Fede ed esperienza

1. Esperienza come condizione per ogni conoscenza

 Partiamo da un assioma aristotelico che Tommaso d'Aquino ha formulato così: «nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu» (nulla può essere [compreso] nell'intelletto che non sia entrato in esso attraverso i sensi); la percezione sensibile, quindi, è la porta necessaria della nostra conoscenza in generale. Per Tommaso questa tesi fondamentale della dottrina della conoscenza è vincolante in quanto egli applica solo all'ambito della conoscenza la formula antropologica fondamentale, secondo cui l'uomo è spirito nel corpo in maniera tale che i due elementi si intrecciano reciprocamente. La sua formula «anima forma corporis» (l'anima è il principio formale del corpo) fonde a tal punto corpo e anima che essi formano una sola struttura d'esistenza. Se ciò è vero, se cioè da una parte l'essenziale dello spirito umano è di non poter esistere se non come forma che dona al corpo il suo modo di essere e se, viceversa, è essenziale alla corporeità dell'uomo di essere l'espressione dello spirito, ne deriva direttamente che la via della conoscenza umana esige sempre la compenetrazione dello strumento corporale e della assimilazione spirituale. Ogni conoscenza umana deve dunque necessariamente comportare una struttura sensoriale: essa ha dunque bisogno di trovare il suo inizio nell'esperienza, nella percezione da parte dei sensi. Tommaso ha esteso questa concezione alla conoscenza di Dio, ciò che suscitava turbamento dal punto di vista della tradizione agostiniano-platonica allora imperante, ma egli era tenuto a trarre questa conseguenza. Infatti, se è esatto che nell'uomo lo spirito non esiste che incarnato, questa tesi epistemologica non può essere limitata a un settore particolare, essa vale per qualsiasi modalità della conoscenza umana.

Per Tommaso era dunque chiaro che anche la conoscenza di Dio non può svolgersi in noi escludendo l'intervento dei sensi, e che pure la strada per pensare Dio passa attraverso la percezione sensibile e viene mediata dai sensi. Se ciò è vero, questo significa anche che ogni introduzione alla fede, catechesi, catecumenato, deve passare per i sensi. Ma allora è necessario trovare il cammino della fede a partire dall'esperienza aperta dai sensi.

Ciò che pertanto deriva in prima linea da una visione filosofica dell'uomo si conferma ancora se noi consideriamo la maniera di insegnare della Sacra Scrittura, e in particolare quella di Gesù. Egli infatti insegna in linea di principio mediante le parabole e, così stando le cose, la parabola manifestamente non è un artificio pedagogico che si possa anche sopprimere. Nel discorso di addio di Gesù è affermato, in tono molto di principio, che la parabola è la forma secondo cui la conoscenza della fede si realizza in questo eone (Gv 16, 25).

Anche presso i sinottici la parabola appare come la struttura secondo la quale è aperto l'accesso al mistero del regno di Dio (Mc 4, 10 ss.).

Se osserviamo più da vicino, notiamo come le parabole hanno due principali punti di partenza. Da una parte esse percorrono lo spazio del creato, per illuminarlo come trascendimento verso il Creatore.

Dall'altra parte esse assumono l'esperienza storica della fede già verificatasi, cioè continuano a sviluppare le parabole sorte nella storia di Israele. Bisogna però aggiungere certo una terza funzione: esse interpretano anche il mondo semplice di ogni giorno, per mostrare come si realizza in esso il trascendimento verso ciò che è superiore alla quotidianità umana. Da una parte il contenuto della fede appare solo nella parabola, ma d'altra parte la parabola rende manifesto il cuore della realtà stessa. Ciò è possibile perché la realtà stessa è parabola. Di fatto la parabola chiarisce innanzitutto la natura del mondo e dell'uomo stesso. In sintesi, possiamo dire che la parabola comporta due elementi nella sua struttura: la sostanza della fede viene resa trasparente nella stessa realtà sensibile, e a sua volta la conoscenza di fede esercita un effetto sul mondo dei sensi e permette di comprenderlo come movimento per superarsi. Non si inserisce in un secondo momento su una materia in sé neutra rispetto a Dio, un'applicazione religiosa che rimanga in ultima analisi estranea ed esterna alla materia terrena, ma nella parabola viene alla ribalta appunto quello che nella realtà sensibile le è più proprio. La parabola non si aggiunge dall'esterno all'esperienza che noi abbiamo del mondo, ma, al contrario, è solo essa a conferirle la sua profondità propria, solo essa a rivelare ciò che è nascosto nelle cose stesse. Essa corrisponde alla dinamica interna della materia del mondo come tale. La realtà è auto-trascendenza e, quando l'uomo è portato a trascenderla, egli non coglie solo Dio, ma, per la prima volta, anche la realtà e fa in modo che lui medesimo, come anche la creazione, siano se stessi.

Se la creazione può divenire parola nella parabola, è perché essa stessa è parabola ed è per questo che la materia stessa del quotidiano può condurre continuamente al di sopra di se stessa. Può realizzarsi in essa una storia che al tempo stesso la supera e che le resta profondamente conforme.

Per concludere diciamo tutto questo con altre parole: il cammino della fede comincia dall'esperienza sensibile e la esperienza sensibile è, in quanto tale, pregnante di fede e capace di trascendenza.

[…]

2. Gradi dell'esperienza

 Dopo queste considerazioni sul rapporto tra la fede e l'esperienza, ci è ora possibile chiarire e differenziare più da vicino il concetto dell'esperienza stessa. Io vorrei, su questo punto, riallacciarmi all'inizio a Jean Mouroux che distingue tre gradi dell'esperienza; W. Beinert ha adottato e sviluppato le idee di Mouroux.

a) Il primo grado è, secondo Mouroux, l'esperienza empirica, che significa semplicemente la percezione sensibile immediata e non ancora critica che noi abbiamo a ogni istante. Noi vediamo il sole levarsi, calare; noi vediamo passare un treno, vediamo dei colori ecc.

Questo tipo di esperienza è bensì il punto di partenza di ogni conoscenza, ma rimane superficiale e (impreciso). In ciò sta anche il suo pericolo: con la sua certezza immediata questa esperienza può impedire un'esperienza più profonda, con l'impressione superficiale di un percepito apparentemente univoco, essa può condurre a una falsificazione, allorché tale impressione si mantiene come conoscenza definitiva e ultima. Non abbiamo bisogno di riflettere su ciò in rapporto alla realtà della fede. La cognizione della possibilità di criticare e del bisogno di criticare

l' ''esperienza empirica'' è già presente all'inizio della scienza moderna della natura. Scienza naturale ha potuto costituirsi appunto nel momento in cui si è imparato a criticare l'esperienza e a superare l'impressione dei sensi. La querelle intorno a Galileo è stata per una parte anche una controversia sul significato e il limite dell' esperienza sensibile e sul rapporto tra percezione e intelletto. La linea del fronte nella questione galileiana si presentava in verità in maniera assai differente da ciò che immaginiamo abitualmente. I suoi nemici erano gli empiristi aristotelici, che collocavano l'esperienza al centro della loro teoria della conoscenza, mentre Galileo era platonico e sottolineava la preminenza dell'intelletto sull'esperienza sensibile. Gli avversari aristotelici di Galileo difendevano, in quanto empiristi, la percezione dei sensi, che vede chiaramente il sole levarsi e tramontare e dunque girare intorno alla terra. La tesi opposta, sostenuta da Galileo, contraddice ciò che ciascuno può vedere. Lo stesso vale per le leggi della caduta dei corpi le quali, nella formula enunciata da Galileo, non si verificano mai nella realtà, ma sono astrazioni matematiche e contraddicono quindi, a loro volta, l'esperienza immediata. Le scienze moderne della natura riposano su una volontà di prendere le distanze dal puro empirismo e di dare al pensiero un'importanza superiore a quella della visione. Jacques Monod, nel suo libro fondamentale sulla teoria dell'evoluzione, ha mostrato in maniera addirittura eccitante che la scienza moderna della natura è in definitiva platonismo, che essa riposa su un primato accordato al pensato sull'esperimentato, all'ideale sull'empirico, vive sulla rappresentazione fondamentale secondo la quale la realtà è costruita a partire da strutture concettuali e dunque può essere conosciuta con maggior precisione attraverso il pensiero che attraverso la percezione. La tesi seguente quindi non è valida solo nell'ambito della fede, ma in maniera del tutto generale: I' ''esperienza empirica'', pur essendo il punto di partenza necessario di qualsivoglia conoscenza umana, diviene errata, se essa non si lascia criticare a partire dalla conoscenza, per aprire così la porta a nuove esperienze.

b) Arriviamo così a un secondo grado dell'esperienza che Mouroux chiama "sperimentale", in opposizione a quella empirica. Si potrebbe dire addirittura che questo secondo grado, strumento proprio di ogni scienza della natura, riposa sul fatto che l'assioma aristotelico: «Nihil in intellectu nisi in sensu» (nulla può entrare nell'intelletto se prima non è nei sensi) si trova accompagnato, per esserne corretto, dal principio platonico: «Nihil in sensu nisi per intellectum» (nulla è percepito senza una preventiva intellezione). I sensi non sperimentano nulla se non ci si pone un interrogativo, se non esiste un presupposto intellettuale, che può esso solo rendere possibile in assoluto l'esperienza. Un esperimento è realizzabile poiché la scienza della natura ha già elaborato un presupposto intellettuale, a partire dal quale essa pone la natura e grazie al quale essa può ottenere una nuova esperienza. Detto con altre parole: solo l'illuminazione dell'esperienza dei sensi da parte dell'intelletto dà a questa il suo valore di conoscenza e rende possibile una nuova esperienza.

Il progresso della scienza moderna della natura si realizza attraverso tutta una storia di esperimenti, resi possibili in quanto accompagnati e proseguiti ogni volta dalla critica e intrinsecamente collegati nell'insieme. Per esempio il problema che ha reso possibile la costruzione di un computer non era inizialmente nemmeno concepibile: non lo è stato che con lo sviluppo continuo di una storia d' esperienza, costituita da esperienze che venivano prodotte di volta in volta grazie al pensiero. Fin qui la struttura dell'esperienza della fede è del tutto analoga a quella della scienza della natura. Entrambe vivono di un legame dinamico tra spirito e sensi, grazie al quale si apre una strada che conduce alle profondità. Ma ora bisogna constatare anche una differenza decisiva. Per la sperimentazione scientifica, l'oggetto dell'esperienza non è libero. L'esperimento si fonda invece sul fatto che noi poniamo la natura ed è per questo che Heidegger ha caratterizzato la tecnica come "imposizione". R. Brague formula tale affermazione cosi:

«Poiché di stato tolto ciò che potrebbe somigliare a una libertà (indeterminazione, contingenza ecc.) può diventate oggetto di scienza»[1].

Si può sperimentare lo stesso su una persona: si tenta allora di impadronirsi di essa movendo da ciò che si può cogliere, ciò che non dipende dalle sue libertà. Tutto quello che si è potuto acquisire sull'uomo in questo modo lo mostrano le moderne scienze umane. Ciò è talmente ampio che si può facilmente arrivare a pensare che non resti più nulla che rimai con questa "imposizione" propriamente si sia "posto" l’uomo intero.

 «Ma ciò che è personale» nell'uomo non si lascia porre così, ma «si rivela liberamente nel linguaggio»?[2]

Leszek Kolakowski ha formulato, a partire da ciò, l'osservazione interessante, secondo cui il modo di trattare la natura caratteristico delle scienze naturali propriamente è ormai solo quello della necrofilia. Esso "prepara" per così dire la natura come ciò che è morto, e in questa forma la può dominare. Si può trasporre questo sul piano delle scienze umane e constatare che pure il loro comportamento verso l'uomo non è che necrofilia. Se un tale tipo di atteggiamento è adottato nei confronti della fede e di Dio, ne deriva del tutto necessariamente una "teologia della morte di Dio", e non c'è bisogno affatto, propriamente, di dirlo in termini espliciti. Così questo secondo settore - quello dell'esperienza sperimentale - ci porta a contatto con un livello più elevato che rifonde le esperienze e ne suscita delle nuove a partire dall'elemento intellettuale. Ma essa non è affatto adatta a ciò che è divino e umano, poiché una delle condizioni della esperienza a questo livello è una sorta d'uccisione dell'oggetto. Si vede quindi, pur con tutta la sua grandezza, il pericolo del platonismo della scienza moderna della natura, che a buon diritto per un certo verso lasciava impauriti gli aristotelici.

c) Arriviamo quindi a un terzo tipo di esperienza che Mouroux chiama "esperienziale"; Beinert invece la chiama "esperienza esistenziale"[3]. Si tratta dell'esperienza che assume il principio spirituale, già da noi incontrato, ma lasciandogli al tempo stesso la libertà.

Noi abbiamo con ciò indicato la specificità di questo tipo. Esso riposa:

1. Sul legame già descritto fra l'assimilazione spirituale e l'accesso sempre rinnovato nell'esperienza. Non è più il circolo chiuso dell'offerta e della domanda ad essere caratterizzante qui, ma l'apertura di un cammino mai chiuso.

2. Bisogna aggiungervi che viene accolta la libertà di quanto ci sta di fronte e colui che fa l'esperienza si lascia guidare precisamente pure là «dove non vuole» (Gv 21, 18). È vero che l'uomo anche nell'esperienza propria della scienza della natura è spinto dalla conoscenza ben al di là di quello che aveva programmato. Noi cominciamo, a poco a poco, a renderci conto della natura di questo cammino, in un'epoca in cui necessariamente ci sentiamo minacciati dall'incubo che questa strada possa a poco a poco condurre alla distruzione di noi stessi, e della natura. È sempre l'uomo, infatti, che fa violenza e tratta un oggetto con una specie di necrofilia. Nell' "esperienza esistenziale", invece, dovrebbe avvenire che non il porre, ma al contrario la disponibilità a lasciarsi porre sia determinante e così renda possibile una nuova maniera di lasciarsi guidare. Questa guida comporta a sua volta che si accetti l'esperienza della non esperienza, la quale soltanto fa salire a un nuovo livello. Diciamolo con Hans Urs von Balthasar:

«Si può dire con sicurezza che non c'è esperienza cristiana di Dio che non sia il superamento della volontà d'arbitrio. E bisogna valutare come volontà d'arbitrio anche tutti gli sforzi che l'uomo può fare per suscitare esperienze religiose, sulla base di iniziative proprie, con i propri metodi e tecniche»[4]

«Solo attraverso la rinuncia a ogni esperienza parziale si dona a noi la totalità dell'essere. Dio ha bisogno di vasi che siano vuoti di ogni interesse personale per infondervi il suo disinteresse essenziale»[5]

Proprio quest'ultima indicazione mi sembra essenziale. L'affermazione che Dio è trinitario significa in verità la confessione anche che Dio è il superamento di sé, che Egli è "disinteresse" e che quindi è conoscibile solo se si corrisponde a questa sua essenza propria. Ne risulta quindi una conseguenza importante dal punto di vista catechetico: la guida che vuole portare a un'esperienza religiosa nella vita dell'uomo quale essa si presenta, resterà senza risultato se fin dall'inizio non è una educazione alla rinuncia. Il tirocinio morale che appartiene anche, da un certo punto di vista, alla scienza della natura con l'ascesi dei superamenti, qui però diventa più radicale, dal momento che si incontrano due libertà. In ogni caso è inseparabile dal tirocinio nel conoscere religioso. Si può comprendere quindi che i Padri della Chiesa abbiano considerato come la formula fondamentale della conoscenza religiosa in generale, una parola del discorso della montagna: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8). Qui è questione di "vedere". La possibilità di "vedere" Dio, cioè, in generale, percepirlo dipende dalla purificazione del cuore, con la quale si intende un processo globale in cui l'uomo diventa trasparente, non resta bloccato in sé, ma impara il dono gratuito di sé e diventa quindi un vedente. Dal punto di vista della fede cristiana lo si potrebbe esprimere così: l'esperienza religiosa all'altezza dell'esigenza cristiana ha il carattere della croce. Essa comporta ciò che è il modello fondamentale dell'essere umano: il superamento di sé. La croce libera, essa concede di essere vedenti. E ora appare che la struttura di cui parliamo non è semplicemente struttura: essa mostra la stessa realtà fattuale.

3. Esperienza cristiana

Dopo questa analisi generale dell'esperienza, vorrei infine porre una quarta tesi sul carattere specifico dell'esperienza cristiana: essa si avvia nel quotidiano dell'esperienza comunitaria, ma si sostiene, nel suo cammino, sull'ambito e la ricchezza d'esperienza storica, creati già dal mondo della fede.

Il cammino che ci conduce al trascendimento del dato e della domanda personale è reso possibile dal trascendimento nel mondo della fede, che per così dire ci lascia contemplare in esso e ci invita a unirci nello stesso itinerario. Senza alcun dubbio questo aggancio all'esperienza cristiana già vissuta si offriva con caratteri molto più ovvi all'uomo nel passato che ora. Si cresceva in un ambiente tutto impregnato dalla fede, oggi la Chiesa e l'esperienza che si vive al suo interno sono, per molti, in prima istanza, un universo sconosciuto.

Tuttavia questo mondo resta una possibilità e questo sarà il compito della educazione religiosa: aprire le porte che immettono nell'ambito di esperienza che è la Chiesa e incoraggiare a prendere parte a questa esperienza. Si può certo precisare che questo spazio di esperienza si apre soprattutto in tre maniere come mediazione d'un nuovo esperire personale:

a) la vita in comune della fede e della liturgia nella Chiesa offre per così dire un punto di appoggio esperienziale (nel senso dato da Mouroux a questa parola). Nella fede vissuta in reciprocità, nel pregare, nel celebrare, nel gioire, nel soffrire, nel vivere in comunione, la Chiesa diviene una comunità e dunque un autentico spazio di vita per l'uomo, grazie al quale la fede è esperimentata come una forza che sostiene la vita, sia giorno per giorno sia nelle crisi dell'esistenza. E là pure che prendono il loro significato le formazioni tipiche della comunità, le infrastrutture di diversi tipi in cui diviene possibile ciò che la parrocchia come grande ambito non può più offrire: l'esperienza di una comunità fondata sulla fede attraverso cui la Chiesa diviene luogo di una rivelazione concreta, luogo di "Spirito e vita".

b) Il vero credente, che si espone alle maturazioni della fede, comincia a essere una luce per gli altri; egli diviene un punto di riferimento, in cui gli altri trovano aiuto. Come grado iniziale è del tutto normale che qualcuno non sia ancora capace di ben penetrare la logica della fede, ma si dica: se questi o quegli ha la fede, dato che comprende e vive più di me, allora dev'esservi qualche consistenza nella fede e anch'io posso credere con lui. All'inizio è, per così dire, una fede mutuata, che non si rende ancora conto del suo contenuto, ma che è un atto di confidenza in un modello di vita convincente e che offre quindi all'uomo un cammino per la sua crescita. E quindi all'inizio una fede di seconda mano, la via d'accesso alla fede "di prima mano", risultato di un incontro personale col Signore. In effetti ci resterà sempre qualche cosa "di seconda mano" e ciò è anche conforme alla natura umana che ognuno cioè abbia bisogno degli altri proprio anche quando si tratta dei valori umanamente ultimi.

c) Una forma potenziata di questo fenomeno quotidiano, che appartiene alle funzioni essenziali della Chiesa, si trova nella figura del santo. I santi, in quanto sono le figure viventi di una fede sperimentata e confermata, di un trascendimento sperimentato e provato, sono essi stessi, per cosi dire, degli spazi di vita dentro i quali si può entrare, in cui la fede come esperienza è come immagazzinata, preparata antropologicamente e avvicinata alla nostra vita. In una partecipazione sempre più matura e approfondita, attraverso le esperienze ricordate, può crescere alla fine l'esperienza tipicamente cristiana nel senso più profondo della parola: ciò che la lingua dei salmi e del Nuovo Testamento chiama il «gustare il divino» (Sal 34, 9;1 Pt 2, 3; Eb 6, 4). L'uomo raggiunge così la realtà stessa e non crede più semplicemente di seconda mano.

Certamente si è costretti ad affermare con Bernardo di Chiaravalle e i grandi dottori mistici di tutti i tempi che un simile incontro «non può essere che per un breve istante, un'esperienza molto rara [6]». Essa resta in questa vita una anticipazione per spunti e non deve divenire il fine in sé. In tal caso la fede diventerebbe un compiacimento di sé invece di essere un superamento e ciò equivarrebbe a un venir meno alla propria essenza. Tali momenti sono sottomessi alla legge dell'esperienza del Tabor: essi non sono un luogo di soggiorno, ma un incoraggiamento, un conforto per entrare in maniera nuova nella vita quotidiana, muniti della parola di Cristo e per comprendere che il cono luminoso della vicinanza divina è presente là dove si avanza muniti della Parola.

Se vogliamo riassumere tutto quanto finora s'è detto, possiamo dire che ci sono tre specie di esperienza cristiana.

a) L'esperienza della creazione e della storia che si offre a ogni uomo nei superamenti del superficiale e come cammino per l'incontro con le profondità.

b) L'esperienza della comunità cristiana e dell'uomo cristiano, esperienza in cui sono aperte le vie che permettono di trascendere la creazione e la storia e dunque in cui il primo tipo di esperienza è predisposto, è potenziato, è adattato nel senso cristiano.

c) A partire da questa consonanza del primo e del secondo tipo si sviluppa poi l'esperienza del tutto personale con Dio in Cristo, e infine l'esperienza propriamente soprannaturale da noi descritta.

La catechesi generalmente tiene conto solamente dei primi due tipi. È invece d'importanza decisiva per la dinamica della fede che spinge a progredire il non essere sacrificata a vantaggio di un circolo elementare di offerta e di domanda, che blocca l'uomo nel dato immediato, proprio nel momento in cui dovrebbe essere liberato e condotto al largo.

     

[1] R. BRAGUE, Was heisst christliche Erfahrung? in: «Internat. Zeitschrift», p. 492. 

[2] Ibidem, p. 492.

[3] W. BEINERT, Die Erfahrbarkeit der Glaubenswirklichkeit, in «Mysterium der Gnade. Festschrift für J. Auer», p. 137.

[4] H.U. von Balthasar, Gotteserfahrung biblisch un patristisch, in: «Internat. Kath. Zeitschrift » 5 (1976), pp. 497-509.

[5] Ibidem, p. 508.

[6] L. SCHEFFCZYK, Die Erfahbarkeit  der göttlichen Gnade, in: H. ROSSMANN, J. LRATZINGER (a cura di) Mysterium der Gnade, Festschrift für J. Auer, Regensburg 1975, p.151.

 

J. RATZINGER, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul mistero, a cura di G. Canobbio, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 81-92.