Esiste un luogo sulla terra o in “cielo” in cui l’uomo non sia schiacciato ed oppresso dalla tecnologia? Esistono ambiti e dimensioni che caratterizzano la vita dell’uomo che non lo costringano ad una esistenza all’interno di una struttura sociale di cui è solo comparsa? Sono due delle domande, raffiguranti altrettante immagini, tra le tante, che l’opera di Serge Latouche fa emergere e pone a cardine di un’ampia riflessione su quella che è la rappresentazione odierna del mondo in piena globalizzazione. Le risposte che l’autore dà sono negative. In questo volume l’A. fa emergere come la contraddizione dello sviluppo sostenibile sia in realtà uno slittamento tematico volto a garantire all’Occidente la possibilità di dominio su tutto il genere umano. La questione che Latouche pone è semplice: o esiste lo sviluppo oppure non esiste. In questa visione manichea della realtà, che pone come opzioni o la tecnolatria o la tecnofobia, Latouche propone come unica difesa e via di uscita la cultura, unica prospettiva entro cui si possa ammortizzare ed arginare un mondo che sembra ormai orientato alla fine. Non una cultura figlia delle ideologie (da quella marxista a quella socialista, da lui definita sottoprodotto del progresso), ma tradizionale e locale, che diviene fonte di educazione e di visione umana del rapporto tra uomo e mondo, generando quella “ragionevolezza” capace di arginare le derive del tecnicismo economico. Ampia e vasta è la esemplificazione sociologica ed antropologica portata per descrivere la situazione del mondo globalizzato, e chiara ne è la responsabilità asssociata all’origine culturale europea (Bacone soprattutto, ma anche Cartesio, passando per Marx). Riteniamo tuttavia che la soluzione proposta dall’A. resti poco efficace, almeno nei modi in cui essa viene prospettata: una cultura “isolata”, che sia quella dei Lele del Kasai o dei Quechua peruviani, non sembra poter svolgere il ruolo di “granelli di sabbia sempre più numerosi [che] minacciano di rompere tutto proprio per via della macchinazione del sociale” (p. 129). Resta il merito a Latouche di non arrendersi, a differenza di altri studiosi come Ellul, di fronte a quella che sembra la deriva di un mondo sempre più aggrovigliato ed agglutinato da una realtà che richiede ormai un’irrinunciabile sforzo di orientamento etico ed umano.