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Discorso preliminare sulla conformità della fede con la ragione

Gottfried Wilhelm Leibniz
1710

Saggi di teodicea, §§ 1-5 e §§ 22-30

Il brano che proponiamo, tratto dai Saggi di teodicea, espone la concezione di Leibniz sul rapporto fra fede e ragione e le motivazioni per le quali, secondo il filosofo tedesco, esse non sono mai in contraddizione tra loro. Oggetto della prima è la fede rivelata da Dio all'uomo per via straordinaria, mentre la ragione elabora il concatenarsi delle verità necessarie e a priori, oppure positive e conoscibili a posteriori attraverso l'esperienza, che la mente umana può raggiungere naturalmente, senza il lume della fede. Dio, fonte della verità, può però dispensare le creature dalle leggi prescritte e compiere miracoli, innalzandole oltre la propria natura, senza che tale atto invalidi le verità della fede o quelle eterne della ragione, proprie della logica e della geometria.

1. Prendo le mosse dalla questione preliminare della conformità della fede con la ragione, e dell'uso della filosofia in teologia, perché essa ha molta influenza sull'argomento principale che dobbiamo trattare, e perché il Bayle la fa entrare dappertutto. Suppongo che due verità non possano contraddirsi; che l'oggetto della fede è la verità, da Dio rivelata per una via straordinaria; e che la ragione è il concatenamento delle verità, ma in particolare (paragonata alla fede) di quelle che la mente umana può raggiungere naturalmente, senza essere aiutata dai lumi della fede. Questa definizione della ragione (vale a dire della retta e vera ragione) ha meravigliato talune persone, abituate a declamare contro la ragione presa in un significato vago. Esse mi obiettarono di non aver mai sentito che si desse a « ragione » un tal significato: perché non avevano mai parlato con persone che si esprimessero distintamente su tali argomenti. Essi, tuttavia, riconobbero che non si poteva punto biasimare la ragione, presa nel senso che io le davo. In questo stesso senso la ragione si oppone all'esperienza. Poiché la ragione consiste nel concatenamento delle verità, essa ha diritto di collegare anche quelle che l'esperienza le ha fornite, per trarne conclusioni miste: ma la ragione pura e nuda, distinta dall'esperienza, non ha che fare se non con verità indipendenti dai sensi. E la fede può essere paragonata con l'esperienza perché la fede (quanto ai motivi che la verificano) dipende dall'esperienza di coloro che videro i miracoli su cui la rivelazione si fonda, e dalla tradizione degna di credito che li ha trasmessi sino a noi, sia per mezzo delle scritture, sia grazie al racconto di coloro che li hanno conservati: all'incirca come noi ci fondiamo sull'esperienza di coloro che hanno visto la Cina, e sulla credibilità del loro racconto quando prestiamo fede alle meraviglie che ci vengono riferite di quel paese lontano. Salvo a parlare altrove dei moti interni dello Spirito Santo, che si rende padrone delle anime, e le persuade e le porta al bene, vale a dire alla fede e alla carità, senza aver sempre bisogno di motivi.

2. Ora le verità della ragione sono di due specie: le une sono quelle che si chiamano verità eterne, assolutamente necessarie, in guisa che l'opposto implica contraddizione. Tali sono le verità la cui necessità è logica, metafisica o geometrica, e che non si possono negare senza cadere in assurdità. Altre ve ne sono, che si possono chiamare positive, perché sono le leggi che a Dio è piaciuto di dare alla natura, o quelle che ne dipendono. Noi le impariamo, o con l'esperienza, vale a dire a posteriori, o con la ragione e a priori, cioè considerando la convenienza che ha indotto a sceglierle. Tale convenienza ha anch'essa le sue regole e le sue ragioni, ma la libera scelta di Dio, e non una necessità geometrica, fa prevenire il conveniente e lo porta all'esistenza. Perciò si può dire che la necessità fisica si fonda sulla necessità morale, vale a dire sulla scelta del saggio, degna della sua saggezza; e l'una e l'altra vanno distinte dalla necessità geometrica. Codesta necessità fisica è ciò che costituisce l'ordine della natura, e consiste nelle regole del movimento e in qualche altra legge generale che a Dio piacque dare alle cose nell'atto di farle esistere. È vero, dunque, che Dio le ha date non senza ragione: poiché egli non sceglie nulla per capriccio e come per caso o per una indifferenza assoluta, ma le ragioni generali del bene e dell'ordine che lo han portato a ciò, potevano essere vinte, in qualche caso, da ragioni più forti di un ordine superiore.

3. Ciò mostra che Dio può dispensare le creature dalle leggi che ha loro prescritte, e produrvi ciò che la loro natura non comporta, facendo un miracolo; e quando le creature sono innalzate a perfezioni e a facoltà più nobili di quelle a cui possono giungere per loro natura, gli scolastici chiamano siffatta facoltà una potenza obbedenziale, tale, cioè, che la cosa la acquista obbedendo al comando di colui che può dare ciò che essa non ha; sebbene questi Scolastici diano, di solito, esempi di tale potenza che io ritengo impossibili: come quando pretendono che Dio possa dare alla creatura la facoltà di creare. Può darsi che vi siano miracoli che Dio ha fatto per mezzo del ministero degli angeli, in cui le leggi della natura non sono punto violate più di quando gli uomini aiutano la natura con l'arte: perché l'artificio degli angeli non differisce dal nostro se non per il grado di perfezione. Tuttavia rimane sempre vero che le leggi della natura sono soggette a deroga da parte del legislatore, mentre le verità eterne, come quelle della geometria, sono assolutamènte inderogabili, e la fede non può contrastare con esse. Per questo non può accadere che vi sia un'obbiezione invincibile contro la verità. Infatti, se si tratta di una dimostrazione fondata su principi o su fatti incontestabili, e formata da un concatenamento di verità eterne, la conclusione è certa e inoppugnabile, e ciò che vi contrasta dev'essere falso: altrimenti due proposizioni contraddittorie potrebbero essere vere insieme. Se, invece, l'obbiezione non è dimostrativa, non può costituire che un argomento verisimile, e non ha punta forza contro la fede, tutti essendo d'accordo che i misteri della religione sono in contrasto con le apparenze. Ora il Bayle, nella sua risposta postuma al Leclerc [Entretiens de Maxime et de Thémiste (1706)], dichiara che non pretende punto vi siano dimostrazioni contro le verità della fede. Di conseguenza tutte queste difficoltà invincibili, tutti questi pretesi combattimenti tra la ragione la fede, svaniscono.

Hi motus animorum atque haec discrimina tanta,
pulveris exigui jactu compressa quiescunt
[Virgilio, Georgiche, IV, 86-87]

4. I teologi protestanti, al pari di quelli della Chiesa di Roma, sono d'accordo sulle massime da me sostenute, quand'essi trattano la materia con cura; e tutto ciò che si dice contro la ragione non colpisce che una pretesa ragione corrotta e ingannata da false apparenze. Lo stesso vale per le nozioni della giustizia e bontà divine. Se ne parla talvolta come se noi non ne avessimo alcuna idea né alcuna definizione: ma in tal caso non avremmo nessun fondamento per riconoscere a Dio codesti attributi, o per lodarlo di averli. La sua bontà e la sua giustizia, nonché la sua saggezza, differiscono dalle nostre solo perché sono infinitamente più perfette. Sicché le nozioni semplici, le verità necessarie e le conseguenze dimostrative della filosofia non possono essere in contrasto con la Rivelazione. E quando talune massime filosofiche sono respinte in teologia, ciò accade perché esse non hanno che una necessità fisica o morale, che si riferisce solo a ciò che accade ordinariamente, e si fonda, pertanto, sulle apparenze, ma può venir meno quando Dio lo trovi opportuno.

5. Risulta, da ciò che ho detto esservi spesso un po' di confusione nelle espressioni di coloro che propongono l'una contro l'altra filosofia e teologia, o fede e o ragione: essi confondono tra spiegare, capire, provare e sostenere. E io trovo che il Bayle, con tutta la sua acutezza, non sempre va esente da tale confusione. I misteri si possono spiegare quel tanto che occorre per crederli; ma non li si può capire, né fare intendere come si producano; allo stesso modo in fisica riusciamo a spiegare, fino a un certo punto, parecchie qualità sensibili, ma imperfettamente, perché non le comprendiamo. Del pari non ci è possibile provare i misteri con la ragione, perché tutto ciò che si può provare a priori, o per mezzo della pura ragione, si può capire. Non ci rimane dunque, dopo aver prestato fede ai misteri in base alle prove della verità della religione (che si chiamano motivi di credibilità), che il poterli sostenere contro le obbiezioni: senza di che non avremmo fondamento per crederli, dato che tutto ciò che si può confutare con solide prove dimostrative non può non essere falso; e le prove della verità della religione, che non possono dare se non una certezza morale, sarebbero equilibrate e financo sopraffatte da obbiezioni che dessero una certezza assoluta, quando queste fossero convincenti e assolutamente dimostrative. Queste poche considerazioni potrebbero bastare ad eliminare le difficoltà circa l'uso della ragione e della filosofia rispetto alla religione, se spesso non ci trovassimo ad aver che fare con persone prevenute. Ma poiché la materia è importante, ed è stata molto ingarbugliata, sarà opportuno entrare in maggiori particolari.

[…]

22. I teologi di tutte le scuole, io penso, (eccettuati i soli fanatici) convengono, quanto meno, che nessun articolo di fede può implicare contraddizione, né contravvenire a dimostrazioni così esatte come quelle delle matematiche, dove il contrario della conclusione può essere ridotto ad absurdum, cioè alla contraddizione. E S. Atanasio ha giustamente irriso le farneticazioni di certi autori del suo tempo, che avevano sostenuto che Dio patì senza passione: « Passus est impassibiliter; o ludicram doctrinam, aedificantem simul et demolientem! ». Segue di qui che certi autori furono troppo corrivi nell'accordare che la Trinità è contraria a quel fondamentale principio secondo cui due cose identiche ad una terza sono identiche anche tra loro: vale a dire che, se A è lo stesso che B, e se C è lo stesso che B, occorre anche che A e C siano lo stesso. Questo principio, infatti, è una conseguenza immediata del principio di contraddizione, e costituisce il fondamento di tutta la logica: se esso vien meno, non c'è più mezzo di ragionare con sicurezza. Così, quando si dice che il Padre è Dio, che il Figlio è Dio, e che lo Spirito Santo è Dio, e che non vi è tuttavia se non un Dio, nonostante che queste tre persone differiscano tra loro, bisogna ritenere che tale parola « Dio » non abbia lo stesso significato all'inizio e alla fine di tale espressione. In realtà essa significa in un caso la sostanza divina, e nell'altro la persona della divinità. In generale si può dire che bisogna guardarsi dal mai abbandonare le verità eterne necessarie per sostenere i misteri, dovendosi temere che i nemici della religione ne traggano motivo per screditare e la religione e i misteri.

23. La distinzione che si è soliti fare tra ciò che è al di sopra della ragione e ciò che è contro ragione va abbastanza d'accordo con la distinzione fatta più su, tra le due specie della necessità. Infatti ciò che è contro la ragione è contro le verità assolutamente certe e indispensabili; mentre ciò che è al di sopra della ragione contrasta unicamente con ciò che si ha l'abitudine di sperimentare o di comprendere. Per questo mi meraviglio che vi siano persone sennate che combattono tale distinzione, e che il Bayle sia compreso tra esse. È una distinzione, senza dubbio, molto ben fondata. Una verità è al di sopra della ragione quando la nostra mente, (anzi, ogni mente creata) non la può capire: e tale è, per quel che io penso, la Santa Trinità ; tali i miracoli riservati a Dio solo, come ad esempio la creazione; tale la scelta dell'ordine dell'universo, che dipende dall'armonia universale e dalla conoscenza distinta di un infinità di cose a un tempo. Ma una verità non può mai essere contro la ragione, e un dogma combattuto e confutato dalla ragione, lungi dall'essere incomprensibile, si può dire che è la cosa di cui è più facile capire, ed è più manifesta, l'assurdità. Ho infatti osservato fin da principio che per ragione non s'intendono qui le opinioni e i discorsi degli uomini, e neppure l'abitudine, da essi acquisita, di giudicare le cose secondo il corso ordinario della natura, bensì il concatenamento inviolabile delle verità.

24. Dobbiamo ora venire alla grande questione che il Bayle ha posta sul tappeto recentemente: se una verità, e soprattutto una verità di fede, possa andar soggetta a obbiezioni insolubili. Quell'eccellente autore pare decisamente sostenere l'affermativa a tale proposito; e cita teologi autorevoli del suo partito, e perfino di quello di Roma, i quali sembrano dire ciò che egli sostiene; e adduce l'opinione di filosofi, secondo cui vi sono perfino verità filosofiche, i cui difensori non sono in grado di rispondere alle obiezioni che loro si muovono. Egli ritiene che la dottrina della predestinazione rientri in questa classe in teologia, e quella della composizione del continuum in filosofia. Sono, effettivamente, i due labirinti che hanno esercitato in ogni tempo le menti dei teologi e dei filosofi. Liberto Fromond, teologo di Lovanio (grande amico di Giansenio, di cui, anzi, pubblicò postumo il libro intitolato Augustinus) avendo molto lavorato sulla grazia, e composto altresì un apposito libro intitolato Labyrinthus de compositione continui [Anversa, 1631], ha ben sperimentato le difficoltà dell'uno e dell'altro; e il celebre Ochino ha presentato molto bene quelli che egli chiama i « labirinti della predestinazione ».

25. Tali autori, però, non han punto negato che sia possibile trovare un filo nel labirinto, e, pur riconoscendo la difficoltà, non han preteso di spacciare ciò che è difficile per impossibile. Quanto a me, riconosco di non poter condividere l'opinione di chi afferma che una verità può andare incontro a obbiezioni invincibili. Una obbiezione, infatti, che cos'altro è se non un argomento la cui conclusione contraddice alla nostra tesi? E un argomento invincibile non è forse una dimostrazione? Ora, la certezza delle dimostrazioni non può essere riconosciuta altrimenti che esaminando l'argomento nei particolari, per la forma e per la materia, al fine di vedere se la forma è buona, e poi se ciascuna premessa è, o riconosciuta, o provata da un argomento di pari forza, fino a che non si abbia più bisogno di premesse che non siano riconosciute. Se vi è, dunque, una siffatta obbiezione contro la nostra tesi, si dovrà dire che la falsità di detta tesi è dimostrata, e che è impossibile che noi disponiamo di ragioni sufficienti per provarla: altrimenti due contraddittori sarebbero veri a un tempo. Sempre si deve cedere alle dimostrazioni, o che siano proposte per affermare, o che siano presentate in forma dì obbiezioni. Ed è ingiusto ed inutile voler indebolire le prove degli avversari col pretesto che non sono se non obbiezioni: perché l'avversario ha lo stesso diritto, e può rovesciare le denominazioni, onorando i propri argomenti col nome di prove, e abbassando i nostri col termine peggiorativo di obbiezioni.

26. Un'altra questione è sapere se siamo sempre obbligati a esaminare le obbiezioni che ci possono essere presentate, conservando qualche dubbio sulla nostra opinione, ovvero quella che si chiama « formido oppositi » fino a quando non si sia compiuto tale esame. Oserei dire di no, perché altrimenti non si perverrebbe mai alla certezza, e la nostra conclusione sarebbe sempre provvisoria. Io penso che i geometri esperti non si preoccuperanno molto delle obbiezioni di Giuseppe Scaligero contro Archimede, o di quelle dello Hobbes contro Euclide ma, questo, perché sono ben certi delle dimostrazioni, che vanno capite. Pure qualche volta è bene aver la compiacenza di esaminare talune obbiezioni, perché ciò, oltre a poter servire a liberare le persone del loro errore, può, in certi casi, essere utile a noi medesimi: i paralogismi speciosi contengono spesso qualche prospettiva utile, e offrono l'occasione di risolvere difficoltà considerevoli. Per questo ho sempre amato le obbiezioni ingegnose contro le mie proprie dottrine, e non le ho mai prese in considerazione senza frutto: ne siano una prova quelle che il Bayle fece, un tempo, contro il mio sistema dell'armonia prestabilita, senza dir qui di quelle dell'Arnauld, dell'abate Foucher e del benedettino Padre Lamy intorno allo stesso argomento. Ma, per tornare alla questione principale, concludo, per le ragioni dianzi addotte, che quando vien mossa un'obbiezione contro una verità qualsiasi è sempre possibile rispondervi nel modo dovuto.

27. Può anche darsi che il Bayle non intenda le obbiezioni insolubili nel senso che abbiamo sopra indicato. E trovo che egli varia, quanto meno, il suo modo di esprimersi: infatti la sua risposta postuma al Leclerc non riconosce affatto che si possano opporre dimostrazioni alle verità di fede. Sembra, dunque, che egli intenda le obbiezioni come invincibili solo rispetto alle nostre conoscenze attuali, e in questa stessa risposta, a pagina 35 egli non dispera neppure che qualcuno possa un giorno trovare una soluzione rimasta ignota fin qui. Si ritornerà su ciò in seguito. Io la penso, tuttavia, in un modo che potrà sorprendere: perché penso che tale soluzione sia stata già trovata, e che non sia neppure tra le più difficili; e che un ingegno mediocre, capace di sufficiente attenzione, servendosi esattamente delle regole della logica comune, sia in condizioni di rispondere all'obbiezione più imbarazzante contro la verità, quando l'obbiezione non sia tratta che dalla ragione, e si pretenda che rappresenti una dimostrazione. E, per quanto disprezzata sia comunemente dai moderni la logica di Aristotele, bisogna riconoscere che essa insegna mezzi infallibili per resistere all'errore in questi casi. Non occorre, infatti, se non esaminare l'argomento secondo le regole, e vi sarà sempre modo di vedere se sia difettoso nella forma, o se vi siano premesse non ancora provate da un argomento valido.

28. Tutt'altro è il caso quando non si tratti che di verosimiglianze: infatti l'arte di giudicare circa le ragioni verosimili non è ancora ben stabilita, di modo che su questo punto la nostra logica è ancora molto imperfetta; fin qui non abbiamo quasi altro che l'arte di giudicare delle dimostrazioni. Ma quest'arte basta nel nostro caso, perché, quando si tratta di opporre la ragione a un articolo della nostra fede, non ci si preoccupa punto delle obbiezioni che raggiungano una semplice verosimiglianza: ciascuno, infatti, riconosce che i misteri vanno contro le apparenze e non hanno nulla di verosimile, quando li si consideri soltanto dal lato della ragione; basta, però, che non vi sia nulla di assurdo. Se li si vuole confutare occorrono, pertanto, dimostrazioni.

29. Così, senza dubbio, si deve intendere il detto della Sacra Scrittura, che la saggezza di Dio è pazzia davanti agli uomini; e l'osservazione di San Paolo che il Vangelo di Cristo è una pazzia per i Greci come è uno scandalo per gli Ebrei [cfr. 1Cor 1,23]: perché, in fondo, una verità non può contraddire all'altra, e la luce della ragione non è meno un dono di Dio che quella della Rivelazione. I teologi che s'intendono del loro mestiere considerano pertanto fuori discussione che i motivi di credibilità giustificano, una volta per tutte, l'autorità della Sacra Scrittura davanti al tribunale della ragione, affinché la ragione le ceda il passo in seguito come a una luce, sacrificandole tutte le sue verosimiglianze. È, all'incirca, come un nuovo capo inviato dal principe, che deve mostrare le sue lettere credenziali all'assemblea che, in seguito, dovrà presiedere. A ciò tendono parecchi buoni libri da noi posseduti intorno alla verità della religione: come quelli di Agostino Steuco, di Du Plessis Mornay o di Grozio. Occorre, infatti, che essa abbia certi caratteri che le religioni false non hanno: altrimenti Zoroastro, Brahma, Somonacodom e Maometto sarebbero altrettanto degni di fede quanto Mosé e Gesù Cristo. Tuttavia la stessa fede divina, una volta accesasi nell'anima, è qualcosa di più di un'opinione, e non dipende dalle occasioni o dai motivi che l'hanno fatta nascere: essa oltrepassa l'intelletto, e si fa padrona della volontà e del cuore, per farci agire con fervore e piacere come la legge di Dio comanda, senza che si abbia più bisogno di pensare alle ragioni, o di arrestarsi alle difficoltà di ragionamento che si possono presentare alla mente.

30. Cosi quanto abbiam detto sulla ragione umana, a volta a volta esaltata o avvilita, e spesso senza regola né misura, può mostrarci quanto scarsa sia la nostra precisione, e come noi siamo complici dei nostri errori. Nulla vi sarebbe di così facile come il dar fine a queste dispute sui diritti rispettivi della fede e della ragione, se gli uomini volessero servirsi delle più comuni regole della logica e ragionare con un minimo di attenzione. Invece essi si confondono con espressioni oblique ed ambigue, che dan loro una facile occasione per declamare, per mettere in mostra la loro acutezza e la loro dottrina: e sembra che non abbiamo nessun desiderio di veder la verità tutta nuda, forse perché temono che sia più sgradevole dell'errore, non conoscendo la bellezza dell'Autore di tutte le cose, che è la fonte della verità.

da G.W. Leibniz, Saggi di Teodicea, a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna 1973, §§ 1-5 e §§ 22-30, pp. 94-97 e 111-116.