In questo sermone, il settimo dei dieci tenuti in occasione del Natale, conosciuto anche per la presenza della nota esortazione “Agnosce christiane dignitatem tuam!”, prendendo spunto dal mistero dell’Incarnazione, papa san Leone Magno espone la dottrina cristiana sulla libertà individuale, condannando l’idolatria dei corpi celesti e le pratiche astrologiche.
La confessione delle due nature in Cristo
1. Dilettissimi, venera con pietà e con vero culto la festa di oggi colui che non giudica falsamente l'incarnazione del Signore, né crede alcuna cosa indegna della divinità. È male di uguale pericolo se si nega a Cristo la realtà della nostra natura o l'uguaglianza con la gloria del Padre.
Perciò, ora che ci applichiamo a comprendere il mistero della natività di Cristo, si scacci lontano la caligine dei terreni argomenti; il fumo della sapienza mondana si parta dagli occhi della fede illuminata, perché l'autorità a cui crediamo e la dottrina che teniamo è divina.
Infatti, quando noi applichiamo la nostra attenzione o alle testimonianze della legge o agli oracoli dei profeti o al messaggio del Vangelo sempre appare la verità di quel che san Giovanni, pieno di Spirito santo, ha cantato: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» [Gv 1,1-3], ed è ugualmente vero che lo stesso evangelista ha aggiunto: «E il Verbo si, fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, come d'Unigenito dal Padre» [Gv 1, 14].
In ambedue le nature è lo stesso Figlio di Dio, il quale assume quel che è nostro e non lascia quei che è suo. Nella umanità rinnova l'uomo e in se stesso resta immutabile. Da una parte la divinità, che egli ha in comune con il Padre, non ha patito nessun difetto di onnipotenza; dall'altra la natura di servo non ha violato la natura di Dio, perché la somma ed eterna essenza che si è abbassata per salvare il genere umano, ci ha trasportati nella sua gloria senza cessare di essere quel che era. Per questo quando l'Unigenito di Dio afferma che è inferiore al Padre e quando si dice a lui uguale, mostra in se stesso la realtà di ambedue le nature: quella umana prova l'inferiorità e quella divina mostra l'uguaglianza.
L'incarnazione e i suoi effetti
2. La corporea natività del Figlio di Dio nulla ha tolto alla maestà e nulla le ha aggiunto, perché la sostanza immutabile non può essere aumentata né diminuita. Che il Verbo si sia fatto carne non significa che la natura divina si sia mutata in carne, ma che la carne è stata assunta dal Verbo nella unità di persona. Per carne qui s'intende tutto l'uomo, al quale nel seno della Vergine, resa feconda dallo Spirito santo e mai priva della verginità, il Figlio di Dio si è congiunto così inseparabilmente che uno e identico è chi è nato nel tempo dalla Vergine e chi è generato, prima del tempo dalla essenza del Padre. Se non si fosse umiliato alla nostra condizione colui che è nella sua essenza onnipotente, non saremmo potuti essere liberati dalle catene della morte eterna.
Pertanto Gesù Cristo, nostro Signore, vero uomo e vero Dio, con la nascita operò in se stesso l'inizio di una nuova creazione e nella sua nascita diede al genere umano un principio spirituale. Così per abolire il contagio, contratto attraverso la generazione carnale, istituì la rigenerazione che avviene senza germe di peccato. E di questi rigenerati è detto che «non dal sangue, né da volere di carne né da volere dell'uomo, ma da Dio sono stati generati» [Gv 1, 13]. Quale mente è capace di comprendere questo mistero? Quale lingua è capace di predicare questa grazia? La iniquità è tornata innocenza, la vetustà novità. I lontani arrivano alla adozione; gli estranei fanno l'ingresso nella eredità. Da empi che erano cominciano a essere giusti, da avari benigni, da incontinenti casti, da terreni celesti. Donde questa mutazione se non dalla destra dell'Eccelso? Il Figlio di Dio, infatti, è venuto ad abolire le opere del diavolo [cfr. 1 Gv 3,8], e si è congiunto a noi e ha congiunto noi a se stesso in modo che il discendere di Dio alla condizione umana è stato l'innalzamento dell'uomo alla condizione divina.
Attenzione contro le tentazioni del diavolo
3. Dilettissimi, per questa misericordia di Dio, la cui ricchezza nei nostri riguardi non siamo capaci di comprendere, i cristiani debbono con molta sollecitudine stare attenti a non farsi accalappiare di nuovo dalle insidie del diavolo e a non cadere nuovamente nelle pastoie degli errori che hanno rinnegato. L'antico nemico, trasfigurandosi in angelo di luce [cfr. 2 Cor 11,14], non cessa mai di tendere ovunque i lacci dell'inganno e di insistere nella lotta per corrompere in qualche modo la fede dei credenti. Egli sa bene con chi usare la fiamma della cupidigia, a chi risvegliare le attrattive della gola, a chi opporre le sollecitazioni della lussuria, a chi infondere il virus dell'invidia. Egli sa bene chi turbare con la tristezza, chi ingannare con allegra spensieratezza, chi opprimere con lo spavento, chi sedurre con la stima mondana. Egli di tutti esamina le abitudini, ventila le cure, scruta gli affetti: cerca occasioni per nuocere lì dove ha visto qualcuno occupato con più impegno.
Purtroppo, tra quei che più tenacemente ha sottomesso, molti ne ha che sono abili nei suoi affari: di costoro egli usa l'ingegno e la lingua per ingannare gli altri. Per opera di questi egli promette i rimedi per le malattie, interpreta gli indizi delle cose future, garantisce l'acquietamento dei demoni e l'allontanamento dei fantasmi. A costoro bisogna aggiungere anche quelli che bugiardamente pretendono di far dipendere dall'influsso delle stelle tutto il corso della vita umana e dicono che appartiene al fato inevitabile quello che invece si deve far risalire alla volontà di Dio oppure alla volontà nostra. Ma non basta; essi, per doppiamente nuocere, promettono che il fato può essere mutato qualora le persone contrariate supplichino le stelle. Così la loro argomentazione viene intrinsecamente distrutta, perché se il destino non è immutabile, non deve essere temuto; se invece è immutabile, non si devono venerare gli astri.
4. Da tali errori viene fuori un'altra empietà, cioè di adorare, come fanno alcuni più stolti degli altri, il sole dagli alti luoghi, quando sorge all'inizio del giorno. Tanto è stimato religioso un comportamento simile che altresì alcuni cristiani, prima di entrare nella basilica di san Pietro apostolo, dedicata all'unico Dio, vivo e vero, dopo aver salito la scalinata che porta all'atrio superiore, si volgono verso il sole che nasce e piegando la testa si inchinano in onore dell'astro fulgente [1]. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto parte per ignoranza e parte per mentalità pagana. Infatti, anche se alcuni intendono venerare il Creatore della luce leggiadra, e non la luce stessa che è una creatura, devono astenersi da ogni apparenza di ossequio sì fatto, perché chi ha lasciato il culto degli dèi, qualora trovasse tra noi una simile usanza, potrebbe praticare, come incensurabile, questo elemento delle vecchie credenze, perché lo vede comune ai cristiani e agli infedeli.
Il retto uso delle creature
5. Questo errore è meritevole di condanna e va allontanato dalle abitudini dei fedeli, perché il culto dovuto soltanto a Dio non si deve frammischiare ai riti di quelli che venerano le creature. In proposito la divina Scrittura dice: «Adorerai il Signore Dio tuo e servirai lui solo [Mt 4, 10] e il beato Giobbe, « uomo perfetto e integro – come dice il Signore - timorato di Dio e lontano dal male» [Gb 1, 8] dice: «Se contemplai il sole che fulgeva e la luna che avanzava e fu sedotto in segreto il mio cuore, e mandai baci con la mano alla bocca: anche questo sarebbe un misfatto capitale poiché avrei rinnegato Dio che sta in alto» [Gb 31, 26-28].
Che cosa è il sole e che cosa è la luna se non sorgenti di luce creata, visibile e corporea? Il primo è di maggior splendore, l'altra di luce più tenue. Come vi è diversità tra il tempo del giorno e quello della notte, così il Creatore ha posto corpi celesti che illuminano con differenti proprietà. Bisogna però osservare che prima della creazione di queste sorgenti luminose vi sono stati tanto giorni senza il servizio del sole, quanto le notti senza l'opera della luna.
In seguito essi furono creati per rispondere a una necessità dell'uomo, affinché l'animale ragionevole non sbagliasse nel distinguere i mesi, nel riconoscere il ciclo degli anni, nel computare i tempi. Infatti, il sole è servito a indicare la disuguale durata delle ore nei diversi tempi [2]: ha sempre dato segni chiari con la sua nascita mirabile, e ha indicato gli anni. La luna invece ha indicato i nuovi mesi.
Per questo noi leggiamo che nel quarto giorno Dio ha detto: «Siano dei luminari nel firmamento del cielo per separare il giorno dalla notte, e siano come segni per distinguere le stagioni, i giorni e gli anni, e servano come luminari nel firmamento del cielo per dare la luce sopra la terra» [Gn 1, 14-15].
6. Destati, o uomo, e riconosci la dignità della tua natura. Ricordati che sei stato fatto a immagine di Dio [cfr. Gn 1, 26]; e se tale somiglianza è stata deformata in Adamo, è stata pure restaurata in Cristo. Perciò usa delle creature visibili nel modo che si devono usare.
Quando ti servi della terra, del mare, del cielo, dell'aria, delle fonti e dei fiumi volgi tutto a lode e a gloria del Creatore con quanto in queste creature è bello e mirabile. Non essere attaccato a quella luce di cui godono i serpenti e gli uccelli, le fiere e gli animali, le mosche e i vermi. Tocca pure con i sensi corporei la luce sensibile, ma abbraccia con tutto l'affetto della mente la luce vera che «illumina ogni uomo che è venuto nel mondo» [Gv 1, 9], della quale il profeta dice: «quelli che in essa si affissano, van lieti e i loro volti non arrossiranno» [Sal 33, 6].
Se, infatti noi siamo i templi di Dio e lo Spirito di Dio abita in noi [cfr. 1Cor 3, 16], è più prezioso quel che ogni fedele ha nella sua anima di quel che ammira nel cielo.
Dilettissimi, noi non intendiamo comandarvi o persuadervi di disprezzare le opere di Dio o di credere che qualcuno dei beni, creati dal buon Dio, ostacoli la vostra fede. Ma vi persuadiamo a usare ragionevolmente e con temperanza di qualunque creatura e di tutta la bellezza di questo mondo. Dice infatti l'Apostolo: «Le cose visibili passano con il tempo, le invisibili invece durano in eterno» [2Cor 4, 18]. Per questo noi che siamo nati alle cose presenti e rinati alle future, non dobbiamo dedicarci alle cose temporali, ma attendere a quel che è eterno.
E perché ci sia possibile guardare più da vicino la nostra speranza, meditiamo e pensiamo quel che la divina grazia nel mistero della natività del Signore ha concesso alla nostra natura. Ascoltiamo l'Apostolo che dice: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Ma quando comparirà Cristo, che è la vostra vita, allora anche voi apparirete nella gloria con lui»[Col 3, 3-4], il quale vive e regna con il Padre e lo Spirito santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
[1] San Leone dice che questa consuetudine è stata presa, parte per ignoranza, parte per mentalità pagana, fomentata dalla venerazione che i manichei e i priscillianisti rendevano alle stelle. Tuttavia il santo pontefice affermava anche che alcuni s'inchinano al sole intendendo di adorare Dio. Per costoro questa pratica deriva dall'antico uso dei cristiani di pregare con la faccia rivolta al sole che sorge. Specialmente in sul punto di essere battezzati, i catecumeni prima si volgevano all'occidente rinnegando satana, poi, voltatisi all'oriente, salutavano e adoravano Cristo. Perché san Leone ricorda che questa pratica si osserva nella basilica di san Pietro? Il motivo è semplice. Le altre basiliche erano rivolte comunemente all'oriente e non era necessario ai fedeli, che entravano, di voltarsi indietro. La basilica di san Pietro invece guardava verso l'occidente, perciò i fedeli che avevan l'uso di pregare rivolti all'oriente, erano costretti a volgersi indietro prima di entrare nella basilica. San Leone non riprende l'antico uso dei cristiani, ma non lo crede più opportuno, perché molti ignoranti credevano d adorare veramente il sole.
[2] Nel calendario romano le ore erano distribuite in numero fisso tante di giorno quante di notte. La loro durata mutava secondo le stagioni: d'inverno le ore diurne erano più corte e quelle notturne più lunghe; d'estate invece avveniva il contrario: le ore diurne erano più lunghe e quelle notturne più brevi.
Sermone XXVII, PL 54; tr. it. Il mistero del Natale, a cura di Andrea Valeriani, Paoline, Roma 1983, pp. 97-103.