L'atteggiamento interiore di chi esercita la scienza come professione

    

Fin qui quanto mi sembrava necessario dire sulle circostanze esteriori della professione di studioso. Tuttavia credo che in realtà ciò di cui voi volete che io parli sia altro, l'intima vocazione professionale per la scienza. Al giorno d'oggi ciò che determina l'atteggiamento interiore di chi esercita la scienza come professione è soprattutto la considerazione che la scienza ha ormai raggiunto un livello di specializzazione sconosciuto in precedenza, insieme alla convinzione che questo stato di cose in futuro non cambierà. Tale situazione non è soltanto esteriore, ma anche e soprattutto interiore: è solo attraverso una rigorosa specializzazione che il singolo studioso può essere sicuro di ottenere realmente dei risultati di senso compiuto in ambito scientifico. Su tutti i lavori che, come talvolta ci accade di fare, e come per esempio proprio per i sociologi sarà inevitabile continuare a fare, sconfinano in campi contigui, grava la rassegnata consapevolezza che nella migliore delle ipotesi possiamo offrire allo specialista degli utili interrogativi a cui egli, dalla sua prospettiva speciali-stica, non giunge tanto facilmente, ma che il nostro lavoro resterà necessariamente in massima parte incompleto. È solo attraverso una rigorosa specializzazione che l'uomo di scienza per la prima e forse unica volta nella sua vita può dirsi sicuro di aver realizzato qualcosa che durerà nel tempo. Oggi una realizzazione realmente valida e definitiva è sempre frutto della specializzazione. E chi non è capace di infilarsi i paraocchi e convincersi fino in fondo che il destino della sua anima dipende proprio dall'esattezza di quella particolare congettura su quel passo di quel manoscritto, costui è bene che non si avvicini affatto alla scienza, perché non riuscirà mai a «fare esperienza» dentro di sé della scienza. Senza questa strana ebbrezza derisa da tutti, senza questa passione per la riuscita della tua congettura, senza questo «millenni dovevano passare prima che tu nascessi, e altri attendono ancora silenziosi», senza tutto questo non c'è vocazione professionale per la scienza, ed è meglio dedicarsi a qualcosa d'altro. Per l'uomo in quanto tale non ha nessun valore ciò che egli non è capace di fare con passione. Di fatto, però, per quanto grande sia questa passione, per quanto genuina e profonda essa sia, il risultato non può, essere estorto con la forza. La passione è solo una condizione preliminare del fattore decisivo, che è invece l'«idea geniale». È ben vero che oggi nei circoli giovanili è ampiamente diffusa la convinzione che la scienza sia ormai divenuta un semplice calcolo costruito nei laboratori o negli schedari statistici «come in una fabbrica», col solo intelletto e non con tutta l'«anima». Ma ciò fa solo capire come spesso non si abbia la minima idea né di ciò che avviene in una fabbrica, né di ciò che avviene in un laboratorio. Nell'uno e nell'altro caso all'uomo deve venire in mente un'idea, e soprattutto l'idea giusta, per poter realizzare qualcosa di valido. Quest'idea non può essere ottenuta con la forza, non ha nulla a che fare con un freddo calcolo.

Certo, anche il calcolo è una condizione preliminare da cui non si può prescindere. Nessun sociologo, per esempio, nemmeno in età avanzata, può sottrarsi al compito di svolgere mentalmente, magari per diversi mesi di seguito, decine di migliaia di banalissimi calcoli. Per spremerne qual-cosa si cerca di scaricare il tutto sui supporti meccanici. sebbene spesso con esiti modestissimi. Ma se non «viene in mente» nulla sull'obiettivo del calcolo e, durante il calcolo, sulla portata dei singoli risultati, non se ne trarrà neppure quel poco. Di solito è solo un duro lavoro che fa maturare un'idea. Certo, non sempre. L'idea di un dilettante può avere una rilevanza scientifica uguale o anche maggiore di quella dello specialista. È proprio ai dilettanti che dobbiamo molti dei nostri migliori interrogativi e delle nostre conoscenze. Come disse Helmholtz a proposito di Robert Mayer, ciò che manca al dilettante rispetto allo specialista è solo una precisa padronanza del metodo di lavoro, sicché il più delle volte egli non è in grado di controllare e valutare la portata della propria idea, o di applicarla. L'idea non sostituisce il lavoro. E da parte sua il lavoro non può sostituire o produrre forzatamente un'idea, non più di quanto possa farlo la passione. Tutti e due, e in particolare tutti e due insieme, la favoriscono. Ma lei viene a suo, non a nostro piacimento. E un dato di fatto che le idee migliori vengono fumandosi un sigaro sul divano, come dice Ihering facendo una passeggiata lungo una strada in leggera salita, come - con precisione scientifica - racconta di se stesso Helmholtz, oppure in qualche altro modo analogo, ma sempre quando meno le si aspetta, e non durante le lunghe riflessioni e i tentativi alla scrivania. Solo che non sarebbero venute in mente se uno non avesse prima sperimentato le lunghe riflessioni alla scrivania e l'indagine appassionata. Comunque sia, l'uomo di scienza deve tener conto anche del caso, che pervade ogni lavoro scientifico: viene o non viene questa «idea geniale»? Si può essere grandi lavoratori e ciò nonostante non aver mai avuto una propria idea valida. Ma è un errore marchiano credere che ciò avvenga solo in ambito scientifico, che per esempio in un ufficio commerciale le cose vadano avanti diversamente da un laboratorio. Se un commerciante o un grande industriale fosse privo di «fantasia commerciale», restasse cioè senza il conforto delle idee, e di idee geniali, rimarrebbe per tutta la vita nella migliore delle ipotesi un impiegato o un quadro tecnico, perché non ideerebbe mai nuove forme organizzative. Non è assolutamente vero che, come crede la boria dei dotti, in ambito scientifico l'idea geniale abbia un ruolo più importante che nella soluzione dei problemi della vita pratica cui si dedica il moderno imprenditore.
Dal lato opposto, il suo ruolo non è peraltro inferiore a quello che essa ricopre in ambito artistico - altro fatto spesso misconosciuto. È puerile pensare che un matematico possa ottenere un qualsiasi risultato di valore scientifico seduto alla scrivania con un regolo calcolatore o con altri strumenti meccanici o macchine calcolatrici. Ovviamente l'immaginazione matematica di un Weierstrass ha una conformazione del tutto diversa ed è qualitativamente differente dall'immaginazione di un artista. Non però il rispettivo processo psicologico. In entrambi i casi c’è bisogno dell’ebbrezza (nel senso della platonica mania) e delle «idee geniali».
Ora, che a qualcuno vengano idee geniali in ambito scientifico dipende, oltre che da destini a noi ignoti, anche dal «talento». E anche in base a questa indubbia verità che un determinato atteggiamento, oggi comprensibilmente molto popolare proprio tra i giovani, si è posto al servizio di taluni idoli il cui culto vediamo diffondersi a ogni angolo di strada e su tutti i giornali: idoli come la «personalità» e l'«esperienza vissuta». Essi sono strettamente connessi l'uno all'altro, dato che si ritiene che il secondo sia costitutivo del primo e che vi appartenga. Ci si affanna a «fare esperienze» (perché proprio questo fa parte dello stile di vita che si addice a una personalità), e se non vi si riesce si cerca di fare almeno come se si possedesse un simile talento innato. Una volta questa «esperienza vissuta» era chiamata semplicemente «sensazione», e credo che tutti avessero un'idea più esatta di che cos'è e che cosa significa la «personalità».
Cari signori, in ambito scientifico ha «personalità» solo colui che si pone esclusivamente al servizio della cosa stessa! E non solo in ambito scientifico è così. Non conosciamo nessun grande artista che abbia fatto qualcosa di diverso dal porsi al servizio del proprio oggetto. Nemmeno una personalità della levatura di Goethe ha potuto prendersi la libertà di voler fare della propria vita un'opera d'arte senza che questo si ripercuotesse sulla sua produzione artistica E se anche non si fosse d'accordo con questa valutazione, resta il fatto che bisogna essere appunto un Goethe per poterselo permettere, e in ogni caso si dovrà ammettere che anche per uno come lui, di cui ne nasce uno ogni mille anni, questo atteggiamento non è rimasto senza conseguenze. Non diversamente avviene nella politica. Ma questo non è l’argomento odierno.
Tornando alla scienza, non è certo una «personalità» colui che, come una sorta di impresario teatrale, sale sul palcoscenico insieme alla cosa di cui si dovrebbe occupare e cerca di legittimarsi portando la propria «esperienza vissuta», colui il cui problema è: come posso dimostrare di essere qualcosa di più di un semplice «esperto», come posso giungere a dire qualcosa che, nella forma o nella sostanza, nessuno ha mai detto prima di me in quello stesso modo? Oggi si tratta di un fenomeno di massa che ovunque suscita una certa sensazione di meschinità. Un simile problema è fonte di discredito per chi se lo pone, mentre solo la dedizione al proprio compito ed esclusivamente a esso potrebbe elevarlo all'altezza e alla dignità della cosa stessa che egli dice di servire. Anche da questo punto di vista, nel caso dell'artista non va diversamente.


Progresso scientifico, razionalizzazione, disincantamento del mondo

A fronte di queste condizioni preliminari che il nostro lavoro condivide con l'arte sta però un destino che lo differenzia nettamente dall'operare artistico. Il lavoro scientifico si inserisce nel flusso del progresso. Nel campo dell'arte, invece, non c'è progresso (in questo senso). L'opera d'arte di un'epoca che ha elaborato nuovi strumenti tecnici o, per fare un esempio, le leggi della prospettiva, non è per questo superiore, da un punto di vista strettamente artistico, a un'opera d'arte sprovvista della conoscenza di tali strumenti e tali leggi, purché quest'ultima sia appropriata nella forma e nei materiali, vale a dire purché abbia scelto il proprio oggetto e gli abbia dato forma in maniera tale da ottenere effetto artistico senza dover fare uso di quelle condizioni e di quegli strumenti. Un'opera d'arte realmente «riuscita» non è mai sorpassata, non invecchierà mai.
Ognuno può valutarne diversamente l'importanza in base a proprie considerazioni personali, ma nessuno potrà mai dire di un'opera d'arte realmente «riuscita» dal punto di vista artistico che sia stata «superata» da un'altra opera d'arte, anch'essa «riuscita». Invece in campo scientifico ognuno di noi sa che in dieci, venti o al massimo cinquanta anni il suo lavoro sarà invecchiato. Questo è il destino, anzi, il senso del lavoro scientifico, e ad esso la scienza si assoggetta e si consacra in una maniera che è assolutamente peculiare rispetto a tutti gli altri aspetti della cultura di cui si può dire la stessa cosa: ogni «riuscita» scientifica implica il sorgere di nuove domande e deve essere superata, e quindi invecchiare. A questo è necessario che si rassegni chiunque voglia dedicarsi alla scienza. È vero che alcuni lavori scientifici possono restare importanti a lungo, vuoi come «strumenti di piacere» per la loro qualità artistica. vuoi come strumenti per la formazione professionale. Ma quello di essere superati dal punto di vista scientifico, lo ripeto, non solo è il nostro destino comune, ma è anche il nostro scopo. Non possiamo lavorare senza insieme sperare che altri, in futuro, si spingano più avanti di noi. In linea di principio questo progresso tende all'infinito. Giungiamo così al problema del senso della scienza. Infatti, non è per nulla ovvio che ciò che resta soggetto a una simile legge sia in se stesso ragionevole e sensato. Perché ci si dà da fare intorno a qualcosa che in realtà non giunge, e non potrà mai giungere, a una conclusione? Certo, per scopi puramente pratici e, in senso lato, tecnici: per programmare il nostro agire pratico in base alle attese suscitate dall'esperienza scientifica. Ma questo ha importanza solo per l'uomo d'azione. Qual è invece l'intimo atteggiamento dell'uomo di scienza verso la propria professione, ammesso che egli aspiri ad averne uno? Egli afferma di esercitare l'attività scientifica in maniera fine a se stessa, e non solo perché altri possano trarne dei vantaggi tecnici o economici, perché si possano meglio vestire, nutrire, illuminare o governare. Ma che cosa pensa di ottenere di sensato con delle creazioni che sono inesorabilmente destinate all'invecchiamento, aggiogandosi a un'attività settoriale che non giunge mai al termine? Sono necessarie alcune considerazioni di ordine generale.
Il progresso scientifico costituisce un frammento, il frammento più importante, di quel processo di intellettualizzazione a cui sottostiamo da millenni e contro il quale oggi si è soliti prendere posizione in maniera così straordinariamente negativa.
Anzitutto va chiarito il significato concreto di questa razionalizzazione intellettualistica che avviene per mezzo della scienza e della tecnica guidata dalla scienza. Forse si tratta del fatto che noi oggi - per esempio chiunque sieda ora in questa sala - abbiamo una conoscenza migliore delle condizioni in cui si svolge la nostra vita di quanta non ne abbiano un indiano o un ottentotto? Difficile. Mentre viaggiamo in tram non abbiamo la minima idea di come esso faccia a muoversi, a meno che non siamo dei fisici. Ma neppure abbiamo bisogno di saperlo. Ci basta poter «fare assegnamento» sul comportamento della vettura e adeguarvi il nostro, mentre nulla sappiamo di come si costruisca un tram capace di muoversi. Il selvaggio conosce i suoi strumenti in maniera incomparabilmente migliore di noi.
Quando oggi spendiamo del denaro, scommetto che perfino gli eventuali colleghi di economia politica presenti in sala avranno pronta ciascuno una risposta diversa alla domanda su come è possibile che per mezzo del denaro si possa comprare qualcosa - a volte tanto, a volte poco. Invece il selvaggio sa benissimo come procurarsi il cibo quotidiano, e quali istituzioni gli servano. Dunque la crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita a cui si è soggetti, ma qualcosa di molto diverso: la consapevolezza, o la fede, che se solo lo si volesse, si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di principio non sono in gioco forze misteriose e irrazionali, ma al contrario che tutte le cose possono - in linea di principio - essere dominate dalla ragione. Ciò non è altro che il disincantamento del mondo. Non è più necessario, come faceva il selvaggio (per il quale quelle forze esistevano), ricorrere agli strumenti della magia per dominare o ingraziarsi gli spiriti. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici. Questo è il significato primario dell'intellettualizzazione in quanto tale.
Ma questo processo di disincantamento che nella cultura occidentale è in corso ormai da millenni, e in generale questo «progresso» di cui fa parte anche la scienza sia come elemento, sia come forza motrice, ha forse un senso che oltrepassi la dimensione meramente pratica e tecnica? La formulazione più radicale di questa domanda la si trova nelle opere di Lev Tolstoj. Egli vi giunse per una sua via molto particolare. Tutte le sue riflessioni ruotavano sempre più intorno alla domanda se la morte abbia o non abbia un senso.
La sua riposta fu: per l'uomo acculturato non lo ha. E non lo ha perché, per il suo stesso senso immanente, la vita individuale civilizzata inserita nel «progresso», nell'infinito, non dovrebbe avere mai fine. C'è sempre un altro progresso da compiere. Nessuno che muore è giunto all'apice della parabola, perché l'apice è posto all'infinito.
Abramo, come qualsiasi contadino dei tempi antichi poteva morire perché apparteneva al ciclo della vita organica, perché anche in relazione al proprio senso la vita gli aveva ormai dato, sul finire dei suoi giorni, quanto poteva offrirgli, perché non rimaneva più alcun mistero che egli desiderasse risolvere. Perciò per lui era possibile averne abbastanza. Invece l'uomo acculturato inserito nel processo di arricchimento della civiltà in idee, in sapere e in problemi potrà anche divenire «stanco» della vita, mai però «sazio», perché di ciò che la vita dello spirito continuamente genera egli coglie sempre solo la minima parte e sempre solo qualcosa di provvisorio, nulla di definitivo. Per questo la morte è per lui un'entità priva di senso. Ed essendo la morte senza senso, lo è anche la vita acculturata in quanto tale, che anzi proprio con la sua insensata «progressività» segna la morte di insensatezza. In tutti i romanzi dell'ultimo Tolstoj si incontra quest'idea come motivo fondamentale della sua arte.

 

 

 

M. WEBER, La scienza come professione, Bompiani,  Milano 2008pp. 75 - 91