«Ogni universo fiorisce nella sua epoca come una struttura organica del pensiero, autonoma e tale da apparire degna di rispetto, ma ha come destino quello di essere negato, superato da un’altra e più ampia struttura». Così Edward Harrison, professore di Fisica e Astronomia all’Università del Massachusetts (USA) presenta il suo testo che, in particolare nella prima parte, ripercorre agilmente i diversi modelli di universo e le cosmologie che sono stati “costruiti” nella storia. Inizialmente quelli elaborati dai “sapienti”, dai filosofi e poi dagli scienziati, a partire dalle più antiche civiltà (l'universo “magico” dei primitivi, l'universo “mitico” delle antiche civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’Indo e dello Zoroastrismo persiano, fino a quello “geometrico” pitagorico, ionico e aristotelico); poi i modelli sviluppati in epoca medioevale (anche da studiosi come Dante) e rinascimentale, che hanno permesso le prime evoluzioni scientifiche in direzione dei modelli di universo “infinito” newtoniano e “meccanicistico”, formulati nei XVIII-XIX secoli. Nella seconda parte l’A. si sofferma invece sulla cosmologia attuale (teoria relativistica e fisica quantistica), cercando di sottolinearne i punti che in realtà sembrano riflettere temi antichi, considerati fino a poco tempo fa superati e inutili (la stessa teoria del big bang o alcune teorie sui buchi neri), e offrendo così prove della provvisorietà e della scarsa affidabilità delle teorie cosmologiche. L’Universo in quanto tale è e rimarrà sconosciuto all’uomo, un mistero che nessuna teoria cosmologica, per quanto scientificamente avanzata, riuscirà mai a svelare nella sua realtà tanto complessa quanto meravigliosa. Seguendo quanto Popper e Minkowski in primis hanno sostenuto, seguiti poi da filosofi della scienza quali Kuhn o Lakatos, che la scienza umana non potrà mai cogliere l’essenza ultima delle cose e l’uomo potrà dunque solo, di epoca in epoca, “creare” una propria visione, coerente con le conoscenze possedute e in armonia con il suo modo di vivere, che sarà poi inevitabilmente “falsificata” da una visione successiva, secondo una sorta di “selezione naturale”. Nella parte finale di Maschere dell’Universo, l’A. inserisce nel dibattito un'ulteriore questione, di non secondaria importanza, che porta a nuovi e più complessi interrogativi: «Che cosa determina – chiede l’astronomo – il progetto di un certo universo? […] È l’universo stesso, oppure Dio, o il caso, o la mente dell’uomo?». La risposta è la seguente: «L’universo e Dio sono sconosciuti; sono entrambi inconcepibili e omni-inclusivi». Dunque la stessa formulazione di una “maschera dell’universo” è determinata dalla visione del mondo che l’uomo ha, o più precisamente che il suo apparato cognitivo gli permette di avere; sono dunque elementi fondamentali e costitutivi nello sviluppo di una cosmologia, e della scienza tutta più in generale, il funzionamento del cervello e il suo rapporto con la mente, il rapporto mente-corpo, la coscienza dell’uomo e tutta la sfera privata delle emozioni, dei sentimenti, dei sogni… La conclusione dell’A. è che «si possono seguire due sentieri: uno è quello delle società e dei relativi universi; l’altro è quello degli individui con le loro Weltanschauungen […]; ogni universo raccoglie un ammasso di visioni del mondo individuali in una unità sociale». La prospettiva finale dell’A. è che, nonostante l’universo e tutta la realtà siano a noi mascherate per sempre, non si può comunque giungere a dubitare della realtà perché altrimenti dovremmo dubitare della nostra stessa realtà, in quanto parte della realtà mascherata.