Il professor Langdon Gilkey è stato un professore di Teologia presso la Divinity School dell’Università di Chicago, e ha tenuto le lezioni da cui prende spunto questo volume all’interno delle Deems Lectures, una serie di lezioni dedicate al Rev. Charles Force Deems da parte dell’American Institute of Christian Philosophy.
I tre capitoli in cui si articola il testo, tratti dalle lezioni del 1967, sono dedicati rispettivamente a The Influence of Science on Recent Theology, Religious Dimensions in Science, e The Uses of Myth in a Scientific Culture, a cui si aggiunge poi un Epilogo dal titolo Myth, Philosophy, and Theology.
Nel primo capitolo affronta il tema dell’influenza esercitata dalla scienza sulla teologia, che, sostiene, è stata determinante nel far emergere le questioni teologiche più interessanti ma allo stesso tempo «potenzialmente devastanti». La tesi sostenuta dall’autore è che i maggiori cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi secoli nella comprensione della verità religiosa sono stati causati da alcuni risultati scientifici più che da ogni altro cambiamento culturale. Il cambiamento a cui si riferisce Gilkey nella percezione delle verità di fede ha portato queste ultime ad essere viste non più come proposizioni contenenti “informazioni” divinamente rivelate, ma come un sistema di simboli che non possono fare affermazioni fattuali. Negli ultimi secoli il linguaggio mitico della religione ha abbandonamento la pretesa di poter fare affermazioni sui fatti, posizionandosi come “puro mito”. Il primo capitolo si conclude con la constatazione che la scienza degli ultimi tempi sembrava negare la verità di alcuni insegnamenti religiosi, affermando che non potevano essere integrati nelle scienze rimanendo validi, né allontanarsi da esse restando significativi.
Nel secondo capitolo invece l’autore esamina gli aspetti religiosi che egli rinviene all’interno dell’ambito delle scienze, con lo scopo di proporre nuovi modi di comprendere il discorso religioso all’interno del mondo scientifico. Egli individua questi aspetti religiosi nei caratteri più spiccatamente umani dell’impresa scientifica, per cui conclude affermando che il linguaggio religioso e i suoi simboli hanno un fondamento nell’esperienza di finalità (ultimacy), che si rivela nella passione scientifica, nelle strutture teoriche della scienza e nella capacità di giudizi razionali. Afferma in proposito il nostro autore: «sono questi gli aspetti umani della scienza, che la rendono un magnifico e creativo prodotto dell'attività razionale propria dell'uomo, testimoniando così la percezione dei fondamenti, la relazione con un valore incondizionato, con l'ordine, con la certezza e con il nostro essere più di ciò che facciamo». Con ciò l'autore non intende che questa dimensione "ultima" indichi una nozione di Dio, non avendo elementi sufficienti per giustificare l'applicazione di questo simbolo. Eppure, anche questa nozione, che è fra i più creativi della nostra cultura secolare, è fondato al di là di sé stesso in un Fondamento, che solo un linguaggio simbolico appropriato a quella dimensione potrebbe tematizzare.
Nel terzo capitolo invece l’autore si sofferma sull’uso del mito nella cultura scientifica, in cui sostiene che lo specifico linguaggio del mito, e dunque un linguaggio religioso, non solo è inevitabile, ma anche essenziale per affrontare in modo creativo i problemi che emergono nella cultura scientifica. La modernità non ha dunque intaccato la necessità di un discorso mitico, che la teologia ha ereditato e su cui ha posto le sue fondamenta, anche se ad un primo sguardo il linguaggio religioso e dunque teologico sembrano totalmente separati da ogni collegamento concreto con la realtà. Eppure, ad un livello più profondo, se ne coglie la continuità.