Quando Albert Einstein era ancora un bambino di quattro anni, suo padre, un giorno, gli mostrò una bussola. L’impressione che essa destò in lui fu così profonda e durevole che ne evoca il ricordo all’inizio dell’autobiografia redatta negli ultimi anni della sua vita, che costituisce la prima parte degli scritti in onore raccolti nel volume offertogli in occasione del suo settantesimo compleanno e apparso con il titolo Albert Einstein, Philosopher and Scientist.
Quest’autobiografia è pressoché interamente consacrata all’attività scientifica dell’autore, e, per svolgere nel migliore dei modi il compito che mi è stato affidato, cioè quello di ricordare davanti a voi i principali aspetti di tale attività, in questa presentazione ho ritenuto di non poter far di meglio che attingere a piene mani a quello che Einstein stesso ha selezionato della propria opera, sforzandomi, nel riassumerlo, di utilizzare, nella misura del possibile, le medesime espressioni di cui egli stesso si era servito.
L’esperienza della bussola, cui lo poneva di fronte suo padre, rappresentò per Einstein la prima meraviglia della quale egli conservasse / avesse conservato il ricordo. Che quest’ago si comportasse in maniera molto precisa non rientrava nel quadro delle nozioni incoscienti sviluppate nel bambino dal mondo familiare della vita di ogni giorno: dietro gli oggetti che si vedono e si toccano, doveva esserci qualcosa di nascosto.
Einstein sperimentò una seconda meraviglia, quando, all’età di dodici anni, all’inizio dell’anno scolastico, ebbe per le mani un libriccino di geometria. Che le altezze di un triangolo si taglino in un medesimo punto è una proposizione che non ha in sé nulla di evidente; eppure ciò poteva esser dimostrato con una chiarezza, una certezza che non lasciava spazio ad alcun dubbio. Questo gli fece un’impressione indescrivibile.
Senza nemmeno proseguire nella lettura, mise immediatamente mano alla dimostrazione del teorema di Pitagora, sul quadrato dell’ipotenusa, di cui uno dei suoi zii gli aveva precedentemente spiegato l’enunciato. Dopo notevoli sforzi, giunse a una dimostrazione che gli parve soddisfacente, non, come si racconta di Pascal, stabilendo una sequenza di proposizioni fino a formare una teoria, ma percependo nella sua evidenza come il rapporto fra il lato e l’ipotenusa non potesse dipendere che dall’ampiezza dell’angolo acuto, fondando, così, su quest’intuizione l’analogia dei triangoli ottenuti abbassando l’altezza del vertice dell’angolo retto sull’ipotenusa.
A sedici anni, si era occupato di un paradosso, dal quale, dopo dieci anni di riflessione, doveva scaturire la teoria della relatività. Un’onda elettromagnetica è costituita da campi elettromagnetici che disegnano nello spazio una distribuzione di andamento sinusoidale e tale distribuzione si sposta tutta insieme, senza deformarsi, alla velocità di 300.000 chilometri al secondo. Se, dunque, tramite il pensiero, la si insegue a questa velocità c, essa appare come una distribuzione statica, ovverosia invariabile, dei medesimi campi. Eppure, tanto tramite l’esperienza quanto tramite la teoria di Maxwell, risulta ben chiaro come non sia possibile che tale distribuzione possa mantenersi tale in maniera statica.
Einstein riconobbe più tardi che il tipo di ragionamento critico capace di metter in evidenza il punto centrale del problema posto dal paradosso che aveva enunciato gli veniva fornito dagli scritti filosofici di Hume e di Mach.
Le proposizioni non hanno un senso, un contenuto, a meno che esse non siano, in un modo o nell’altro, messe in relazione con l’esperienza sensibile. È proprio in questo che si distingue la fantasia dalla verità scientifica. Quella del viaggiatore che si sposti a una velocità maggiore di quella della luce stessa e ripercorra, all’inverso, la storia del mondo è una bella finzione, rappresenta proprio il genere di metafisica da cui la fisica si deve attentamente guardare. Si può immaginare un viaggiatore che si sposti a una velocità minore della velocità della luce: c. Poco importa che questa velocità non sia stata effettivamente raggiunta, poiché, astraendo dalle contingenze che rendono tale eventualità praticamente impossibile, che costituiscono considerazioni di carattere semi-empirico, ovverosia relative a esperienze che non si sono fatte realmente, ma la cui realizzazione ideale si presentava plausibile, è possibile convincersi come la nozione si mantenga in un rapporto reale con l’esperienza sensibile. Per la velocità c, al contrario, il paradosso che tormentava Einstein adolescente mostra precisamente che per il concetto: «seguire l’onda con la velocità c» non si può concepire alcuna relazione con l’esperienza sensibile. Nel momento in cui tali concetti vengono introdotti surretiziamente nel ragionamento della fisica, essi conducono all’errore e alla confusione.
È un fatto analogo a quello che si è ripresentato per il principio d’intedeterminazione di Heisenberg. Se, da un lato, si possono concepire velocità di fantasia, quelle che raggiungono o superano c, dall’altro, si possono analogamente concepire misure d’una precisione di fantasia, misure che nulla impedisce a prima vista di immaginare ma che, purtuttavia, è essenzialmente impossibile mettere in qualsivoglia relazione con l’esperienza sensibile. Il principio di intedeterminazione di Heisenberg fornisce in tale ambito il limito preciso che separa la verità dalla fantasia, come la velocità c rappresenta il confine inaccessibile degli spostamenti reali. Il pensiero può viaggiare a una velocità maggiore di quanto possa fare la realtà, ma allora si svuota di significato.
Nel corso del liceo, Einstein ebbe l’occasione di familiarizzarsi con gli elementi della matematica, nonché con i principi del calcolo differenziale e del calcolo di un integrale. Ebbe la buona sorte di imbattersi in libri di testo che, senza essere troppo esigenti sul piano del rigore scientifico, mettevano bene in evidenza le idee fondamentali. Questo lavoro davvero affascinante gli permise di sperimentare impressioni capaci di competere con la rivelazione di Euclide. Einstein cita l’idea di base della geometria analitica, le serie infinite, i concetti di differenziale e di integrale. Fu in questo periodo che egli lesse, con il fiato sospeso per la concentrazione, un’eccellente opera di volgarizzazione in cinque volumi di un certo Bernstein, che gli rivelò in maniera molto completa gli aspetti qualitativi della fisica.
All’Università a Zurigo, fece davvero molta fatica a piegarsi alla disciplina dell’istituzione e fu tutt’altro che uno studente modello. Si asteneva dal frequentare i corsi, preferendo invece leggere a casa le opere dei docenti: Kirchhoff, Helmholtz, Hertz.
Soprattutto l’obbligo di preparare gli esami ebbe su di lui un effetto depressivo e ci racconta che, dopo l’esame finale, gli ci volle ben un anno prima di riuscire a recuperare un po’ il gusto di affrontare i problemi scientifici.
A quest’epoca, Einstein trascurò, in certa misura, lo studio della matematica perché non aveva ancora compreso come una conoscenza approfondita dei fondamenti della fisica sia legata ai metodi matematici più raffinati. Invece di acquisire in un colpo solo la solida formazione matematica che gli avrebbero potuto fornire eccellenti maestri come quelli, trascorreva la maggior parte del tempo nel laboratorio di fisica.
Risulta, in effetti, tanto più bizzarro che Einstein stesso non abbia, che io sappia, mai compiuto una misurazione fisica degna di essere pubblicata e che, viceversa, egli fosse destinato a diventare il più teorico e senza dubbio il più matematico fra tutti i fisici. Eppure, chi oserebbe mai dire che abbia avuto torto nel lasciarsi catturare da questo tipo di fascino, esercitato su di lui dal contatto diretto con l’esperienza del laboratorio? Forse, in queste ore apparentemente perse, egli acquisì quel contrappeso indispensabile per equilibrare il suo genio e il suo gusto per la speculazione.
Giungiamo così al 1905, l’anno delle grandi scoperte: il movimento browniano, il quanto di luce, la relatività.
La Fisica moderna spiega le apparenze sensibili attraverso meccanismi invisibili che interessano atomi o molecole sottoposti a campi elettrici, magnetici, gravitazionali.
Il mondo in grande, o, come si dice, macroscopico, è altresì spiegato da un mondo molto diverso dal primo: il mondo microscopico. Le proprietà macroscopiche, quali la pressione e la temperatura, sono naturalmente messe in relazione con le proprietà del mondo microscopico; eppure tale relazione, la quale giustifica la teoria e la provvede di senso, è in generale alquanto indiretta. Per esempio: la temperatura corrisponde all’agitazione delle molecole.
Einstein ha mostrato che questi due mondi: il mondo microscopico e il mondo macroscopico, sono, in realtà, meno fondamentalmente separati di quanto non si supponesse. Polveri compatte partecipano all’agitazione termica delle molecole e ne manifestano i movimenti al rallentatore, sicché l’ampiezza di tale rallentamento dipende dal rapporto tra la massa delle polveri e quella delle molecole e permette anche la misurazione di quest’ultima massa.
La teoria cinetica della materia non aveva senza dubbio alcun bisogno di esser dimostrata, giacché le corrispondenze indirette da essa fornite erano assolutamente sufficienti a convincere qualsiasi spirito imparziale dotato di una certa perspicacia. Dopo il lavoro di Einstein, essa diveniva tanto evidente da dover convincere quegli stessi spiriti, acciecati com’erano dai propri pregiudizi filosofici. Einstein non ha mai cessato di denunciare tale pregiudizio, da annoverare, ai suoi occhi, tra i più perniciosi, consistente nella convinzione che i fatti in se stessi possano fornire la conoscenza scientifica, senza l’intervento di una libera creazione di concetti. Una teoria deve esser sottoposta alla prova dell’esperienza, ma non esiste alcuna strada che conduca dall’esperienza alla teoria. L’esperienza può suggerire i concetti matematici appropriati, ma questi non possono esser dedotti dall’esperienza e nemmeno esserne astratti attraverso alcuno strumento logico; essi non possono sorgere che da un libero intervento dell’intelletto umano.
La scoperta dei quanti di luce risulta intimamente legata al lavoro sul movimento browniano. Utilizzando i ragionamenti della termodinamica e i dati dell’osservazione sulla distribuzione dell’energia nell’irraggiamento nero, Planck aveva ottenuto nel 1900 la sua celebre formula. Aveva mostrato come, dal punto di vista termodinamico, tale irraggiamento possa essere paragonato alle vibrazioni di un numero finito di sistemi elementari, o, come si dice, di risonatori: il numero e l’energia di tali risonatori essendo fissato tramite alcune formule contenenti la nuova costante, detta costante di Planck.
Ebbene, Einstein riuscì a dedurne che un leggero specchio sottoposto alla radiazione nera si trova in uno stato analogo alla polvere messa in moto dagli atomi e che dunque esso deve subire una sorta di movimento browniano, il quale deve, a propria volta, verificarsi con un’energia calcolabile con esattezza. Volgendosi allora all’aspetto elettromagnetico del problema, egli investigò come la radiazione elettromagnetica che costituisce l’irraggiamento potesse mantenere tale movimento, tramite la pressione che esso esercita sullo specchio. Mostrò l’insufficienza di tutte le cause note che avrebbero potuto produrre tale agitazione dello specchio e giunse così alla conclusione che l’energia della radiazione, invece di essere distribuita in maniera continua nello spazio, come voleva la teoria di Maxwell, era localizzata in quanti indivisibili d’un’energia pari al prodotto della costante introdotta da Planck per la frequenza della radiazione considerata. Egli mostrò in tal modo in maniera diretta quale sia il tipo di realtà immediata che va attribuita ai quanti di Planck e che si esprime affermando che l’energia possiede una sorta di struttura moleculare. È questa grande scoperta che fu premiata con il Premio Nobel attribuito ad Einstein nel 1921.
La duplice natura della radiazione, tanto corpuscolare quanto ondulatoria, è una delle maggiori proprietà della realtà. Essa è stata interpretata dalla meccanica, con successo pari all’ ingeniosità della teoria, non senza sollevare delle indubbie difficoltà, che Einstein nei suoi ultimi anni di vita verificò alla luce cruda di una critica impietosa. Tale critica lo portò a concludere che, a meno che non occorra inoltrarsi ancora di più sulla via intrapresa dalla fisica fino a giungere a negare ogni significato all’esistenza indipendente di oggetti separati nello spazio, sarà necessario, in un modo o nell’altro, fare un passo indietro tornando a idee più prossime alle teorie classiche, imboccando una strada che egli intravedeva confusamente e che prevedeva sarebbe stata necessariamente lunga e accidentata.
Abbiamo già speso qualche parola circa l’origine della terza delle grandi scoperte che segnarono quest’anno 1905: la teoria della relatività.
Ciò che oscurava l’idea che ci si poteva fare a quest’epoca di un campo elettromagnetico, era che ci si immaginava che questo campo fosse sostenuto dalla materia e non semplicemente dallo spazio, sicché, sotto il nome di etere, Hertz aveva potuto introdurre il concetto irreale di movimento del vuoto.
Da allora, il concetto di campo ha progressivamente preso il posto di quello di materia e quest’ultima si è conseguentemente ridotta a ritirarsi, seppur non nelle singolarità del campo, perlomeno nelle aree dimensionali inimmaginabilmente piccole espresse da un milionesimo di milionesimo di millimetro, lasciando tutto il resto, quasi integralmente, occupato dai campi elettromagnetici o gravitazionali. A seguito della scoperta di Poynting, l’energia stessa, analogamente all’impulso, può essere localizzata in tali campi.
Tale era il caos in cui Einstein ha gettato un minimo di luce, introducendo due principi apparentemente contraddittori: la costante della velocità della luce e l’indipendenza delle leggi dalla scelta del sistema inerziale utilizzato per la descrizione dei fenomeni.
Egli ha mostrato come tale contraddizione non fosse che apparente e come, in ossequio a questi due principi, le leggi fisiche dovessero essere invarianti per una determinata trasformazione, che ha chiamato la trasformazione di Lorentz: essa stabilì una relazione tra le coordinate cartesiane e il tempo occorrenti per entrambi i sistemi inerziali equivalenti.
Più tardi, uno dei vecchi professori di Einstein, Hermann Minkowski, applicò alla relatività la nozione di spazio-tempo o, secondo la sua espressione, «d’un universo a quattro dimensioni». Egli compì in tal modo un progresso considerevole. Prima di lui, per sapere se una legge fosse conforme alla relatività, occorreva applicare una trasformazione di Lorentz. Il formalismo matematico introdotto da Minkowski è tale da garantire automaticamente che la legge che vi si conforma risulti invariante per una trasformazione di Lorentz. Creando il calcolo tensoriale a quattro dimensioni, egli ha realizzato per lo spazio-tempo ciò che il calcolo vettoriale ordinario aveva fatto per lo spazio. La trasformazione di Lorentz appariva, così, come una rotazione a quattro dimensioni.
Tutto questo ci pare molto semplice e risulta familiare a ogni studente di fisica. Eppure, ai tempi in cui ciò rappresentava una novità, non era tanto facile da scoprire né da capire, e non è sicuramente inutile ricordare la prima impressione che l’interpretazione di Minkowski fece ad Einstein. Essa trovò espressione in questa battuta, di cui Sommerfeld ci ha conservato il ricordo:
“Da quando i matematici hanno invaso la teoria della relatività, non la capisco nemmeno io”.
La teoria della relatività generalizzata consiste nella fusione in una teoria fisica delle idee di Minkowski con una concezione matematica ancor più profonda e più antica, contenuta nel testo immortale della tesi di Riemann sui fondamenti della geometria del 1854.
Il punto di partenza della teoria consiste in una critica della nozione di massa nella misura in cui essa rappresenta l’inerzia della materia, nonché il suo peso, l’attrazione gravitazionale, tanto nel suo carattere attivo di massa attirante, quanto nel suo carattere passivo di massa attirata. La teoria era destinata a fondere questi tre aspetti della nozione di massa riducendoli al solo concetto di energia, di cui la massa non è che una forma particolare.
Le tappe del pensiero di Einstein sono descritte in modo dettagliato e luminoso nell’autobiografia di cui sto tentando di presentarvi i punti più salienti. Dovrei spiegarvi come, partendo dall’idea che ci dovesse essere una certa equivalenza tra la gravità e le forze d’inerzia risultante dal movimento non uniforme di un sistema di riferimento, Einstein giunse di lì progressivamente a rendersi conto di come l’insieme di trasformazioni di Lorentz risultasse troppo esiguo per poter abbracciare la gravità e di come occorresse prospettare un’invarianza per le trasformazioni più generali tra le trasformazioni non lineari a quattro dimensioni.
Einstein se ne era reso conto già dal 1908. Ci si chiede, allora, perché occorsero ancora sette anni per costruire la teoria generale della relatività. La sua risposta è tra le più istruttive. La ragione principale, dice, risiede nel fatto che non era facile liberarsi dell’idea che le coordinate debbano avere un significato metrico immediato, allineandosi, cioè, con il punto fondamentale della tesi di Riemann.
Non mi è permesso di abusare del vostro tempo e della vostra pazienza nel descrivere nel dettaglio le tappe successive attraverso le quali Einstein si avvicinò progressivamente, prudentemente, alla magnifica realizzazione del programma che si era delineato.
Credo di non poter fare di meglio che citarvi quasi integralmente gli estratti che ci si sono conservati della lettera che egli scrisse il 28 novembre 1915 a Sommerfeld, annunciandogli il successo finale.
“Nel corso degli ultimi mesi, ho vissuto le ore più appassionanti e più estenuanti della mia vita, certamente anche le più fruttuose. A scriverVi non pensavo nemmeno.
Mi rendevo conto che le mie equazioni sul campo gravitazionale per il momento erano rimaste senza reale fondamento...
Dopo che tutto quanto c’era di affidabile nella mia teoria precedente svanì, vidi chiaramente che una soluzione soddisfacente non si poteva trovare che in rapporto con la teoria universale delle covarianti di Riemann”.
Poi, dopo qualche formula, scrive:
“Ora la meravigliosa scoperta da me compiuta fu che non soltanto la teoria di Newton si ottiene in prima approssimazione, ma che in seconda approssimazione si trova anche il movimento del perielio di Mercurio (43 secondi al secolo).
Per la deviazione della luce da parte del sole, ottengo un valore doppio di quello che avevo annunciato precedentemente”.
Nella sua autobiografia Einstein non parla delle opere che seguirono alla sua opera principale: la teoria riemanniana della gravità. Non vorrei perciò passare completamente sotto silenzio la sua opera sul fronte cosmologico, in cui egli scopre, proprio nell’ipotesi statica, che la curvatura riemanniana dello spazio è determinata dalla densità della materia che riempie tale spazio. Egli mostra come, all’interno del quadro generale della propria teoria, vi fosse spazio per un termine supplementare contenente una nuova costante, apparentemente superflua, la costante cosmologica, designata abitualmente dalla lettera greca lamda. Questa costante ha giocato un ruolo essenziale non soltanto nell’applicazione astronomica della relatività all’espansione dell’universo, ma anche nelle ricerche teoriche di Weyl e di Eddington. Eddington ha potuto scrivere: “Io riterrei opportuno tornare alla teoria di Newton piuttosto che lasciar perdere la costante lamda”.
Eppure Einstein ha espresso il proprio rammarico per averla introdotta. Si tratta di una delle manifestazioni dell’inquietudine dei suoi ultimi anni di vita, che fa pensare un po’ alla favola dell’apprendista stregone, incapace di immaginare le conseguenze inattese delle proprie formule magiche.
Né Einstein, né nessun altro può eliminare il termine cosmologico dell’equazione, dopo che esso è stato legittimamente introdotto. È sicuramente possibile che la costante cosmologica sia nulla e che il termine scompaia così praticamente dall’equazione, ma allora il valore zero attribuito a tale costante non può essere ammesso che in base alla prova fornita da un confronto sperimentale o da uno sviluppo della teoria.
Einstein ha lavorato fino all’ultimo dei suoi giorni a quello che egli chiamava il completamento della teoria della relatività, la teoria unitaria. La maestria del teorizzatore, del matematico consumato che era diventato, si afferma più che mai. Eppure il miracolo del 1915 non si si è più prodotto, il rapporto tra la teoria e l’esperienza resta più problematico che mai ed ecco, nel 1949, come effettivamente Einstein formula la propria conclusione prudente, un po’ malinconica:
La teoria qui proposta ha, ai miei occhi, una certa probabilità di esser verificata, a patto che il percorso che conduce a una descrizione esaustiva della realtà a partire dal continuo risulti in qualche modo praticabile.
D’altronde, in questa meravigliosa risposta alle critiche, critiche deferenti o amichevoli, che gli erano state rivolte per il suo giubileo, Einstein presenta, sotto il nome di confessione, una delle sue argomentazioni folgoranti, una delle argomentazioni critiche inattese che aveva tenute segrete e che sembra ben mostrare che ogni conciliazione tra i quanti e la relatività non avrebbe in fin dei conti valore che nell’ambito macroscopico.
L’argomentazione è di natura molto tecnica, sicché non posso pensare né di presentarla, né ancor meno di discuterla in questo momento.
È ora di concludere.
Se vogliamo tentare di caratterizzare Einstein come uomo di scienza, non possiamo fare di meglio che citare ciò che egli diceva di se stesso: “Per un uomo del mio genere, l’essenziale sta nel fatto che io pensi e come pensi, e non in quello che abbia fatto e abbia sopportato”. Einstein fu un pensatore.
Se andiamo alla ricerca di espressioni capaci di esprimere in modo conveniente la nostra ammirazione per lui, non possiamo senza dubbio fare di meglio che applicare a lui le espressioni che a lui stesso venivano in mente per esprimere l’ammirazione che provava per i propri pari.
Parlando della maniera in cui Niels Bohr riuscì a creare la teoria dei quanti e a disincagliarla dall’impasse in cui la lasciavano le contraddizioni interne, inerenti non soltanto all’opera di Planck, ma persino ai suoi esiti meravigliosi: quanto di luce, effetto fotoelettrico, che Einstein aveva potuto dedurne, pur senza scoprire un modo di sostituire la meccanica classica difettosa, Einstein così si esprime:
“Che un punto di partenza così incerto e così contraddittorio sia stato sufficiente all’uomo di un istinto e di un intuito unici che è Bohr per scoprire le leggi fondamentali delle linee spettrali e dei fasci elettronici degli atomi, con tutte le loro conseguenze per la chimica, mi sembrava, e ancor mi sembra, un miracolo. È paragonabile alla vetta della musica nell’ambito del pensiero”.
Soltanto immagini di questo genere possono esprimere in maniera adeguata l’ammirazione che anche noi dobbiamo provare per l’opera di Einstein.
Einstein si è molto preoccupato del futuro della fisica. L’ha fatto con una punta di pessimismo, con il senso acuto di una critica ingeniosa ed esigente che ha mantenuto fino agli ultimi giorni.
Tale critica contribuirà sicuramente a porre le fondamenta dell’edificio della fisica di domani.
Quale sarà l’aspetto estetico di tale edificio, nessuno può indovinarlo. La storia continua e si ripete in un’infinità di variazioni.
Perché non attendere ancora il bambino che si meraviglierà di nuovo davanti a una bussola e ne dedurrà l’intuizione del mondo meraviglioso della fisica, nascosto – ben nascosto, dietro le cose; l’adolescente che trasalirà d’entusiasmo, tenendo stretto fra le mani il prezioso libriccino che gli trasmette il miracolo del pensiero greco; il collegiale che capace di capovolgere in tutti i sensi un paradosso apparantemente insolubile: lo studente, la cui curiosità scientifica sia sopravvissuta, o almeno si sia risvegliata, dopo la gravosa formazione universitaria?
E forse allora troverà anche le idee semplici che non vengono in mente a nessuno; introdurrà, attraverso la libera creazione dello spirito, nuovi concetti, di cui sarà capace di dedurre le conseguenze fino al loro splendido incontro con l’esperienza.
E allora la nostra fisica d’oggi avrà vissuto, sarà diventata storia, come lo è diventata l’opera di Newton prima di quella di Einstein.
E, senza dubbio, allora, questo fisico del futuro riprenderà con ammirazione, con fervore, queste espressioni che Einstein rivolgeva a Newton. Dirà: “Einstein, perdonami, tu hai scoperto la sola strada che alla tua epoca fosse proprio possibile per un uomo di pensiero sublime e creativo. I concetti che tu hai creati guidano e guideranno sempre la fisica stessa, sapendo che essi devono essere sostituiti da altri ancora più distanti dalla sfera dell’esperienza immediata, se vogliamo giungere a una comprensione più profonda dei loro rapporti”.
L’immagine che vi ho tracciata dell’opera di Einstein mi sembra assai incompleta. Eppure ritengo che essa sia veritiera e fedele, poiché mi sono sforzato, con gli inevitabili adattamenti, di conservare le espressioni stesse che Einstein ha impiegato per descriverla.
Concludo esprimendo la mia gioia per aver potuto apportare questo modesto contributo all’omaggio che noi rendiamo in questa giornata al fisico geniale che fu una delle glorie più pure della razza ebraica e uno degli spiriti più nobili dell’umanità.
(Traduzione dal francese di Paolo Zanna)
I miei incontri con Albert Einstein, di George Lemaître in Revue de Questions Scientifiques. Actualité, histoire et philosophie des sciences, 138 (1955), n.4, pp.475-487, ripubblicata in ibidem 183 (2012), n. 4, p. 528-540