Il testo che Newman preparò nel 1855 per la Scuola di Scienza dell'Università Cattolica di Dublino, di cui era Rettore costituisce un piccolo capolavoro sul ruolo dell'università e sulla sua missione. In essa, che opera sempre super partes, le varie idee sono sostenute in forza delle loro argomentazioni e del rigore scientifico con cui sono sviluppate. L'università è un luogo di ricerca della verità, e la Chiesa, che promuove questa Istituzione, ha tutto da guadagnare dallo studio profondo e accurato di ogni disciplina. L'Università è una sorta di "intelletto imperiale", dove la scienza esercita la sua autorità, le discipline sono distinte ma non separate, la libera discussione esercitata con correttezza e senza derive ideologiche. Newman non ha timore di discutere quale debba essere il ruolo della teologia in una università così concepita, attenta a distinguere ciò che appartiene alla fede da ciò che è lasciato alla libera discussione degli uomini. Nell'Università la verità e la libertà sono sovrane. Ciò non va a discapito della religione, ma al contrario la rafforza. È l'Università, non sono i testi approssimativi dei non specialisti, il luogo dove risolvere gli apparenti conflitti fra rivelazione cristiana e scienze positive. Newman esorta allo sviluppo del dogma, ma ricorda anche la responsabilità di proteggere la fede dei deboli, incoraggia lo studio per raggiungere sintesi nuove. Il discorso preparato da Newman fu giudicato troppo progressista dalle autorità ecclesiastiche che vegliavano sull'Università di Dublino, e dunque mai tenuto. Ne possediamo però il testo scritto, pubblicato a cura di M. Marchetto, che riproponiamo qui integralmente.
1. Contro l'antagonismo di teologia e scienze
Questo è un tempo, Signori, in cui non solo i classici, ma molto di più le scienze, nel più ampio senso della parola, sono considerate dagli uomini di religione, con preoccupazione non del tutto infondata; e mentre un’Università come la nostra professa di abbracciare tutti gli ambiti e le attività dell'intelletto, e poiché da parte mia vorrei stare in buoni rapporti con tutti i tipi di sapere e non ho intenzione di litigare con alcuno, e aprirei il mio cuore, se non l'intelletto (questo infatti va oltre la mia volontà) all’intero cerchio della verità, e offrirei almeno un segno di riconoscimento e di ospitalità anche a quegli studi che mi sono estranei, e ne faciliterei la via, - per questo, come ho già fatto aperture di riconciliazione, prima fra la bella letteratura e la religione, e poi fra la fisica e la teologia, così ora vorrei dire una parola per deprecare e protestare contro l'antagonismo superfluo, che nei fatti a volte esiste, fra i teologi e chi coltiva le scienze in genere.
2. La funzione unificante dell'Università nei confronti dei saperi
[457] Qui sono condotto subito a spaziare sulla grandezza di un'istituzione che è abbastanza inclusiva per ammettere la discussione di un tema come questo. Fra gli oggetti dell'impresa umana, –posso dirlo sicuramente senza che sia sconveniente, Signori, – non se ne può nominare nessuno di più alto o di più nobile di quello contemplato nell'erezione di un’Università. Mettere in piedi e mantenere in vita e vigore una vera Università, è dichiaratamente, appena si comprenda la parola "Università", una di quelle grandissime opere, grandi nella loro difficoltà e nella loro importanza, su cui giustamente si spendono gli intelletti più rari {369} e i più diversi talenti. Infatti, in primo luogo, essa dichiara di insegnare qualunque cosa si debba insegnare in qualunque ambito del sapere umano, e abbraccia nel suo raggio i contenuti più alti del pensiero umano e i campi più ricchi della ricerca umana. Niente è troppo vasto, niente troppo sottile, niente troppo lontano, niente troppo minuto, niente troppo digressivo, niente troppo preciso, per impegnare la sua attenzione.
Questa, tuttavia, non è la ragione per cui rivendico ad essa una posizione così sovrana; infatti, si può dire onestamente che ricondurre le scuole di tutto il sapere sotto un unico nome e chiamarle Università, sia una mera generalizzazione; e proclamare che la prosecuzione di tutti i tipi di sapere fino ai loro limiti estremi richieda la portata più completa e il massimo raggio delle nostre facoltà intellettuali non è che un truismo. La ragione per cui parlo dell'Università nei termini in cui mi sono avventurato, non è semplicemente che essa occupa tutto il territorio del sapere, ma che ne è il regno stesso; che essa professa molto di più che accogliere e ospitare come in un caravanserraglio tutta l'arte e la scienza, tutta la storia e la filosofia. In verità, essa professa di attribuire ad ogni materia che accoglie, il proprio posto e i suoi giusti confini; di definire i diritti, di stabilire le reciproche relazioni e di realizzare la comunicazione fra tutte; di tenere sotto controllo le ambiziose e [458] le invadenti, e di soccorrere e di sostenere quelle che di tanto in tanto soccombono sotto quelle più popolari o quelle più fortunate; di mantenere la pace fra tutte, e di convertire le loro reciproche differenze e contrasti nel bene comune. Questo, Signori, è la ragione per cui dico che erigere un’Università è nello stesso tempo un'impresa così ardua e benefica, ossia perché si impegna ad ammettere, senza timore, senza pregiudizio, senza compromesso, tutti coloro che vi giungono, se vi giungono in nome della verità; ad adattare idee, esperienze e abitudini mentali le più indipendenti e dissimili; e a dare pieno spazio al pensiero e all'erudizione nelle loro forme più originali, nelle loro espressioni più intense e nel loro raggio più ampio. Così ricondurre la molteplicità ad unità è la sua funzione specifica; e impara a farlo non in virtù di regole riducibili in forma scritta, ma con la sagacia, la saggezza e la tolleranza, agendo in base alla profonda conoscenza della materia della conoscenza e con la vigile repressione dell'aggressione o del settarismo in ogni ambito.
{370} Consideriamo una grande opera, e giustamente, progettare e realizzare un'ampia organizzazione politica. Portare sotto un unico giogo, secondo il modo dell'antica Roma, un centinaio di popoli discordi; mantenere ognuno di loro nei propri privilegi all'interno del suo legittimo raggio d'azione; concedere a ciascuno l'indulgenza dei sentimenti nazionali e lo stimolo di interessi rivali; e tuttavia armonizzarli in un'unica grande istituzione e impegnarli a perpetuare un unico potere imperiale; – questa è una conquista che nella razza che la compie porta con sé l'inequivocabile segno del genio.
"Tu ricorda, o Romano, di governare le genti” [Virgilio, Eneide, VI, 851 (tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino 1967)].
[459] Questo fu il vanto particolare , come il poeta lo considerava, del Romano; un vanto tanto alto nel suo campo quanto quell'altro vanto, proprio della nazione greca, dell’eminenza letteraria, o esuberanza di pensiero, e dell'abilità e finezza nell'esprimerlo.
Quello che nella storia politica è un impero, nella sfera della filosofia e della ricerca è un'Università. Come ho detto, essa è l'alto potere protettivo di tutto il sapere e della scienza, dei fatti e dei principi, della ricerca e della scoperta, dell'esperimento e della speculazione; traccia la mappa del territorio dell’intelletto, e vigila che i confini di ogni provincia siano religiosamente rispettati e che non ci sia né usurpazione né capitolazione da alcun lato. Agisce da arbitro fra verità e verità e considerando la natura e l'importanza di ognuna, assegna a tutte il loro debito ordine di precedenza. Non mantiene alcun ambito di pensiero in modo esclusivo, per quanto ampio e nobile; e non ne sacrifica alcuno. È rispettosa e leale, a seconda del loro rispettivo peso, con le rivendicazioni della letteratura, della ricerca fisica, della storia, della metafisica, della scienza teologica. É imparziale verso tutte loro, promuove ognuna nella sua posizione e per il suo scopo. È certamente subordinata, e di necessità, alla Chiesa cattolica; ma nello stesso modo in cui uno dei giudici della Regina è ufficiale della Regina, e tuttavia decide certi procedimenti legali fra la Regina e i suoi sudditi. Soccorre la Chiesa cattolica, in primo luogo, perché la verità di ogni genere non può che aiutare la verità; e in secondo luogo, ancor di più, perché la natura renderà sempre omaggio alla Grazia, e la ragione non può che illustrare e difendere la Rivelazione, e in terzo luogo, perché la Chiesa ha un'autorità sovrana e, quando essa {371} parla ex cathedra, le si deve obbedire. Ma questo è lo scopo remoto dell'Università; il suo fine immediato (con il quale soltanto qui abbiamo a che fare) è di assicurare la dovuta disposizione, secondo un [460] ordine sovrano, e la coltivazione, in quell'ordine, di tutte le province e i metodi di pensiero che l'intelletto umano ha creato.
Da questo punto di vista, i suoi diversi professori sono come i ministri di diverse potenze politiche in un'unica corte o congresso. Essi rappresentano le loro rispettive scienze, e si applicano agli interessi individuali di quelle scienze; e se fra quelle scienze dovesse sorgere una disputa, essi sono le Persone che ne discutono e la risolvono, senza rischio di pretese sconvenienti da qualunque parte, di irosi conflitti o di turbamenti popolari. Una filosofia liberale diventa la disposizione delle menti così esercitate; un'ampiezza e una vastità di pensiero, in cui linee, apparentemente parallele, possono convergere liberamente, e principi, riconosciuti come incommensurabili, possono essere antagonisti senza pericolo.
3. La filosofia dell'intelletto imperiale
E qui, Signori, noi riconosciamo il carattere speciale della filosofia di cui sto parlando, ammesso che si possa chiamare filosofia, in contrasto con il metodo di una scienza o sistema in senso stretto. Il suo insegnamento non è fondato su un'idea, o riducibile a formule determinate. Newton poteva scoprire la grande legge del moto nel mondo fisico e la chiave per diecimila fenomeni; e una risoluzione analoga di fatti complessi in principi semplici può essere possibile in altri ambiti della natura ; ma il grande universo in se stesso, morale e materiale, sensibile e soprannaturale, non può essere calibrato e misurato neppure dai più grandi intelletti, e le sue parti costitutive ammettono confronto e adattamento, ma non fusione. Questo è il punto che incide direttamente sul tema che mi sono posto davanti quando ho iniziato, e verso il quale mi muovo in tutto ciò che dico o che dirò.
Osservo, dunque, e vi chiedo, Signori, di tenere a mente che la filosofia di un intelletto imperiale, perché tale [461] considero che sia l'Università, si basa non tanto sulla semplificazione quanto sulla distinzione. Il suo vero rappresentante definisce piuttosto che analizzare. Egli non tende ad un elenco completo dei contenuti della conoscenza o ad interpretarli, ma a perseguire, {372} per quanto è possibile all'uomo, ciò che nella sua pienezza è misterioso e imperscrutabile. Prendendosi cura di tutte le scienze, dei metodi, delle raccolte di fatti, dei principi, delle dottrine, delle verità, che sono il riflesso dell'universo sull'intelletto umano, egli li ammette tutti, non ne trascura alcuno e, in quanto non ne trascura alcuno, non consente ad alcuno di eccedere o di usurpare. La sua parola d'ordine è "Vivi e lascia vivere". Egli prende le cose come sono; si sottopone a tutte, nei loro limiti; riconosce l'insuperabile linea di demarcazione che corre fra argomento e argomento; osserva come verità separate si trovino in relazione l'una con l'altra, dove concordino, dove si separino e dove, essendo spinte troppo lontano, cessino di essere delle verità. È suo compito determinare quanto si possa conoscere in ogni ambito di pensiero; quando ci dobbiamo accontentare di non sapere; in quale direzione l'indagine è senza speranza, o d'altra parte piena di promesse; dove si avvolga in spirali irrisolvibili dalla ragione, dove sia assorbita da misteri, o sprofondi negli abissi. Sarà sua preoccupazione avere familiarità con i segni delle difficoltà reali e apparenti, con i metodi propri di materie particolari, quali siano i limiti di uno scetticismo razionale in ogni caso particolare, e quali le pretese di una fede perentoria. Se possiede una massima fondamentale nella sua filosofia, questa è che la verità non può contraddire la verità; se ne possiede una seconda, è che la verità spesso sembra contraddire la verità; e se ne possiede una terza, è la conclusione pratica che dobbiamo essere pazienti con tali apparenze, e non affrettarci a dichiarare che possiedono realmente un carattere più temibile.
[462] È l'immensità stessa del sistema delle cose, la descrizione umana del quale egli ha come compito, ad essere la ragione di questa pazienza e prudenza; infatti quell'immensità gli suggerisce che le contraddizioni e i misteri che gli si presentano nelle diverse scienze, possono essere semplicemente la conseguenza della nostra comprensione necessariamente difettosa. Non c'è che un solo pensiero più grande di quello dell'universo; e questo è il pensiero del suo Creatore. Se per un solo istante, Signori, lasciando la mia sequenza di pensieri, alludo alla conoscenza che abbiamo dell'Essere Supremo, è per dedurne una chiarificazione del mio argomento. Egli, benché Uno, in Se stesso è una specie di mondo dei mondi, dando origine nella nostra mente ad un numero indefinito di verità distinte, ognuna ineffabilmente più misteriosa di ogni cosa che si trovi in questo universo di spazio e tempo. Ognuno dei Suoi {373} attributi, considerato in se stesso, è oggetto di una scienza inesauribile: e il tentativo di riconciliarne due o tre, –amore, potenza, giustizia, santità, verità , sapienza, – offre materia per una controversia senza fine. Riusciamo ad apprendere e ad accettare ogni attributo divino nella sua forma elementare, ma non siamo ancora capaci di accettarli nella loro infinità, né in se stessi né uniti l'uno all'altro. Eppure non neghiamo il primo perché non si può conciliare perfettamente con il secondo, né il secondo perché è in apparente contraddizione con il primo e con il terzo. Accade lo stesso, in misura diversa, con la Sua creazione materiale e morale. È la sapienza più elevata accettare la verità di qualunque genere, dovunque sia chiaramente accertato che è tale, benché sia difficile adattarla ad altra verità nota.
Si possono addurre facilmente esempi di quella estrema contraddizione di idee, l'una con l'altra, che l'osservazione dell'universo ci impone di accettare, rendendoci chiaro [463] che non c'è niente di irrazionale nel sottomettersi a incompatibilità innegabili, che chiamiamo apparenti solo perché, se non fossero apparenti ma reali, non potrebbero co-esistere. Tale, ad esempio, è l'osservazione dello spazio; l'esistenza del quale non possiamo negare, benché la sua idea non riesca, in nessuna posizione, a insediarsi (se possiamo parlare in questo modo) nella nostra mente; – troviamo infatti impossibile dire che da qualche parte essa giunga ad un limite; ed è incomprensibile dire che vada all'infinito; e sembra insensato dire che non esiste finché i corpi non vi entrano, e così si estende per accidente.
E lo stesso accade nell'esempio del tempo. Non possiamo porne l'inizio senza chiederci che cosa ci fosse prima di quell'inizio; eppure che non ci debba essere alcun inizio, ponetelo indietro quanto vogliamo, è semplicemente incomprensibile. Qui di nuovo, come nel caso dello spazio, non ci sogniamo mai di negare l'esistenza di ciò che non abbiamo mezzi per comprendere.
E passando da questa elevata regione del pensiero (che, per quanto possa essere elevata, è oggetto anche delle osservazioni dei bambini), quando giungiamo a considerare l'azione reciproca dell'anima e del corpo, restiamo particolarmente perplessi alle incompatibilità che non possiamo né rifiutare né spiegare. Come accada che la volontà possa agire sui muscoli, è una domanda della quale anche un bambino può sentire la forza, ma alla quale nessuno sperimentalista può rispondere. {374} Inoltre, quando mettiamo a confronto le leggi fisiche con quelle sociali alle quali qui l'uomo è sottoposto, dobbiamo ammettere che la fisiologia e la scienza sociale sono in conflitto. L'uomo è sia un essere fisico che un essere sociale; eppure nello stesso tempo non può perseguire il suo pieno fine fisico e il suo fine sociale, i suoi doveri fisici (se così posso esprimermi) e i suoi doveri sociali, ma è obbligato a sacrificare in parte l'uno o l'altro. Se fossimo abbastanza pazzi da [464] immaginare che ci siano due creatori, uno dei quali fosse l'autore della nostra struttura animale, l'altro della società, allora sì potremmo capire come accade che la fatica mentale e fisica, le arti utili, i doveri del politico, il governo, e simili, che sono richiesti dal sistema sociale, siano così deleteri per la salute, la felicità e la vita. Ossia, in altre parole, non possiamo spiegare adeguatamente verità esistenti e innegabili se non in base all'ipotesi di ciò che sentiamo essere un'assurdità.
E così nella scienza matematica, come si è spesso insistito, il filosofo deve sopportare pazientemente la presenza di verità che non sono meno vere per il fatto di essere inconciliabili l'una con l'altra. Gli si parla dell'esistenza di un numero infinito di curve che sono in grado di dividere uno spazio, in cui nessuna linea retta, per quanto la lunghezza sia priva di larghezza, può mai entrare. Gli si parla anche di certe linee che si avvicinano l'una all'altra continuamente, con una distanza finita fra di loro, eppure non si incontrano mai; e queste apparenti contraddizioni, le deve sopportare come meglio può, senza cercare di negare l'esistenza delle verità che le costituiscono nella scienza in questione.
4. Il superamento delle apparenti contraddizioni e incompatibilità
Ora , Signori, lasciate che richiami la vostra attenzione su ciò che vorrei dedurre da questi fatti familiari. Si tratta di incalzarvi con un argomento a fortiori: ossia come esercitate una pazienza così esemplare nel caso delle verità inesplicabili che circondano tanti ambiti della conoscenza, umana e divina, considerati in se stessi; come non siete nello stesso tempo risentiti, critici, sospettosi, diffidenti, scoprendo che nelle scienze secolari una verità è incompatibile (secondo il nostro intelletto umano) [465] con un'altra o incoerente con se stessa; così non dovreste dare troppo peso al fatto che vi si dica che esiste, qui e là, {375} non una difficoltà inestricabile, non una contraddizione sbalorditiva, non (molto meno) una contraddizione quanto a fatti chiari, fra la Rivelazione e la Natura; ma un ostacolo, un'oscurità , una divergenza di tendenze, un antagonismo temporaneo, una differenza di tono, fra le due, – cioè fra l'opinione cattolica, da una parte, e l'astronomia, la geologia, la fisiologia, l'etnologia, l 'economia politica, la storia o l'archeologia, dall'altra. Dico che, come ammettiamo, in quanto cattolici, che l'Unità divina contiene in sé attributi che, alle nostre menti finite, appaiono in parziale contraddizione l'uno con l'altro; come ammettiamo che nella Sua natura rivelata ci siano cose che, per quanto non opposte alla ragione, sono infinitamente estranee all'immaginazione; come nelle Sue opere non possiamo né negare né ammettere le idee di spazio e di tempo, e le necessarie proprietà delle linee, senza sofferenza o persino tormento intellettuale; in realtà, Signori, non faccio alcuna richiesta oltraggiosa, quando, in nome dell'Università, chiedo ad autori religiosi, a giuristi, economisti, fisiologi, chimici, geologi e storici, di proseguire tranquillamente, e su una strada vicina, nelle loro rispettive linee di speculazione, di ricerca e di esperimento, con piena fiducia nella coerenza di quella multiforme verità che condividono fra loro, nella generosa fiducia che alla fine saranno tutte compatibili nei loro risultati combinati, benché ci possano essere conflitti momentanei, apparenze scomode e molti presagi e profezie di contraddizioni, e sempre cose difficili per l'immaginazione, anche se, ripeto, non per la ragione. Non si tratta certo di chiedere loro granché quando si chiede, – poiché sono obbligati ad ammettere misteri nelle verità della Rivelazione, prese in se stesse, e nelle verità di ragione, prese in se stesse, – quando si chiede loro, [466] dico, di mantenere la pace, di vivere in buona volontà e di esercitare l'equanimità, se quando la natura e la Rivelazione si confrontano l'una con l'altra, ci sono, come ho detto, discrepanze, – non nel risultato, ma nei ragionamenti, nelle circostanze, nelle associazioni, nelle anticipazioni, negli accidenti propri dei loro rispettivi insegnamenti.
È assolutamente necessario insistere seriamente e con forza su questo punto, nell'interesse dei protestanti, perché essi hanno idee molto strane su di noi. Malgrado la testimonianza della storia vada in una direzione diversa, essi pensano che la Chiesa non abbia altro metodo di abbattere l'errore che l’arma della forza o la proibizione {376} dell'indagine. Essi ci sfidano a istituire e a portare avanti una Scuola di Scienza. Nel loro interesse, dunque, sono qui indotto a soffermarmi sul tema. Dico, allora, che a credere nella Rivelazione con la fede assoluta che è prerogativa di un cattolico, non è la nervosa creatura che sussulta ad ogni suono improvviso e si agita per ogni apparenza strana o nuova che si presenti ai suoi occhi. Egli non ha alcuna specie di apprensione, ride all’idea che ogni cosa possa contraddire uno dei dogmi della sua religione. Sa molto bene che non c'è alcuna scienza che, nel corso della sua estensione, non corra il rischio di usurpare il sentiero di altre scienze, pur senza alcun intento di offendere: e sa anche che, se c'è una scienza che per la sua posizione sovrana e inattaccabile può tranquillamente sostenere tali conflitti non voluti da parte dei figli della terra, è la teologia. Egli è certo, e niente lo farà dubitare, che, se sembra che l'astronomo, il geologo, lo studioso di cronologia, l'archeologo o l'etnologo dimostrino che qualcosa contraddice i dogmi della fede, alla fine quel punto si rivelerà, in primo luogo, [467] non dimostrato, oppure, in secondo luogo, non contraddittorio, oppure in terzo luogo, non contraddittorio con qualcosa di realmente rivelato, ma con qualcosa che è stato confuso con la Rivelazione. E se al momento appare contraddittorio, allora egli si accontenta di aspettare, sapendo che l'errore è come altri delinquenti; dategli abbastanza corda, e scoprirete che ha una forte propensione al suicidio. Non intendo dire che non farà la sua parte nell'incoraggiare, nell'aiutare il futuro suicida; egli non solo darà all'errore abbastanza corda, ma mostrerà come maneggiare e adattare la corda; – egli affiderà la questione alla ragione, alla riflessione, al giudizio sobrio, al senso comune; al Tempo, grande interprete di tanti segreti. Invece di essere irritato per il momentaneo trionfo dei nemici della Rivelazione, ammesso che tale sentimento di trionfo ci sia, e di affrettare una soluzione efficace della difficoltà, che nel caso può solo ridurre l'indagine ad un inestricabile groviglio, egli ricorderà che, nell'ordine della Provvidenza, i nostri apparenti pericoli sono spesso i più grandi guadagni; che nelle parole del poeta protestante,
"le nuvole che ti sembrano minacciose sono piene di misericordia, e si romperanno nelle benedizioni sul tuo capo". [W. Cowper, Light Shining out of Darkness, in Olney Hymns, III, xv.] {377}
5. La Chiesa e l'indagine filosofica e scientifica
Qui è ovvio alludere ad un caso molto noto. Quando il sistema copernicano cominciò a diffondersi, quale uomo religioso non sarebbe stato tentato dall'inquietudine, o almeno dal timore dello scandalo, per l'apparente contraddizione che esso implicava con una certa autorevole tradizione della Chiesa e con l'enunciato della Scrittura? Generalmente si accettava, come se gli Apostoli lo avessero espressamente annunciato sia oralmente che per iscritto, come verità della Rivelazione, che la terra fosse immobile e che il sole, fissato in un solido firmamento, ruotasse intorno alla terra. [468] Dopo un po' di tempo, tuttavia, e un'analisi completa, si scoprì che la Chiesa non aveva deciso quasi niente su questioni come questa e che la scienza fisica poteva muoversi in questa sfera di pensiero quasi a piacere, senza timore di scontrarsi con le decisioni dell'autorità ecclesiastica. Ora, al di là del sollievo che derivò ai cattolici dal fatto di scoprire che dovevano essere risparmiati da questa ulteriore controversia dal lato della cosmologia, che si aggiungeva alle loro molte già esistenti, in questa stessa circostanza c'è quasi un argomento a favore della divinità della loro religione. Infatti è certamente un fatto molto significativo, considerando con quanta ampiezza e quanto a lungo fosse stata sostenuta dai cattolici una certa interpretazione di queste affermazioni fisiche della Scrittura, che la Chiesa non l'abbia formalmente riconosciuta. Guardando alla questione da un punto di vista umano, era inevitabile che essa dovesse far propria quell'opinione. Ma ora, accertando la nostra posizione rispetto alle nuove scienze di questi ultimi tempi, troviamo che malgrado gli abbondanti commenti che fin dall'inizio essa ha sempre fatto sui testi sacri, com'è suo compito e suo diritto fare, tuttavia, è sempre stata indotta a spiegare formalmente i testi in questione o a dar loro un senso di autorità che la scienza moderna può mettere in discussione.
Né questa fuga fu un mero accidente, ma piuttosto il risultato di una supervisione provvidenziale; come apparirebbe da un passo della storia dello stesso Medioevo. Quando il glorioso San Bonifacio, l'Apostolo della Germania, grande in santità, anche se non nel sapere secolare, lamentò alla Santa Sede che San Virgilio insegnava l'esistenza degli antipodi, la Santa Sede fu guidata su che cosa fare; non si schierò con il filosofo irlandese, [469] {378} il che sarebbe stato fuori posto, ma lasciò passare, in una materia non rivelata, un'opinione filosofica.
Il tempo passò; si affermò un nuovo stato di cose a livello intellettuale e sociale; la Chiesa fu cinta del potere temporale; i predicatori di San Domenico erano in ascesa; ora possiamo chiederci con curioso interesse se alla fine la Chiesa abbia alterato la sua antica norma di azione e abbia proscritto l'attività intellettuale. Esattamente il contrario; questo è proprio l'epoca delle Università; è il classico periodo degli Scolastici; è lo splendido ed encomiabile esempio della politica saggia e della grande liberalità della Chiesa nei confronti dell'indagine filosofica. Se mai ci fu un tempo in cui l'intelletto si ampliò e visse una festa senza limiti, fu nel tempo di cui parlo. Quando ci fu un esercizio della ragione più curioso, più intrigante, più audace, più acuto, più penetrante, più razionalistico di quello di quell'epoca? Quale classe di questioni non analizzò quello spirito sottile e metafisico? Quale premessa fu ammessa senza essere esaminata? Quale principio non fu ricondotto alle sue prime origini, e mostrato nella sua forma più nuda? Quale intero non fu analizzato? Quale idea complessa non fu formulata in modo elaborato e, per così dire, finemente dipinta perché la mente la osservasse, fino a dispiegarsi in tutte le sue parti più piccole nel modo perfetto e delicato che la zampa di una rana mostra al freddo esame del microscopio? Bene, ripeto, qui c'era qualcosa che si avvicinava di più alla teologia di quanto non si avvicini la ricerca fisica; in un certo senso Aristotele fu un nemico più serio allora, al di là di ogni errore, di quanto poi non sia stato Bacone. La Chiesa allora usò la mano pesante con la filosofia? No, per quanto quella filosofia fosse metafisica. Era un tempo in cui essa aveva il potere temporale, e avrebbe potuto [470] annientare lo spirito di indagine col ferro e col fuoco; ma decise di abbatterlo con l'argomentazione; disse: "Sono qui in gioco due parti, e il mio argomento è il migliore". Mandò nell'arena filosofica i suoi polemisti. Erano i dottori domenicani e francescani, il più grande dei quali era San Tommaso, che in quelle università medievali combatteva la battaglia della Rivelazione con le armi del paganesimo. Non importava di chi fossero le armi; la verità era verità dovunque. Con la mascella di un asino, con lo scheletro della filosofia della Grecia pagana, il Sansone delle scuole mise in fuga i suoi mille filistei.
{379} Qui, Signori, osservate il contrasto mostrato fra la Chiesa in sé, che ha il dono della sapienza, e i più capaci, i più saggi, o i più santi dei suoi figli. Come San Bonifacio aveva sospettato delle speculazioni fisiche, così i primi Padri avevano mostrato un'estrema avversione al grande filosofo pagano che ho appena nominato, Aristotele . Non so chi di loro potesse soffrirlo; e quando nel Medioevo comparvero coloro che ne avrebbero preso le difese, soprattutto perché le loro intenzioni destavano sospetto, fu fatto uno sforzo strenuo per bandirlo dalla cristianità. Nel frattempo la Chiesa aveva taciuto; aveva tanto poco denunciato la filosofia pagana in generale quanto si era pronunciata sul significato di certi testi della Scrittura di carattere cosmologico. Da Tertulliano e Caio ai due Gregari di Cappadocia, da loro ad Anastasio Sinaita, da lui alla scuola di Parigi, Aristotele era una parola oltraggiosa; alla fine San Tommaso ne fece uno spaccalegna e un portatore d'acqua per la Chiesa. È uno schiavo forte; e la Chiesa stessa ha dato la sua sanzione all'uso delle idee e dei termini della sua filosofia in teologia . [471]
6. La libertà della ricerca filosofica e scientifica
Ora, mentre questa libera discussione è a dir poco così inoffensiva per la religione, o piuttosto così opportuna, d'altra parte è semplicemente necessaria per il progresso della scienza; e ora continuerò soffermandomi su questo aspetto dell'argomento. Dico, dunque, che nel coltivare quelle scienze in cui l'intelletto umano può scoprire la verità, è questione di primaria importanza che il ricercatore sia libero, indipendente, affrancato da costrizioni nei movimenti; che gli sia consentito e sia in grado, senza ostacoli , di fissare la mente con attenzione, anzi, in modo esclusivo, sul suo oggetto particolare, senza il rischio di essere distratto ad ogni momento nel processo e nel progresso della sua indagine, da accuse di temerarietà o da moniti contro l'inopportunità o lo scandalo. Ma parlando in questo modo, devo premettere alcune spiegazioni, perché mi si comprenda.
In primo luogo, dunque, Signori, quanto ai principi fondamentali della religione e della morale, e anche quanto ai principi fondamentali del cristianesimo o ai cosiddetti dogmi della fede, – quanto a questo duplice credo, naturale e rivelato,– nessuno di noi dovrebbe {380} dire che mantenerli inviolati sia una catena per l'intelletto. Invero, un cattolico non può disfarsi del loro pensiero; ed essi tanto poco impediscono i movimenti del suo intelletto quanto le leggi della fisica ne impediscono i movimenti corporei. Per lui la loro abituale comprensione è diventata una seconda natura, come le leggi dell'ottica, dell'idrostatica, della dinamica sono condizioni latenti che considera scontate quando usa i suoi organi corporei. Non sto supponendo alcun conflitto con il dogma, ma sto solo parlando di opinioni dei teologi, o della massa, analoghe a quelle che nei tempi antichi intendevano che il sole ruotasse intorno alla [472] terra, o che fossero vicini gli ultimi giorni, o che San Dionigi l'Areopagita fosse l'autore delle opere che portano il suo nome.
Né, in secondo luogo, anche per quanto riguarda tali opinioni, sto supponendo una diretta intrusione nell'ambito della religione, o che un docente di scienza formuli leggi in materia di religione; ma delle collisioni involontarie che sono incidentali in una discussione perseguita su un suo oggetto. Sarebbe un grave errore proporre le proprie conclusioni filosofiche o storiche come l'interpretazione formale del testo sacro, come si dice che abbia fatto Galileo, invece di accontentarsi di sostenere la sua dottrina del moto della terra come una conclusione scientifica, e lasciarla a coloro che erano realmente interessati a confrontarla con la Scrittura. E si deve confessare, Signori, che oggi si verificano non pochi esempi di questo errore, da parte, non di uomini di scienza, ma di uomini di religione che, per la nervosa impazienza che la Scrittura per un attimo possa sembrare incompatibile con i risultati di qualche speculazione del momento, sono sempre a proporre commenti geologici o etnologici su di essa, che sono costretti a modificare o cancellare prima che l'inchiostro sia ben asciutto, a causa dei mutamenti del progresso della scienza che essi hanno portato in suo aiuto in modo così invadente.
E in terzo luogo, osservo che, quando difendo l'indipendenza del pensiero filosofico, non parlo affatto di un insegnamento formale, ma di indagini, speculazioni e discussioni. Sono ben lungi dall'ammettere, in qualunque materia che confini anche con la religione, ciò che un eminente teologo protestante ha difeso sui temi più sacri,– intendo "la libertà di profezia" [Cfr. J. Taylor (1613-1667), vescovo anglicano e teologo, in A Discourse of the Liberty of Prophesying: shewing the Unreasonableness of Prescribing to other Men’s Faith; and the Iniquity of Persecuting Differing Opinions, 1647]. Non desidero affatto degradare i professori di scienza, che dovrebbero essere profeti della verità, a {381} meri propagandisti di rozze fantasie o di ben note assurdità. Non sostengo che dovrebbero far piovere a caso sui loro ascoltatori inventiva e novità; né che dovrebbero [473] insegnare ciò che ha in sé un fondamento di verità, in modo brillante e disinvolto, ad un gruppo di giovani che forse non riescono ad ascoltarli per sei lezioni di seguito, e che porteranno con sé in campagna una confusa idea delle incompiute teorie di qualche ambizioso intelletto.
Ancora una volta, come suggerisce l'ultima frase, ci dev'essere grande cura ad evitare lo scandalo, o colpendo l'opinione popolare, o turbando il debole; dato che l'associazione fra verità ed errore in certe menti è così forte che è impossibile strapparne l'errore senza sradicarne anche il grano. Se, dunque, c'è la possibilità che un'opinione religiosa corrente sia in qualche modo compromessa nel corso di un'indagine scientifica, questa sarebbe la ragione per condurla, non in pubblicazioni leggere ed effimere, che vengono in mano ai distratti o agli ignoranti, ma in opere serie e professionali, che corrispondono alle scuole medievali di disputa filosofica che, lontane com'erano dalla regione del pensiero e del sentimento popolari, per la loro vigorosa irrequietezza nell'indagine, malgrado i loro eccessi, hanno fatto tanto per la precisione della teologia.
7. Il peso dell'errore nella ricerca della verità
Non sto dunque supponendo che il ricercatore scientifico (1) giunga allo scontro con il dogma; né (2) che si avventuri, con le sue indagini, in qualche interpretazione della Scrittura, o in qualche altra conclusione in materia di religione; né (3) che insegni, anche nella sua stessa scienza, i paradossi della religione, mentre dovrebbe indagare e proporre; né (4) che avventatamente scandalizzi i deboli; ma, una volta date queste spiegazioni, dico tuttavia che un pensatore o ricercatore scientifico, nel condurre le sue ricerche, non è tenuto ad adattare ad ogni momento il suo percorso in base alle massime delle scuole o in base [474] alle tradizioni popolari, o in base a quelle di qualunque altra scienza diversa dalla sua, o a tener d 'occhio da vicino che cosa quelle scienze esterne abbiano da dirgli, o ad essere deciso ad essere edificante o a rispondere sempre ad eretici e increduli; confidando, {382} su impulso di una fede generosa, che, per quanto la sua linea di indagine possa di tanto in tanto deviare e variare verso e da il suo corso, o minacciare momentanee collisioni o ostacoli con ogni altro ambito del sapere, teologico o meno, tuttavia, se la lascia fare, sarà certo che andrà a casa propria, perché la verità non può mai davvero contraddire la verità e perché spesso ciò che a prima vista è un"'exceptio", alla fine "probat regulam " con maggior evidenza.
Per lui questo è un punto di grande importanza. Se non è libero di indagare sul fondamento e secondo le peculiarità della sua scienza, non può affatto indagare. La stessa legge della mente umana nella ricerca e nell'acquisizione della verità consiste nell'avanzare con un procedimento costituito di molti livelli e tortuoso. Per il sapere non ci sono scorciatoie; né la strada verso di esso si trova sempre nella direzione in cui finisce, né dal punto di partenza riusciamo a vedere la fine. Spesso può sembrare di allontanarsi da una meta alla quale presto giungerà senza sforzo, se soltanto siamo pazienti e decisi nel seguirlo; e come in etica ci viene detto di ottenere la medietà semplicemente trattenendoci dagli estremi [Aristotele, Etica Nicomachea, II, 9, 1109a], così nelle ricerche scientifiche si può dire, senza paradosso, che l'errore sia in qualche caso la via alla verità , e l'unica via. Inoltre, spesso non è destino di un uomo sopravvivere ad un'indagine; il processo non solo è costituito di molti livelli, ma di molte menti. Ciò che l'una inizia, l'altra finisce; e alla fine una conclusione vera viene [475] ottenuta con la cooperazione di scuole indipendenti e la perseveranza di generazioni successive. Stando così le cose, in certe circostanze, siamo obbligati a sopportare per un po' ciò che sentiamo essere un errore, in considerazione della verità in cui alla fine si risolve.
Qui l'analogia del viaggio è assai pertinente. Nessuno può salire su una montagna procedendo in linea retta; nessuna nave a vela si dirige al porto senza bordeggiare. E così, applicando l'esempio, se vogliamo, possiamo rifiutare del tutto di ammettere l'indagine o la ricerca; ma se invitiamo la ragione a prendere il suo posto nelle nostre scuole, dobbiamo lasciare che la ragione abbia il giusto e libero sfogo. Se ragioniamo, dobbiamo sottometterci alle condizioni della ragione. Non possiamo usarla a metà; dobbiamo usarla in quanto procede da Colui che ci ha dato anche la Rivelazione; e interromperne sempre i processi, e distrarne l'attenzione con obiezioni avanzate da un sapere più alto, {383} è simile allo sgomento di un uomo di terra ai mutamenti del corso di una nave su cui si è deliberatamente imbarcato, e dimostra certamente sfiducia o nei poteri della ragione da una parte, o nella certezza della verità rivelata dall'altra. Il passeggero non si sarebbe dovuto affatto imbarcare, se non avesse calcolato la possibilità di mare mosso, di correnti, di vento e maree, di scogli e secche; e scoraggiando del tutto l'esercizio della ragione, agiremmo in modo più saggio che allarmandoci e spazientendoci di fronte all'incertezza, al ritardo e all'ansia che, per sua natura, vi si possono trovare connesse. Evitiamo una volta per tutte la storia secolare, la scienza e la filosofia, se non ci è consentito di essere certi che la Rivelazione è così vera che le variazioni e le perplessità dell'opinione umana alla fine non possono certo offenderne l'autorità. Non è il trionfo intellettuale di una verità della religione quello che non è stato preceduto da una completa affermazione di ciò che si può dire [476] contro di essa; non è che l"'ego vapulando, ille verberando" della commedia [“Io a furia di prenderle, lui a furia di darmele, alla fine eravamo sfiniti entrambi” (Terenzio, Adelphi, II, ii, 5; tr. di L. Piazzi, Milano 2006)].
Le grandi menti hanno bisogno di libertà di movimento, non nel dominio della fede, ma del pensiero. E così lo stesso fanno le menti minori, e tutte le menti. Al mondo ci sono molte persone che sono chiamate, e con grande verità, geni. Sono stati dotati dalla natura di alcune particolari facoltà o capacità; e mentre da esse sono stimolati in modo veemente e governati in modo imperioso, sono ciechi ad ogni altra cosa. Sono entusiasti della propria linea, e semplicemente morti alla bellezza di ogni linea oltre alla propria. Pensano quindi che la propria sia l'unica linea da perseguire nel mondo intero, e sentono una specie di disprezzo per studi che si muovono su qualche altra linea. Ora, questi uomini possono essere, e spesso lo sono, ottimi cattolici, e non sognano niente se non affetto e rispetto verso il cattolicesimo, anzi, forse sono zelanti nei suoi interessi. Eppure, se insistete che nelle loro speculazioni, ricerche o conclusioni nella loro scienza particolare, non è sufficiente che si sottomettano alla Chiesa in generale, e ne riconoscano i dogmi, ma che devono studiare tutto ciò che hanno detto i teologi o che la massa crede in materia di religione, semplicemente soffocate e spegnete la fiamma dentro di loro, ed essi non possono fare più niente.
Questo è il caso degli uomini di genio: ora, al contrario, una parola a difesa delle menti dominatrici, dotate di un'ampia visione filosofica {384} delle cose, di una capacità creativa e di una versatilità capace di adattarsi ai diversi ambiti del pensiero. Queste persone forse, come quelle di cui ho già parlato, sposano un'idea e vi si concentrano;– un'idea profonda, prolifica, di grande importanza, che cresce grazie a loro, fino a svilupparsi in [477] un grande sistema. Ora, se un tale pensatore parte da principi radicalmente sbagliati o tende a conclusioni completamente false, se è un Hobbes, uno Shaftesbury, un Hume o un Bentham, allora, naturalmente, la questione si chiude. Egli è un oppositore della verità rivelata, e questo intende essere; –non c'è bisogno di dire nient'altro. Ma forse non è così; forse i suoi errori sono accidenti inseparabili del suo sistema o della sua mente, e si evolvono spontaneamente, non vengono difesi con pertinacia. Ogni sistema umano, ogni autore umano, è esposto alla giusta critica. Fate che chiuda la sua cartella; bene! E allora forse perderete quella che, nell'insieme e malgrado errori incidentali, sarebbe stata una delle difese più abili della verità rivelata (direttamente o indirettamente, a seconda del suo oggetto) che sia mai stata data al mondo.
Questo è il modo in cui spiegherei la circostanza, che a volte ha provocato sorpresa, che tanti grandi pensatori cattolici in un punto o nell'altro sono incorsi nella critica o nel biasimo dei teologi o dell'autorità ecclesiastica. Dev'essere così nella natura delle cose; c'è sì un biasimo che implica la condanna dell'autore; ma ce n'è un altro che non significa tanto di più del "pie legendum " scritto accanto a certi passi dei Padri. Può essere che l'autore non sia da biasimare; eppure sarebbe da biasimare l'autorità ecclesiastica, se non desse rilievo alle sue imperfezioni. Non so quale cattolico non terrebbe in venerazione il nome di Malebranchea[1]; ma ciononostante può essere incidentalmente entrato in collisione con i teologi, o aver fatto affermazioni temerarie [478]. La questione pratica è se non abbia fatto molto meglio a scrivere come ha scritto, che a non scrivere affatto. E la Santa Sede è così pienamente usa ad entrare in questa concezione della materia, da consentirne l'applicazione {385} non solo ad autori filosofici, ma anche teologici ed ecclesiastici, che non rientrano nel raggio di queste osservazioni. Credo di essere nel giusto se dico che, nel caso di tre grandi nomi, in diversi ambiti del sapere, il cardinale Noris, Bossuet e Muratori[2], mentre non nasconde la sensazione che ciò che hanno proposto si sarebbe potuto dire meglio, tuttavia ha considerato che nell'insieme i loro servizi alla religione erano troppo importanti per consentire che venissero disturbati da osservazioni critiche su dettagli.
8. La sovranità della verità
E ora, Signori, porto a conclusione queste osservazioni. Ciò che vorrei sollecitare in ognuno, qualunque possa essere la sua particolare linea di ricerca, – ciò che vorrei sollecitare negli uomini di scienza nei loro pensieri di teologia, – ciò che mi arrischierei di raccomandare ai teologi , quando la loro attenzione è attirata dall'oggetto di indagini scientifiche, – è una grande e ferma credenza nella sovranità della verità. L'errore può fiorire per un momento, ma alla fine prevarrà la verità. Alla fine l'unico effetto dell'errore è di promuovere la verità. Nascono teorie, speculazioni, ipotesi; forse sono destinate a morire, tuttavia non prima di aver suggerito idee migliori di se stesse. A loro volta queste idee migliori sono assunte da altri uomini e, se non conducono ancora alla verità, tuttavia conducono a ciò che è ancora più vicino alla verità di quanto non lo siano loro stesse; e così nel suo insieme la conoscenza fa progressi. Gli errori di alcune menti nell'indagine scientifica [479] sono più fecondi delle verità di altre. Sembra che una scienza non faccia progressi, ma abbondi in fallimenti, eppure sta avanzando impercettibilmente di continuo, ed è naturalmente un guadagno per la verità anche aver appreso ciò che non è vero, se non altro.
D'altra parte, si deve naturalmente ricordare, Signori, che presuppongo sempre la buona fede, le oneste intenzioni, uno spirito cattolico leale e un profondo senso di responsabilità. Nel ricercatore scientifico presuppongo il debito timore di dare scandalo, di sembrare di incoraggiare visioni che in realtà non incoraggia, e di schierarsi con partiti da cui egli differisce profondamente {386}. Presuppongo che egli sia assolutamente sensibile all'esistenza e alla forza dell'incredulità del tempo; che ricordi la debolezza morale e la confusione intellettuale della maggioranza degli uomini; e che non abbia alcun desiderio che qualche anima riceva danno da certe speculazioni di oggi, per quanto possa avere la soddisfazione di essere certo che quelle speculazioni, nella misura in cui siano erronee o fraintese, saranno corrette nel corso del mezzo secolo successivo.
[1] Il cardinale Gerdil dice della sua Metaphysique che è "brillante nella verità, ma meno solida"(p. 9), e che "il legame che connette tutte le parti del sistema filosofico di Padre Malebranche, ... potrà servire da scusante al nobile ardimento con cui egli propone i suoi sentimenti"(p. 12, Oeuvre, t. iv).
[2] L’opera di Muratori non era direttamente teologica.
J. H. Newman, VIII: "Il Cristianesimo e la ricerca scientifica", in Scritti sull'università, tr. it a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano 2008, pp. 853-893.