro, perché voi poteste volgere gli occhi e il pensiero a Lui che ne fu il Creatore.

(…)

Taluni, di mente e di comprensione limitata ed oscura, adorano, come divinità, alcuni elementi che sono stati creati e che sono privi di qualunque sensibilità. Essi, nell'ammirazione delle opere di Dio, nella contemplazione del cielo, cosparso di astri luminosi, della terra con le sue pianure e le sue montagne, dei mari, dei fiumi, dei laghi, delle sorgenti; presi da queste meraviglie, dimentichi di Colui che ne è stato il creatore, e che non potevano scorgere, coi loro occhi, cominciarono a venerare e ad adorare quanto era stato da lui creato, e non poterono mai arrivare a comprendere quanto più grande ed ammirabile fosse Colui che, dal nulla, trasse tutta la bellezza meravigliosa del creato. E pur vedendo che queste cose ubbidivano a leggi divine e rispondevano al bisogno degli uomini, mosse quasi da un principio di necessità, costoro tuttavia, pensarono che esse stesse fossero divinità, e peccarono così d'ingratitudine verso quanta era beneficio di Dio, essi che preposero alla divinità, quello che era stata la sua creazione.

Ma che meraviglia è da farsi, se genti barbare, se uomini rozzi ed incolti cadono in errore, quando vi sono perfino i filosofi stoici, i quali pensano pure che tutti i corpi celesti aggirantisi nella spazio siano da considerarsi nel novero delle divinità? Quando lo stoico Lucilio così dice presso Cicerone: «Questa costante regolarità nel corso degli astri, questo ritorno periodico delle rivoluzioni celesti, che durerà immutato in ogni tempo, io non lo posso capire senza un principio che regoli e calcoli esattamente tali moti; e poiché scorgiamo che nelle stelle esiste questo principio intelligente, non si può non pensare che gli astri stessi siano da considerarsi nel numero degli esseri divini». E in un luogo precedente, similmente afferma: «Resta, dunque, che il moto degli astri sia qualcosa di volontario; e chi dunque osservi e consideri le rivoluzioni delle stelle, non solo dimostrerebbe assenza di dottrina, ma apparirebbe come persona sacrilega, qualora giungesse a sostenere che esse non sono divinità».

Ma noi neghiamo ciò recisamente e assolutamente; e voi, o filosofi, riconosciamo non solo come ignoranti ed empi, ma anche come ciechi, stolti e pazzi, voi, che colla vostra sciocca e vanitosa superbia, avete superato l'ignoranza della povera gente rozza ed incolta. Infatti, se quelli credevano Dei il sole e la luna, voi siete arrivati a pensare divinità anche le stelle. Ebbene, diteci, esplicateci i misteri delle stelle, perché noi possiamo innalzare ad esse, singolarmente, altari e templi, perché sappiamo con quale rito, in quali giorni dobbiamo onorarle e venerarle, con quali nomi, con quali preghiere rivolgerci ad esse e invocarle, a meno che non dobbiamo prestare venerazione ed onore di culto al complesso di un così sterminato numero di divinità spicciole, senza fissare delle differenze o fare eccezioni!

Quell'argomento che poi costoro adducono per dimostrare che i corpi celesti sono Dei, ha invece un valore opposto: se, infatti, essi pensano che siano Dei perché hanno, nelle loro celesti rivoluzioni, dei procedimenti ben fissi e quasi regolati da una mente ordinatrice, e invece proprio per questa che sono in errore; perché, proprio da questo fatto, risulta chiaro che gli astri non sono affatto Dei; infatti, agli astri non è permesso assolutamente scostarsi da certe linee, allontanarsi dalle orbite che sono state per essi prestabilite. Se fossero divinità, potrebbero vagare liberamente a loro piacere qua e là per lo spazio, come è delle creature sulla terra, perché la volontà degli esseri umani è libera e, volontariamente, si volgono da una parte o dall'altra, e secondo le proprie intenzioni diversamente operano. Il moto degli astri non è, dunque, un moto volontario, ma regolato da leggi ferree e prestabilite, alle quali essi ubbidiscono.

Disputando però dei moti delle stelle, lo stoico Lucilio disse appunto che non era possibile, per l'assoluta precisione e regolarità dei loro procedimenti, riconoscerli come casuali, e riconobbe in essi quasi un atto volontario, come se non potessero seguire un ordine così ben determinato e preciso, qualora non esistesse, nella loro natura, un principio agente e determinante. Ma la verità, come è difficile ad essere intuita dagli ignoranti, e quanto è facile invece per chi è illuminato dalla dottrina! «Se i moti degli astri – egli disse – non sono fortuiti e casuali, è evidente che in essi agisce una forza volontaria». È proprio il contrario: come è chiaro che il moto degli astri non è casuale, così è pur manifesto che non è volontario. In che modo dunque, nel compiere le loro rivoluzioni, gli astri mantengono sempre la stessa matematica esattezza?

È certo che Iddio, creatore di questa immensa macchina dell'universo, così volle e dispose, e stabilì appunto che per l'infinità del firmamento gli astri si movessero e si spostassero con meravigliosa e divina precisione, perché da essi si determinasse, in ben disposti periodi, lo scorrere continuo ed inesorabile del tempo. 0 che forse Archimede di Sicilia potè costruire, con quella sua sfera concava di metallo, qualcosa che richiamava la figura del mondo, e vi potè segnare la luna e il sole, così da poterne seguire i loro diversi movimenti, come si vengono svolgendo le rivoluzioni nel cielo, giorno per giorno, con il sorgere e il tramontare del sole, o il compiersi delle fasi lunari non soltanto, ma pur anche i diversi aspetti delle stelle fisse ed erranti, le varie evoluzioni del nostro pianeta; e non avrebbe, d'altro lato, potuto architettare e compiere Iddio, quello che l'intelligente operosità di un uomo potè in certo modo imitare? Se il filosofo stoico avesse dunque veduto rappresentare su quella metallica sfera le immagini di corpi celesti, avrebbe forse affermato che quegli astri lì raffigurati, si movevano per attività propria, o non piuttosto avrebbe riconosciuto che ciò avveniva per l'abilità dell'artefice?

V'è negli astri una intelligenza che guida il compimento dei loro moti, ed è la infinita intelligenza di Dio che li ha creati e che tutte le cose tempera e discerne; ma non è intrinseca agli astri stessi. Poiché, se Iddio avesse voluto che il sole stesse immobile, avremmo perpetuamente il giorno; se gli astri non avessero fissi e determinati i loro movimenti, chi potrebbe mettere in dubbio che vi sarebbe eternamente tenebra? Ma appunto perché vi fosse l'avvicendarsi del giorno e della notte, volle Iddio le rivoluzioni degli astri, e che queste fossero diverse e molteplici, così da dar luogo non solo alla vicenda della luce e delle tenebre, e con questa si determinassero i periodi di tempo destinati all'attività e al riposo; ma anche volle che da tali movimenti venissero ad alternarsi le stagioni e che diversi fossero il carattere e l'efficienza di questi periodi, così che potessero essere atti o a far sorgere le messi e a portarle al loro pieno sviluppo e alla maturazione.

Ma i filosofi non scorgevano, non capivano questa attività divina prodigiosa e magnifica, nello stabilire e nel regolare il moto delle celesti cose, e crederono che le stelle avessero in se stesse la facoltà di muoversi, come fossero creature, e quindi si spostassero spontaneamente, in piena liberta, non per volere divino. Ma chi è che non comprende come Iddio abbia pensato all'immensamente meraviglioso moto degli astri, nella incommensurabile profondità del suo consiglio? Evidentemente volle ciò perché, quando fosse venuto a mancare il sole, non s'abbattesse sulla terra una cortina di tenebre troppo fitte e paurose a danno degli uomini. Fu così che volle cospargere il cielo di un'infinità di stelle e temperare l'oscurità della notte con un numero incalcolabile di punti piccolissimi e luminosi. Con quanta maggiore profondità e verità di quei filosofi che pur se la pretendono a sapienti, Ovidio intese che gli astri rifulgenti nel firmamento, erano stati fissati da Dio, perché allontanassero in qualche modo l'orrore che incutono le tenebre. Egli terminò coi seguenti versi quel libro nel quale tratta dei fenomeni celesti: «Tanti di numero, Iddio pose nel cielo, segni in forma di stelle e volle che diffondessero la loro fulgente luce nelle tenebre dell'umida notte».

Se dunque non può ammettersi che le stelle siano divinità, non lo saranno neppure il sole e la luna, perché questi corpi non differiscono, se non per la grandezza, dagli altri astri, dei quali invece hanno in comune la natura. Se essi dunque non sono Dei, non lo sarà il cielo, nel quale sono contenuti.

   

1) Ovidio, Metamorfosi, I, 84-86

2) Persio, Satira II, 61

 

da Divinae Institutiones, II, 1-2 e 5, tr. it. di G. Mazzoni, Vol. I, Cantagalli, Siena 1936, pp. 130-132, 135-136, 151-156