Brani tratti da organismi della Santa Sede o dal Magistero della Chiesa, di importante valore documentale, che illustrano aspetti di interesse per il rapporto fra esegesi biblica e scienza naturali. Alcuni dei documenti proposti risentono del linguaggio e dell’epoca della loro redazione, ma nel loro insieme individuano linee di orientamento che guidano ancora oggi il lavoro del teologo.
Pontificia Commissione Biblica, 30 giugno 1909
Risposte sul carattere storico dei primi tre capitoli della Genesi
V. Bisogna sempre e necessariamente prendere in senso proprio tutte e singole le parole e le frasi che si incontrano nei suddetti capitoli, così che non è mai permesso allontanarsene, anche quando le medesime espressioni appaiano utilizzate in un senso manifestamente improprio, metaforico o antropomorfico così che la ragione impedisce di sostenere il senso proprio o la necessità obbliga ad abbandonarlo?
Risposta: No.
VI. Presupposto il senso letterale e storico, si può sapientemente e utilmente utilizzare una interpretazione allegorica e profetica per alcuni passi di quei capitoli, secondo l'esempio illustre dei santi padri e della chiesa stessa?
Risposta: Sì.
VII. Siccome scrivendo il primo capitolo della Genesi, l'autore sacro non ha avuto l'intenzione di insegnare scientificamente la costituzione intima delle cose visibili e l'ordine completo della creazione, ma piuttosto ha voluto dare alla sua gente un racconto popolare conforme al linguaggio comune dei suoi contemporanei, e adattato ai sentimenti e alla capacità degli uomini, è necessario cercarvi scrupolosamente e sempre la proprietà del linguaggio scientifico?
Risposta: No.
VIII. Nella denominazione e nella distinzione dei sei giorni di cui parla la Genesi nel primo capitolo, si può prendere la parola yóm (giorno) sia nel senso proprio di giorno naturale, sia nel senso improprio di un certo spazio di tempo, ed è lecito agli esegeti disputare liberamente di questa questione?
Risposta: Sì.
Pontificia Commissio De Re Biblica, Responsa de charactere historico trium priorum capitum Geneseos, 30 iunii 1909: AAS 1 (1909), pp. 567-569; tr. it. Enchiridion Biblicum, Dehoniane Bologna 1993, pp. 307-311.
Leone XIII, Provvidentissimus Deus, 18 novembre 1893
Nessuna vera contraddizione potrà interporsi tra il teologo e lo studioso delle scienze naturali, finché l'uno e l'altro si manterranno nel propri confini, guardandosi bene, secondo il monito di sant'Agostino di "non asserire nulla temerariamente, né di presentare una cosa certa come incerta" [S. Augustinus, De Gen.aAd litt. imperfectus liber, IX, 30: CSEL 28 (sect.3, pars 2); PL34, 233]. Se poi vi fosse qualche dissenso, lo stesso santo dà sommariamente le regole del come debba comportarsi in tali casi il teologo: "Tutto ciò che i fisici, riguardo alla natura delle cose, potranno dimostrare con documenti certi, è nostro compito provare non essere nemmeno contrario alle nostre Lettere; ciò che poi presentassero nei loro scritti di contrario alle nostre Lettere e cioè contrario alla fede cattolica, o dimostriamo con qualche argomento essere falso ciò che asseriscono o crediamolo falso senza alcuna esitazione [S. Augustinus, De Gen. ad litt., I, 21, 41: CSEL 28 (sect.3, pars 2), 31; PL34, 262]". Per comprendere quanto sia giusta questa regola, notiamo in primo luogo che gli scrittori sacri, o più giustamente "lo Spirito di Dio che parlava per mezzo di essi, non intendeva ammaestrare gli uomini su queste cose (cioè sull'intima costituzione degli oggetti visibili), che non hanno importanza alcuna per la salvezza eterna" [S. Augustinus, ibid., II, 9, 20: CSEL 28 (sect.3, pars 2), 46; PL34, 270], per cui essi più che attendere direttamente all'investigazione della natura, descrivevano e rappresentavano talvolta le cose con una qualche locuzione metaforica, o come lo comportava il modo comune di parlare di quei tempi ed ancora oggi si usa, riguardo a molte cose, nella vita quotidiana, anche tra uomini molto colti. Dato che nel comune linguaggio viene espresso in primo luogo e propriamente ciò che cade sotto i sensi, così anche lo scrittore sacro (e come ci avverte anche il dottore angelico) "si attenne a ciò che appare ai sensi" [S. Thomas Aquinas, S. Th., I, q. 70, a. 1 ad 3], ossia a ciò che Dio stesso, parlando agli uomini, espresse in modo umano per farsi comprendere da essi.
Dicendo che la difesa della sacra Scrittura deve essere condotta strenuamente, non ne segue che si debbano ugualmente sostenere tutte le sentenze che i singoli padri e successivamente gli interpreti affermano nello spiegarla, in quanto essi, date le opinioni del tempo, nell'interpretare i passi in cui si tratta di cose fisiche non sempre forse giudicarono secondo la verità oggettiva, di modo che alcune interpretazioni allora proposte, ora sono meno accettabili. Occorre perciò distinguere diligentemente quali siano di fatto le interpretazioni che essi tramandarono come spettanti alle cose di fede o strettamente connesse con essa; quali poi siano state tramandate con unanime consenso, poiché infatti "nelle cose che non sono di necessità di fede fu lecito ai santi, come anche a noi, pensare in modo diverso", secondo la sentenza di san Tommaso [S. Thomas Aquinas, In II Sent., d.2, q.1 a. 3]. Il quale in altro luogo molto prudentemente avverte: "Mi sembra cosa più sicura riguardo alle opinioni comunemente ammesse dai filosofi e che non ripugnano alla nostra fede, non asserirle come dogma di fede, anche se introdotte talvolta sotto il nome dei filosofi, ma neppure negarle come contrarie alla fede, per dar occasione ai sapienti di questo mondo di disprezzare la dottrina della fede [S. Thomas Aquinas, Opusc., 10: Responsio ad Fr. Ioannem Vercellensem Generalem Magistrum Ordinis Praedicatorum de articulis 42, R.A. Verardo, S. Thomae Aquinatis opuscola theologica, Taurini, 2 voll., 1954, I, 211]". Quantunque sia certamente compito dell'interprete dimostrare che le cose proposte come certe per mezzo di argomenti certi dagli studiosi di scienze naturali non contraddicono affatto le Scritture, se rettamente spiegate, non deve tuttavia sfuggire all'interprete questo fatto e cioè che talora avvenne che alcune cose date come certe furono poi poste in dubbio e quindi ripudiate. Che, se poi gli scrittori di scienze naturali, oltrepassati i confini della propria disciplina, invadessero con errate opinioni il campo della filosofia, l'interprete teologo domandi ai filosofi di confutarle.
[...]
Affinché poi tali pratiche giovino davvero alla scienza biblica, occorre che i dotti stiano ben ancorati a quelle norme da noi sopra stabilite come principi, e che fedelmente ritengano che Dio, creatore e rettore di tutte le cose, è lo stesso autore delle Scritture, e che perciò nulla può ricavarsi dalla natura delle cose, nulla dai documenti della storia che realmente sia in contraddizione con le Scritture. Che, se qualche cosa sembrasse inaccettabile, bisogna diligentemente chiarirla, sia servendosi del sapiente giudizio dei teologi e degli interpreti sul significato più preciso o verosimile del passo della Scrittura in discussione, sia vagliando con più diligenza a forza degli argomenti addotti contro tale passo. Né bisogna desistere dalla ricerca fino a che rimanga ancora una qualche apparenza di opposizione. Infatti, non potendo in alcun modo la verità contraddire la verità, siamo certi che ciò avviene perché si è incorsi in errore o nell'interpretazione delle sacre parole o in qualche parte della disputa. Se nessuna delle due cose appare ancor chiaramente, bisognerà frattanto tener sospeso il giudizio. Molte cose infatti di ogni ramo delle scienze che per lungo tempo furono oggetto di grande opposizione contro la Scrittura, ora sono cadute come vuote; parimenti non poche cose di certi passi scritturali, non riguardanti precisamente la fede e i costumi, furono un tempo proposte nell'interpretazione, di cui poi più rettamente poté giudicare una più acuta investigazione. Il tempo infatti cancella sì i commenti delle varie opinioni, ma "la verità rimane e conserva il suo valore in eterno" [3Esd 4,38]. E perciò, come non vi è alcuno che possa vantare di conoscere nel preciso senso tutte le Scritture, nelle quali lo stesso sant'Agostino confessava essere più le cose che non conosceva di quelle che conosceva [S. Augustinus, Epist. 55 ad Ianur.,21[38] ], così se qualcuno si imbatterà in qualche passo troppo difficile per essere chiaramente spiegato, prenda come norma quella circospetta moderazione dello stesso dottore: "É meglio lasciarsi avvicinare da incognite ma salutari parole che, volendo inutilmente interpretarle, liberare la testa dal giogo di servitù per incatenarla tra i lacci dell'errore" [S. Augustinus, De doctr. christ., 3, 9, 13: H. Vogels, S. Aurelii Augustini episcopi Hipponensis de doctrina christiana ..., Bonnae 1930, 53; PL34, 71].
tr. it. Enchiridion Biblicum, Dehoniane Bologna 1993, pp. 177-189.
Benedetto XV, Spiritus Paraclitus, 15 settembre 1920
Ora l'opinione di alcuni moderni non si preoccupa affatto di queste prescrizioni e di questi limiti: distinguendo nella Sacra Scrittura un duplice elemento, uno principale o religioso, e uno secondario o profano, essi accettano, si, il fatto che l'ispirazione si riveli in tutte le proposizioni ed anche in tutte le parole della Bibbia, ma ne restringono e ne limitano gli effetti, a partire dall'immunità dall'errore e dall'assoluta veracità, limitata al solo elemento principale o religioso. Secondo loro, Dio non si preoccupa e non insegna personalmente nella Scrittura se non ciò che riguarda la religione: il resto ha rapporto con le scienze profane e non ha altra utilità, per la dottrina rivelata, che quella di servire da involucro esteriore alla verità divina. Dio soltanto permette che esso vi sia e l'abbandona alle deboli facoltà dello scrittore. Perciò non vi è nulla di strano se la Bibbia presenta, nelle questioni fisiche, storiche e in altre di simile argomento, passaggi piuttosto frequenti che non è possibile conciliare con gli attuali progressi delle Scienze. Alcuni sostengono che queste opinioni erronee non sono affatto in contrasto con le prescrizioni del nostro predecessore: non ha forse egli dichiarato che, in materia di fenomeni naturali, l'autore sacro ha parlato secondo le apparenze esteriori, suscettibili quindi d'inganno?
Quanto questa affermazione sia temeraria e menzognera, lo provano manifestamente i termini stessi del documento pontificio. L'apparenza esteriore delle cose — ha dichiarato molto saggiamente Leone XIII, seguendo Sant'Agostino e San Tommaso d'Aquino — deve essere tenuta in una certa considerazione; ma questo principio non può suscitare il minimo sospetto di errore nella Sacra Scrittura: poiché la sana filosofia asserisce come cosa sicura che i sensi, nella percezione immediata delle cose, oggetto vero di conoscenza, non si ingannano affatto. Inoltre il Nostro Predecessore, dopo aver negato ogni distinzione e ogni possibilità di equivoco tra quello che è l'elemento principale è l'elemento secondario, dimostra chiaramente il gravissimo errore di coloro i quali ritengono che "per giudicare della verità delle proposizioni bisogna senza dubbio ricercare ciò che Dio ha detto, ma più ancora valutare il motivo che lo ha indotto a parlare". Leone XIII precisa ancora che l'ispirazione divina è presente in tutte le parti della Bibbia, senza selezione né distinzione alcuna, e che è impossibile che anche il minimo errore si sia introdotto nel testo ispirato: "Sarebbe un errore molto grave restringere l'ispirazione divina solo a determinate parti della Sacra Scrittura, o ammettere che l'autore sacro stesso abbia potuto ingannarsi".
E non sono meno discordi dalla dottrina della Chiesa, confermata dall'autorità di San Gerolamo e degli altri Padri, quelli che ritengono che le parti storiche delle Scritture si appoggiano non sulla verità "assoluta" dei fatti, ma soltanto sulla loro "verità relativa", come essi la chiamano, e sul modo volgarmente comune di pensare. Per sostenere questa teoria, essi non temono di richiamarsi alle stesse parole del Papa Leone XIII, il quale avrebbe affermato che i principi ammessi in materia di fenomeni naturali possono essere portati in campo storico. Come nell'ordine fisico gli scrittori sacri hanno parlato seguendo le apparenze, cosi — essi pretendono — quando si trattava di riportare avvenimenti non perfettamente noti, li hanno riferiti come apparivano fissati secondo l'opinione comune del popolo o le relazioni inesatte di altri testimoni; inoltre essi non hanno citato le fonti delle loro informazioni, e non hanno garantito personalmente le narrazioni attinte da altri autori.
A che confutare più a lungo una teoria veramente ingiuriosa per il Nostro Predecessore e nello stesso tempo falsa e piena di errore? Quale rapporto, infatti, vi è tra i fenomeni naturali e la storia? Le scienze fisiche si occupano di oggetti che colpiscono i sensi e devono quindi concordare con i fenomeni come essi appaiono; la storia invece, narrazione di fatti, deve — ed è questa la sua legge principale — coincidere con questi fatti, come realmente si sono verificati. Se si accettasse la teoria di costoro, come sarebbe possibile conservare alla narrazione sacra quella verità, immune da ogni falsità, che come il Nostro Predecessore dichiara in tutto il contesto della sua enciclica, non si deve affatto menomare?
Che anzi, quando egli afferma che v'è interesse a trasportare nella storia e nelle scienze affini i principi che valgono per le scienze fisiche, non intende stabilire una legge generale e assoluta, ma indicare semplicemente un metodo uniforme da seguire, per confutare le obiezioni fallaci degli avversari e difendere contro i loro attacchi la verità storica della Sacra Scrittura.
tr. it. Enchiridion Biblicum, Dehoniane Bologna 1993, pp. 435-439.
Pio XII, Humani Generis, 12 agosto 1950
Rimane ora da parlare di quelle questioni che, pur appartenendo alle scienze «positive», sono più o meno connesse con le verità della fede cristiana. Non pochi chiedono instantemente che la religione cattolica tenga massimo conto di quelle scienze. Il che è senza dubbio cosa lodevole, quando si tratta di fatti realmente dimostrati; ma bisogna andar cauti quando si tratta piuttosto di ipotesi, benché in qualche modo fondate scientificamente, nelle quali si tocca la dottrina contenuta nella Sacra Scrittura o anche nella «tradizione». Se tali ipotesi vanno direttamente o indirettamente contro la dottrina rivelata, non possono ammettersi in alcun modo.
Per queste ragioni il Magistero della Chiesa non proibisce che in conformità dell'attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina dell'evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull'origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente da Dio). Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all'evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede [Cfr. Allocuzione Pont. ad membra Academia Scientiarum, 30.11.1941: AAS. Vol. 33 (1941), 506]. Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e ciò come se nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela.
Però quando si tratta dell'altra ipotesi, cioè del poligenismo, allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. I fedeli non possono abbracciare quell'opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra veri uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l'insieme di molti progenitori; non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio [cfr. Rm 5, 12-19; Conc. Tridentinum, sess. V, cann. 1-4:COD666s].
Come nelle scienze biologiche ed antropologiche, cosi pure in quelle storiche vi sono coloro che audacemente oltrepassano i limiti e le cautele stabilite dalla Chiesa. In modo particolare si deve deplorare un certo sistema di interpretazione troppo libera dei libri storici del Vecchio Testamento; i fautori di questo sistema, per difendere le loro idee, a torto si riferiscono alla Lettera che non molto tempo fa è stata inviata all'arcivescovo di Parigi dalla Pontificia Commissione per gli Studi Biblici [16.1.1948; AAS 40 (1948), 45-48; EB577-581]. Questa lettera infatti fa notare che gli undici primi capitoli del Genesi, benché propriamente parlando non concordino con il metodo storico usato dai migliori autori greci e latini o dai competenti del nostro tempo, tuttavia appartengono al genere storico in un vero senso, che però deve essere maggiormente studiato e determinato dagli esegeti; i medesimi capitoli — fa ancora notare la lettera — con parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell'origine del genere umano e del popolo eletto.
Se qualche cosa gli antichi agiografi hanno preso da narrazioni popolari (il che può essere concesso), non bisogna mai dimenticare che hanno fatto questo con l'aiuto dell'ispirazione divina, che nella scelta e nella valutazione di quei documenti li ha premuniti da ogni errore.
Quindi le narrazioni popolari inserite nelle Sacre Scritture non possono affatto essere poste sullo stesso piano delle mitologie o simili, le quali sono frutto più di un'accesa fantasia che di quell'amore alla verità e alla semplicità che risalta talmente nei Libri Sacri, anche del Vecchio Testamento, da dover affermare che i nostri agiografi sono palesemente superiori agli antichi scrittori profani.
tr. it. Enchiridion Biblicum, Dehoniane Bologna 1993, pp. 653-657.
Pontificia Commissione Biblica, Sulla verità storica dei vangeli, 21 aprile 1964
Cristo Signore si scelse dei discepoli [cf. Mc 3,14; Lc 6,13], i quali lo seguirono fin dall'inizio [cf. Lc 1,2; At 1,21-22], ne videro le opere, ne udirono le parole e furono così in grado di divenire testimoni della sua vita e del suo insegnamento [cf.Lc 24,48; Gv 15,27; At 1,8; 10,39; 13,31]. Il Signore, nell'esporre a voce il suo insegnamento seguiva le forme di pensiero e di espressione allora in uso, adattandosi per tale modo alla mentalità degli uditori e facendo sì che quanto egli insegnava si imprimesse fermamente nella loro mente e potesse essere ritenuto con facilità dai discepoli. I quali intesero bene i miracoli e gli altri eventi della vita di Gesù come fatti operati e disposti allo scopo di muovere alla fede nel Cristo e di farne abbracciare con la fede il messaggio di salvezza.
Gli apostoli annunziavano anzitutto la morte e la resurrezione del Signore, dando testimonianza a Gesù [cf. Lc 24,44-48; At 2,32; 3,15; 5,30-32], di cui riferivano con fedeltà episodi biografici e detti [cf. At10,36-41], tenendo presenti nella loro predicazione le esigenze dei vari uditori [cf. At 13,16-41; At 17,22-31]. Dopo che Gesù risuscitò dai morti e la sua divinità apparve in modo chiaro [ At 2, 36; Gv 20,28], non solo la fede fece dimenticare la memoria degli avvenimenti, ma anzi la consolidò, poiché quella fede si fondava su ciò che Gesù aveva fatto e insegnato [ At 2,22; 10,37-39]. A causa del culto con cui poi i discepoli onoravano Gesù come Signore e Figlio di Dio, non si verificò una sua trasformazione in persona “mitica”, né una deformazione del suo insegnamento. Non è tuttavia da negarsi che gli apostoli abbiano presentato ai loro uditori quanto Gesù aveva realmente detto e operato con quella più piena intelligenza da essi goduta [cf. Gv 14,26; 16,13] in seguito agli eventi gloriosi del Cristo e alla illuminazione dello Spirito di verità [ Gv 2,22; 12, 16; 11,51-52, cf. 14,26; 16,12-13; 7,39]. Ne deriva che, come Gesù stesso dopo la Sua resurrezione “interpretava loro” [ Lc 24,27] le parole sia del vecchio testamento come le sue proprie, [cf. Lc 24,44-45; At 1,3] così essi ne spiegarono i fatti e le parole secondo le esigenze dei loro uditori. “Costanti nel ministero della parola” [ At 6,4], predicarono con modi di esporre adatti al loro fine specifico e alla mentalità degli uditori; poiché erano debitori [ Rom 1,14] “ai greci e ai barbari, ai sapienti e agli ignoranti” [1 Cor 9, 19-23]. Questi modi di esporre, usati nella predicazione avente per il tema il Cristo, vanno individuati ed esaminati: catechesi, narrazioni, testimonianze, inni, dossologie, preghiere e altri simili forme letterarie, che compaiono nella sacra scrittura ed erano in uso fra gli uomini di quella età.
Codesta istruzione primitiva fatta dapprima oralmente e poi messa per iscritto — difatti subito avvenne che molti si provassero “a ordinare la narrazione dei fatti” [cf. Lc 1,1] che riguardavano il Signore Gesù — gli autori sacri la consegnarono nei quattro vangeli per il bene della Chiesa, con un metodo corrispondente al fine che ognuno si proponeva. Fra le molte cose tramandate, ne scelsero alcune; talvolta compirono una sintesi, tal'altra, badando alla situazione delle singole chiese, svilupparono certi elementi cercando con ogni mezzo che i lettori conoscessero la fondatezza di quanto veniva loro insegnato [cf.Lc 1,4]. Invero fra tutto il materiale di cui disponevano, gli agiografi scelsero in modo particolare ciò che era adatto alle varie condizioni dei fedeli e al fine che si proponevano, narrandolo in modo da venire incontro a quelle condizioni e a quel fine. Dipendendo il senso di un enunciato dal contesto, quando gli evangelisti nel riferire i detti e i fatti del Salvatore presentano contesti diversi, è da pensare che ciò fecero per utilità dei lettori. Perciò l'esegesi ricerchi quale fosse l'intenzione dell'evangelista nell'esporre un detto o un fatto in un dato modo o in un dato contesto. Invero, non va contro la verità del racconto il fatto che gli evangelisti riferiscano i detti e i fatti del Signore in ordine diverso [cf. s. Giovanni Cris., In Mat. Hom .. I, 3: PG 57,16-17], e ne esprimano i detti non alla lettera, ma con qualche diversità, conservando il loro senso [cf. s. Agostino, De Consensu Evang ., 2, 12, 28: PL 34, 1090-1091]. Dice infatti s. Agostino: “È probabile che ogni evangelista si sia creduto in dovere di narrare con quell'ordine che Dio volle suggerire alla sua memoria quelle cose che narrava: ciò vale riguardo a quelle cose nelle quali l'ordine, qualunque esso sia, nulla toglie all'autorità e alla verità evangelica. Perché poi lo Spirito santo distribuendo i suoi doni a ciascuno come gli pare [ 1Cor 12,11], e perciò anche governando e dirigendo la mente dei santi destinati a un così alto culmine di autorità, nel richiamare le cose da scriversi, abbia permesso che ognuno disponesse il racconto a modo suo, chiunque cerchi con pia diligenza lo potrà scoprire con l'aiuto divino” [ De Consensu Evang ., 2, 21,51ss.: PL 34, 1102].
Se l'esegeta non porrà mente a tutte queste cose che riguardano l'origine e la composizione dei vangeli e non farà il debito uso di quanto di buono gli studi recenti hanno apportato , non adempirà il suo uffizio di investigare quale fosse l'intenzione degli autori sacri e che cosa abbiano realmente detto. Dai nuovi studi risulta che la vita e l'insegnamento di Gesù non furono semplicemente riferiti col solo fine di conservare il ricordo, ma “predicati” in modo da offrire alla Chiesa la base della fede e dei costumi; perciò l'esegeta scrutando diligentemente le testimonianze degli evangelisti sarà in grado di illustrare con maggior penetrazione il perenne valore teologico dei vangeli, e di porre in piena luce di quale necessità e di quale importanza sia l'interpretazione della Chiesa.
Istruzione De historica Evangeliorum veritate, 21 aprile 1964, n. 2.