Si tratta di un saggio attraente, rivolto ad un pubblico ampio. Michela Nacci, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università dell’Aquila, si pone in questo testo l’obbiettivo di spiegare come è stata percepita e interpretata la tecnica dagli intellettuali del Novecento. Nella prefazione del libro, Gianni Vattimo afferma che «il problema della tecnica non è un problema tra gli altri, sia pure importante, delle riflessioni del Novecento, ma è il tema dominante, per lo più esplicito ma presente anche là dove non appare, di tutta la riflessione e della cultura del secolo». L’A. si sofferma sui maggiori filosofi e scrittori che l'hanno tematizzata o comunque ne hanno discusso, da Spengler ad Heidegger, da Hannah Arendt a Mumford, da Wells a Orwell, da Horkheimer ad Adorno e a Lyotard: vengono indagati la sociologia del primo Novecento e la fantascienza, la cultura della crisi, la grande narrativa e le utopie negative. Facendo propria la tesi di Heidegger che «l’essenza della tecnica non sia qualcosa di tecnico», gli intellettuali del Novecento vi hanno cercato un’essenza. Ma la tesi dell’A. è che «salvo poche eccezioni, la filosofia ha interpretato la tecnica in modo distorto, deformato: ne ha fatto il demiurgo onnipotente che può tutto in ogni situazione». Michela Nacci sostiene, con argomenti spesso convincenti, che gli intellettuali del Novecento «non hanno capito la tecnica», e che sopra di essa hanno creato una gran quantità di equivoci e fraintendimenti. Un tema centrale è poi il rapporto fra tecnica e politica: da un lato infatti la tecnica è stata considerata strettamente connessa all'idea di democrazia, dall'altra è stata vista come l'incarnazione di un totalitarismo aggiornato con i tempi