Questo brano, tratto dal noto saggio di Jean Mouroux (1901-1973) Io credo in te, rappresenta uno dei primi esempi della proposta avanzata dal personalismo francese di recuperare la dimensione personale e coinvolgente dell’atto di fede, a parziale superamento di una sua impostazione estrinsecista che ne privilegiava l’articolazione logico-veritativa. L’Autore pone in luce come la riscoperta della dimensione personalista della fede, perché atto di donazione ad una persona, la persona di Gesù Cristo, non diminuisce la sua natura di atto intellettuale di adesione ad una verità, perché la sua compiutezza richiede un appello alla sfera della razionalità, che avrà però nella testimonianza, e non solo nell’inferenza logica, il suo punto di forza.
Se l’oggetto essenziale della fede è una persona, la credibilità (sul piano concreto) non è anzitutto, né semplicemente, la proprietà di un oggetto, perché questo oggetto è unico e l’espressione — d’altra parte esatta — presenta il pericolo di lasciarne sfuggire la caratteristica propria. Bisogna dire che la credibilità è la proprietà d’una testimonianza, e perciò non è l’evidenza di un’idea, ma la manifestazione d’una persona. Il valore proprio dei segni consiste nel mostrarmi che è Dio che parla e che, per conseguenza, io posso e devo credere; consiste nel farmi cogliere, attraverso la testimonianza, la presenza e l’azione d’una persona.
Per questo, di fronte a una testimonianza il soggetto si trova impegnato con tutta la sua capacità spirituale. La credibilità non è, di fatto, separabile dalla testimonianza. ma la testimonianza, essendo l’azione e l’impegno d’una Persona, per comprenderla si richiede uno sforzo di tutta la persona; essendo una chiamata soprannaturale, la sua comprensione piena esige un’attenzione e un desiderio elevati dalla grazia. In altre parole, parlare di credibilità non vuol dire innanzi tutto: l’oggetto di fede può e deve essere creduto in sé e in astratto; vuol dire invece innanzi tutto — e la formula di Mons. Meurin sopracitata è eccellente — noi possiamo e dobbiamo credere alla testimonianza di Dio.
Per conseguenza fino a che l’uomo non fa della fede un problema personale, gli resta inibito l’accesso alla credibilità; fino a che non diventa un’anima aperta e desiderosa, la credibilità resta per lui puramente e semplicemente un oggetto tra tanti altri, che non lo tocca personalmente, un puro “problema”. Dove noi tenteremo di mostrargli i segni di una presenza, egli non vedrà che i caratteri logici di un oggetto posto in un altro mondo mentale. I segni saranno per lui dei fenomeni di cui non può trovar la legge, e perciò incomprensibili. Questo non dipende dalla debolezza dei segni, dipende dalla loro natura: non sono prove astratte e generali, ma inviti concreti e personali. Si comprendono in una maniera analoga a quella con cui si comprendono i segni d’una testimonianza umana. Nei due casi è in giuoco unaesperienza della persona. L’aveva compreso S. Agostino quando appoggiava il suo studio intorno al credere e alla testimonianza sulla nostra esperienza, primitiva e insostituibile, rispetto alle persone umane nella famiglia, nell’amicizia e nella città [cfr. De fide rerum quae non videntur, n. 1-4, PL 40, 171-174]. Non si comprende un segno riallacciandolo per deduzione a un principio generale: lo si comprende riallacciandolo alla persona che lo crea a lo usa, a Colui che si rivela e si offre per mezzo di esso.
Pertanto nel cammino che mena alla fede e che la sostiene, l’essenziale è quella ricerca personale, quella orientazione della persona verso un bene che non potrebbe essere che un’altra persona, quel desiderio d’una verità beatificante che non potrebbe essere che una persona in cui risplendono la luce e l’amore. Se l’anima poco a poco comprende le parole, aderisce sempre più alle verità proposte, è perché attraverso quei segni, quelle parole, quelle verità, cerca e scopre una persona che la chiama e alla quale essa risponde.
Ricerca della persona: ecco spiegato il raggiungimento della credibilità; incontro della persona: ecco spiegata la certezza della fede. Ed è S. Tommaso che enuncia il principio: «Ogni credente aderisce alla parola di qualcuno. Così ciò che appare come principale e come avente, in qualche modo, valore di fine in ogni atto di credenza, è la persona alla cui parola si presta adesione. In quanto poi ai particolari delle verità affermate in questa volontà che si ha di aderire a qualcuno, essi si presentano come secondari» [Summa theologiae, II-II, q. 11, a. 1].
Sembrerà forse che l’insistere sul carattere personale dell’atto di fede ci faccia dimenticare il suo carattere intellettuale di adesione a una verità e offra il fianco debole alle obbiezioni razionaliste contro la fede. In realtà noi non dimentichiamo nulla; e se rimane sempre la minaccia di cadere sia nell’irrazionalismo, sia nel razionalismo noi ci mettiamo su un piano che trascende l’uno e l’altro perché accetta e pone al loro posto le esigenze dell’intelligenza come quelle dell’appetito, mostrando che sono le esigenze della persona stessa. È sotto queste prospettive che si dovrebbe costruire la teologia della fede come affermazione soprannaturale. Affermazione: vi dovranno quindi convergere tutti gli elementi, formali e dinamici, di una affermazione umana; ma soprannaturale: e l’oggetto di questa affermazione – una Persona che è la Realtà stessa – spiegherà i caratteri unici dell’atto. In modo eminentissimo l’affermazione è qui un mezzo di possesso, o meglio di comunione, in attesa della visione che è la perfetta comunione.
D’altra parte noi riteniamo che su questo piano si dovrebbe portare la discussione, senza dubbio meno contro le arguzie sottili che contro la ripugnanza massiccia del razionalismo di fronte alla fede. Fra il razionalismo e noi la questione non è probabilmente questa: Come giustificare una atto intellettuale comandato da una appetito?; ma è forse quest’altra: Come arriviamo a una persona? E se a una persona si arriva con un atto di comunione possiamo credere alla chiamata che ci è diretta da quell’essere personale che è Dio?
Se il razionalismo, come ce lo mostrano i migliori esponenti, rifiuta il problema della persona o ne dissolve la realtà, ci negherà il problema della fede; ma si sarà condannato da se stesso sul piano umano. Se al contrario accetta questa esperienza, abbiamo in comune una fase di partenza. Resta il mistero proprio dell’atto di fede all’interno di questa forma di conoscenza, e non potremo mai sopprimere il mistero; ma potremo dimostrare ch’esso è indispensabile, ed è questo senza dubbio il modo migliore per giustificarlo. Di più, questo punto di vista personale, lungi dal metterci in stato di inferiorità, si potrà mostrare con un esempio preciso come al contrario permetta di risolvere una delle difficoltà di fondo del razionalismo contemporaneo.
L’atto di fede non è soltanto un atto personale, ma un atto personalizzante. Non è un complesso irrazionale radicato in bassi istinti di felicità, capaci di rinunciare, per saziarsi, alla dura luce della ragione; ha invece le sue origini in un appetito illuminato, pacato, liberato, e perfeziona la persona spirituale purificandola e unendola al Dio personale. Il passaggio dall’incredulità alla fede esige rinuncia, e molto spesso una rinuncia tale da far esitare i più coraggiosi: il distacco da sé, l’aprire a un altro l’intimità più inviolabile è un gran sacrificio dell’autonoma chiusa. E per mantener viva la fede posseduta quale sforzo necessario di purificazione spirituale, d’umiltà e d’audacia! Non è qui il luogo di descrivere tale sforzo, ma sappiamo bene che è dono di sé, rinnovato approfondito, all’Essere infinito, e che comporta sempre lucidità, coraggio e fedeltà. All’atto di fede sono immanenti i più alti valori umani e per questo la fede è una forza di personalizzazione.
Questo sforzo esige un senso intelligibile e ha valore razionale. Uno sforzo di personalizzazione che sia reale, che si compia in una vita equilibrata, forte e feconda, che metta capo a una lenta creazione della persona per opera di se stessa, è qualcosa che esclude, all’origine e nel suo dinamismo, l’irrazionale, l’immaginario e l’emotivo, il morboso e il patologico.
Precisamente qui incontriamo una delle difficoltà che il razionalismo contemporaneo solleva con compiacimento. La testimonianza, ci si dice, non potrebbe generare che una forma inferiore di convinzione. Le analisi psicologiche e psichiatriche provano che tre quarti delle testimonianze sono false e senza valore. Ogni conoscenza così detta superiore che si appoggi a simil genere di trasmissione della verità non può essere che una maniera più o meno raffinata d’illusione. Per un Brunschvicg, per esempio, la patologia mentale ha definitivamente discreditato quella forma confusa e primitiva di credenza – fondata sulla testimonianza – quale è la fede cristiana.
Ora noi non dobbiamo affatto eludere questo nuovo problema. E per rispondere all’obbiezione ci basterà notare che si impone una discriminazione entro quella realtà che è la testimonianza. C’è una testimonianza patologica o inferiore le cui sorgenti sono viziate, e che è, innanzi tutto, la asserzione di un fenomeno; e c’è una testimonianza normale e superiore che non è una semplice asserzione, ma unatto, precisamente l’impegno d’una persona a servizio d’un Ideale trascendente: Verità, Giustizia, Amore, Patria…
Questo impegno spirituale, coi valori altissimi che esige, porta con sé e rivela, è un criterio di differenziazione. Ed è tanto vero che gli stessi psichiatri se ne rendono conto, e Dupré, volendo indicare su che cosa s fondala diagnosi (patologica) della mitomania, scrive queste righe altamente significative: la mitomania, «forma congenita di infantilismo psichico, proviene in primo luogo dall’insufficienza del freno dell’attività immaginaria, il quale è normalmente costituito dalla critica intellettuale, dal senso morale, dall’inibizione volontaria. Proviene in secondo luogo dallo sviluppo di tale tendenza psico-patologica, dall’associazione di tale attività morbosa con altre tare psichiche ugualmente congenite (vanità, malignità, perversità) e infine dall’entrata in campo, mediante appetiti e istinti viziosi, di tale psichismo originariamente anormale» (J. Guitton).
Si tratta beninteso, d’un criterio di totalità; ma si sa bene che gli psicologi e gli psichiatri è lì che maggiormente vanno a cercare sia la caratteristica della vita psichica (la quale è fatta di «strutture»), sia il criterio che permette di distinguere normale e patologico.
La discriminazione che si impone è dunque questa: atti che personalizzano, atti che spersonalizzano. Ora, l’atto di fede, preso come totalità concreta, è proprio il tipo degli atti che esigono e accrescono il valore dell’essere spirituale. È l’atto che completa la persona creata col suo libero dono alla Persona infallibile e beatificante. Se si riflette che l’atto di fede è fondato su una testimonianza, quella di Cristo, che è essa stessa un impegno spirituale; che consiste in un legame spirituale con Dio; che porta con sé una nuova testimonianza perché quel legame si ripercuote nella vita reale, si accorderà senza difficoltà che siamo qui in una regione spirituale diversa da quella in cui ci traggono le testimonianze puerili, volgari o patologiche. Sani sint in fide: la fede comporta di fatto una sanità della persona che basta a distruggere la grossolana confusione del razionalismo.
Da Jean Mouroux, Io credo in te, tr. it. di D. Tenderini, Morcelliana, Brescia 19664, pp. 56-65.