Il filosofo Augusto del Noce espone in questo saggio le radici politico-filosofiche della rivoluzione tecnologica contemporanea, esaminando la complessità delle relazioni che essa instaura con la società umana, l’economia, la cultura e la religione. A preoccupare il filosofo è in particolare la valenza morale della tecnologia e le risorse che la società secolarizzata ha (o non ha) a disposizione per determinarne il corretto orientamento al servizio dell’uomo e della sua promozione integrale.
1. Il problema
Se c'è un problema oggi urgente, è quello di adeguare i partiti politici alle nuove condizioni culturali e sociali: prima di tutto, nella veduta chiara di quali esse siano. Affrontarlo è ora un compito indilazionabile. Comincerò perciò con una riflessione sui tratti nuovi della situazione presente.
Vent'anni fa il discorso sulle minacce e sulle speranze aveva per oggetto il marxismo; attraverso un processo silenzioso, il problema si è oggi completamente spostato.
Pochi oggi pensano al marxismo, nel suo aspetto messianico, come all'evento possibile nel futuro prossimo; ma invece alla civiltà tecnologica, quali che siano i partiti che possano essere gli interpreti del suo avvento. Certo, nulla esclude oggi il successo comunista, o il predominio russo sull'Europa; anzi, a mio avviso, è alquanto aumentata la sua possibilità, ma si presenta in forme del tutto diverse da quelle del '17 o del '47. Anche un partito comunista al potere non potrà che fare i conti con un mondo tecnologico che non è stato esso a creare; e che sembra avere attualmente il privilegio della "novità". Il comunismo, nella sua vecchia versione, non è più sentito come "l'avanguardia".
Dobbiamo ora riconoscere che nell'apprezzamento di questa civiltà tecnologica c'è tra i cristiani; e non tra i cattolici soltanto, un grande disorientamento.
Qualcuno è incline a una visione catastrofica: le valutazioni, in questo nuovo tipo di società, hanno cancellato l'ultimo vincolo che legava al cristianesimo una morale che pur si diceva laica; onde non rimarrebbe al cristiano altra via che il rifugio in "catacombe morali" e la fiducia e la speranza nella Provvidenza; cioè in un'azione di "conversione dei cuori" che non può essere umana. Unico compito intellettuale per il cattolico sarebbe, al presente, il descrivere la lontananza di questo mondo dall'ideale cristiano; di non partecipare per nulla alle valutazioni che esso introduce e che sono destinate a diffondersi tra le masse, senza che forze puramente umane possano porre un valido argine al loro dilagare; politico, attenersi al principio del minor male, il che non sarà certo una via risolutiva, ma almeno permetterà di ritardare.
Altri pensano invece che la nuova situazione esiga che la verità cristiana, per sé trascendente a ogni civiltà, venga ripresentata in una forma nuova; le forme della religione cambierebbero cioè col divenire della storia. Principio estremamente pericoloso che già il Rosmini criticava in pagine poco note, ma stupendamente belle, discutendo le teorie religiose di Benjamin Constant [cfr. Frammenti di una storia dell'empietà, oggi ristampati con un importante saggio introduttivo di A. Cattabiani, presso Borla, Torino, nella collezione "Documenti di Cultura Moderna"]; e che, alla fine, porta alle degenerazioni di certo attuale neomodernismo.
Altri ancora: la civiltà tecnologica, o civiltà del benessere, o civiltà opulenta (è chiaro che questi termini vengono usati, come sinonimi, in senso deprezzativo), è avversa così al marxismo come al cristianesimo. Non sarebbe perciò questo il vero momento del dialogo?
Vi sono poi due altri discorsi possibili. Il primo è quello che, con chiarezza pari al rigore, è stato svolto da Sergio Cotta [nella sua relazione al Convegno della D.C. di Lucca – gli Atti sono pubblicati dalla Editrice Cinque Lune – e nel suo recente volume La sfida tecnologica, II Mulino, Bologna 1968]. L'altro è quello che, nelle sue linee generali, mi sforzerò di svolgere in questo articolo: e che non vuole essergli opposto, ma complementare.
2. La tesi di Sergio Cotta
Per il Cotta, la Chiesa e la coscienza cattolica hanno saputo raggiungere in questi ultimi anni degli indiscutibili progressi; cioè, il riconoscimento del valore positivo della trasformazione in senso democratico dell'assetto politico, e la consapevolezza che in regime di libertà la parola della Chiesa non viene soffocata, ma trova maggiori possibilità di risonanze, nella libera coscienza di liberi cittadini. Tuttavia, qualcosa di essenziale manca ancora, perché torto comune alla grande maggioranza dei cattolici è quello di non essersi accorti del radicale mutamento del mondo di oggi; il che fa tutt'uno con la permanenza di una vecchia abitudine tipica della linea prevalente del cattolicesimo ottocentesco, quella del disconoscimento dei valori positivi del mondo moderno e porta all'oscillazione tra l'ideale di un'impossibile restaurazione del premoderno e quello della conciliazione con un pensiero rivoluzionario, che è ateo e anticristiano nella sua essenza.
Riflettiamo invece: l'attuale sviluppo tecnologico altro non è che la piena esplicazione di ciò che già era preparato dagli inizi del mondo moderno. L'uomo si è sollevato dalla terra, ha disintegrato la materia, si è impadronito dei segreti della natura, la sconvolge e la plasma in attesa di dominarla nei suoi più reconditi segreti. L'uomo si sente creatore e redentore del mondo, e non può fare a meno di esserlo, dacché si è sollevato al di sopra dei suoi condizionamenti e degli automatismi della natura. Superbia umanistica? o non invece affermazione di ciò che distingue il cristianesimo dalle altre forme religiose, l'idea della trascendenza dell'uomo alla natura? C'è il fatto che così la sentirono i primi suoi affermatori, Bacone e Cartesio; regnum hominis, ma come piena esplicazione della vocazione data da Dio agli uomini.
Quella che ai primi del '600 poteva apparire utopia si sta oggi realizzando pienamente. Ma davanti a questo fatto capitale, che è la mediazione tra i secoli passati e il mondo di domani, i cattolici, e soprattutto i cattolici italiani, si comporterebbero con un semplicismo che sgomenta; ripetendo, o nella vecchia forma dei tradizionalisti o nella versione aggiornata dei progressisti, la solita condanna moralistica. Onde quelle tali designazioni del mondo nuovo con termini che implicano un significato svalutativo e peggiorativo: società opulenta, società del benessere, società consumistica, mentre si dovrebbe insistere sul fatto che non è sostituibile il termine vero, quello di società o di civiltà tecnologica, e ravvisare in essa l'elemento più positivo dell'età moderna. Risultato: una svalutazione dell'intelligenza, che spiega la diffidenza dell'intellettuale e degli scienziati verso i cattolici.
Ora, quali sono le origini di tale giudizio svalutativo, per cui al termine di civiltà tecnologica vengono sostituiti quelli del benessere o dell'opulenza, quasi si trattasse di società in cui l'interesse è portato soltanto alla parte bassa e animale dell'uomo? Per il Cotta questo giudizio rappresenta l'intrusione nel mondo cattolico di valutazioni che provengono dal marxismo e particolarmente dal primo e "romantico" marxismo; per cui curiosamente si stabilisce una connessione tra essi e il romanticismo del pensiero reazionario cattolico.
Nel passaggio dalla reazione moralistica alla formulazione teorica, tale valutazione negativa si esprime nel considerare la società tecnologica come una risposta al marxismo e quindi come un fenomeno che a esso è subalterno, quando invece è vero esattamente l'opposto. È il fatto della società tecnologica a mettere in crisi il marxismo o almeno a farlo pendere dalla parte di Engels, cioè della sua anima positivistica e scientistica. E rida' vigore alla socialdemocrazia, come è avvenuto in Germania e nei paesi scandinavi.
Da ciò l'asprezza della polemica da parte del marxismo comunista. Battuto sul piano della scienza e dei valori dell'intelligenza pura, cerca di ritornare al pensiero giovanile di Marx per ritrovarvi una carica rivoluzionaria a base umanistica e non più scientifica. Capovolgimento del comunismo scientifico in un comunismo romantico e anarchico, che però è ineluttabile, perché il progresso scientifico conferma quello che con ostentato disprezzo i marxisti-leninisti di ieri e certi intellettuali di oggi chiamano la veduta revisionistica e socialdemocratica. Rispetto agli intellettuali, tale polemica rivela che essi avevano accolto il comunismo in una disposizione anarchica, per la suggestività estetica del suo aspetto distruttivo. Se la forma eversiva rimane nei paesi sottosviluppati, è perché li il comunismo si confonde con una rivoluzione nazionalista contro il predominio di società a livello tecnico ed economico più alto; e non è un caso il fatto, solo in apparenza paradossale, che le formule del primo marxismo vengano ritrovate in Cina per ragioni che sono, più che classiste, nazionali; e che in Russia si trovi mantenuto per ragioni concorrenziali nei riguardi della Cina.
Onde la curiosissima unità reazionaria contro il "mondo di domani" tra i marxisti integrali e antirevisionisti e i progressisti cattolici. All'appello dei primi al giovane Marx fa esatto riscontro quello dei secondi a un'interpretazione sociale del messaggio degli antichi Padri della Chiesa. Al fondo di ciò sta una paurosa ignoranza e una grave carenza morale. Perché "benessere" è passaggio da una vita subumana a una vita umana, e perché l'apportare benessere è la forma in cui oggi può trovare espressione compiuta l'amore cristiano; ridotto prima, non certo per cattiva volontà dei sacerdoti, ma per la necessità che veniva imposta dall'insufficiente sviluppo tecnico, alle forme del discorso consolatorio sulle "prove" a cui Dio sottopone il cristiano e che questi deve accettare. La Chiesa è liberata dallo sviluppo tecnologico da quel ricorso all'"edificazione", che è stata una tra le maggiori origini dell'irreligione.
E sotto la spinta dello spirito scientifico, punta di diamante dell'energia tecnologica, non sotto quello delle ideologie politico-rivoluzionarie, che il mondo si trasforma, attuando, ma in un senso completamente diverso, quella che era l'idea ancora romantica del giovane Marx.
Né la società tecnologica ha la sua consapevolezza teorica nel neoilluminismo o nel neopositivismo, i cui rappresentanti devono invece essere considerati "mosche cocchiere dei progresso, ignari non addetti ai lavori, cui pur pretendono di dettar legge, dall'alto di una cultura estraniata dai veri problemi dello sviluppo".
Posto questo, è facile al Cotta asserire che la civiltà tecnologica non pone affatto in crisi il cristianesimo, e che compito attuale dei cristiani stia nel far valere la loro prospettiva teocentrica nella costruzione dei mondo di domani, e che il più grave loro errore sarebbe quello di insistere nelle loro critiche consuete, lasciando così libero il campo a coloro che informano la loro azione unicamente a uno spirito scientifico antropocentrico. Anzi, sarà proprio questo intervento dei cristiani a impedire che la civiltà tecnologica non dia luogo a un'oligarchia tecnocratica.
3. Alcune domande
Si ingannerebbe completamente chi volesse vedere nella tesi del Cotta una forma di eclettismo, nel senso di una volontà di accordo con le valutazioni di coloro che il termine secentesco designava come "i mondani". Al contrario, essa è motivata dalla profondità della sua fede religiosa. La posizione catastrofica, infatti, non cela nel suo fondo il rimpianto di qualcosa di terreno, di un certo "mondo cristiano", che non può essere identificato col Cristianesimo? E quel progressismo filocomunista di taluni cattolici, mai definibile in termini di rigore concettuale, e costretto sempre a un linguaggio allusivo, e qualcosa d'altro del ritorno periodico di uno stato d'animo che fu corrente durante la guerra e durante la Resistenza, e che alcuni di coloro che l'hanno attraversato si rifiutano di criticare, mentre l'atteggiamento del cristiano importa una continua critica di se stessi? Più ancora: direi che quella del Cotta è una veduta che sorge sulla volontà di evitare il neomodernismo, attraverso l'unica via possibile, l'accettazione di una certa positività del moderno. Ma, ora, è proprio il rispetto di questa profonda serietà a impormi l'obbligo della sincerità più completa; dunque, quello di dire nei termini più chiari le ragioni che mi portano a dissentire, pur convenendo col Cotta nella critica delle altre posizioni.
Cominciamo col mettere da parte quel che è ovvio; è indubbio che l'aumento del benessere per i meno abbienti è un dovere cristiano, anzi genericamente umano; è parimenti indubbio che l'eliminazione della fame dal mondo, atteso anche l'incremento demografico, non può essere risolta se non attraverso l'incremento di un'attività tecnica alimentato dalla scienza.
Il problema si deve dunque porre, e naturalmente è stato posto dal Cotta, in termini diversi: è vero che la scienza moderna è la esplicazione dell'intelligenza pura e che in essa si deve ravvisare il tipo dell'intelligenza? Sembra che questo sia il suo parere, anche se, naturalmente, per lui l'intelligenza non esaurisce la spiritualità. Se l'uomo fosse soltanto intelligente la civiltà tecnologica sarebbe sottoposta all'oligarchia di coloro che meglio sanno interpretare e organizzare un sistema razionalmente congegnato per la soddisfazione dei bisogni sociali, genericamente materiali. Perché ciò non avvenga, è necessario quel "supplemento di anima", secondo la frase corrente, che soltanto la religione può dare.
Possiamo ora disporre nel seguente ordine la serie di interrogativi che nascono nel riguardo della sua tesi:
1) quali siano i caratteri morali della società tecnologica; 2) quale sia il processo ideale attraverso cui la società tecnologica oltrepassa e mette in crisi il marxismo; dalla risposta a questa domanda si potrà pure intendere se l'irreligione sia o no sostanziale ed intrinseca a questo tipo di civiltà; e definire quale sia il compito dei cattolici nei suo riguardo; 3) se la civiltà tecnologica sia separabile o no per lo stesso atteggiamento essenziale che importa, e soprattutto per la tradizione storica che ritrova, dal positivismo; 4) se il tipo di intelligenza che sta a fondamento della scienza collegata con la tecnica sia il tipo in se dell'intelligenza; o se invece questo tipo esiga la rinuncia alla forma mentale metafisica; per cui, come prima conseguenza, di metafisica non si potrebbe più parlare, ma soltanto di scienza e di religione; soluzione tuttavia provvisoria e a termine, perché in un prosieguo di tempo che non si può calcolare esattamente, ma che tutto porta a ritenere relativamente breve, la scienza eliminerebbe totalmente la religione per ciò che eliminerebbe la dimensione stessa attraverso cui il sacro può diventare accessibile all'uomo; 5) se sia del tutto estraneo ai giudizi di valore; per cui, quando venga assolutizzato, non possa che distruggere l'autorità dei valori; e se quindi il passaggio alla civiltà tecnologica non sia ordinato alla distruzione ultima dell'autorità spirituale, e sia dunque spirito di disgregazione, e se in ragione di ciò si debba pure considerare come utopica l'idea della funzione di pace che lo spirito che l'informa dovrebbe esercitare; 6) se la civiltà tecnocratica, lungi dall'essere una civiltà liberale, non rappresenti il tipo estremo del dispotismo conservatore nella sua forma occidentale e non più orientale, cioè liberata del tutto dall'idea di un'autorità spirituale; 7) se nella civiltà tecnologica il passaggio all'oligarchia dispotica degli scienziati e dei tecnici si presenterebbe come assolutamente inevitabile e necessaria; per cui il compito dei cattolici sarebbe quello di denunciare sin dall'inizio l'irreligione che le è sostanzialmente intrinseca, e l'utopistica illusione di poterla animare religiosamente dall'interno; 8) se l'avvento della civiltà tecnologica debba presentarsi come necessario, data l'irrevocabilità del progresso scientifico o se invece il passaggio dalla scienza all'idea della civiltà tecnologica sia avvenuto per ragioni che non hanno a che fare con la scienza stessa.
4. Primato del fare
A queste domande si può rispondere che la civiltà tecnologica non può venir definita altrimenti che per la soppressione di una dimensione, la dimensione religiosa. Del resto hanno oggi molta risonanza le tesi degli scrittori di quella che vien detta scuola di Francoforte, dall'Adorno al Marcuse. Non parlano di religione nel senso proprio, è vero; tuttavia, anche per loro ciò di cui la civiltà tecnologica segnerebbe la fine è la dimensione trascendente, sia pure di una trascendenza intramondana. Importa ora definire nei termini più semplici che cosa si voglia significare con dimensione religiosa: nient'altro che questo, che c'è un ordine eterno ed immutabile di verità e di valori, con cui entriamo in contatto attraverso l'intuizione intellettuale. Che c'è, insomma, una realtà sopraumana, per vari che siano i modi in cui può venire significata. Fino a quella tale mentalità tecnologica che ha raggiunto oggi il punto culminante della sua esplicazione, tutti i popoli erano stati d'accordo nell'ammetterlo. E, del resto, come potrebbe venire recepita dall'uomo l'illuminazione della vera fede, se nulla restasse in lui, anche dopo il peccato, di questa primitiva rivelazione?
Ora, è proprio questa dimensione religiosa che viene insidiata e negata dalla forma di pensiero propria della civiltà tecnologica, in quanto essa si presenta come nuova civiltà. Serviamoci dei termini cari al Rosmini: con tale forma, al lume di ragione, organo dell'assoluto, del necessario, dell'oggettivo e dell'eterno, si sostituisce la ragione dell'uomo, individuale e soggettiva, contingente e mutabile. Ossia: nella visione tradizionale c'è un primato della contemplazione di un ordine ideale a cui la nostra azione deve conformarsi. La civiltà tecnologica gli sostituisce un Primato dell'azione, nel senso che la conoscenza umana assume il suo valore soltanto nella misura in cui può servire a dei fini pratici: la trasformazione della materia ai fini della utilità e del dominio sulle cose esercitata dall'uomo sensibile.
Naturalmente un tale punto di vista nei riguardi della conoscenza investe anche i valori pratici. Alla tesi per cui la conoscenza è limitata al mondo sensibile consegue l'affermazione che l'unica realtà che conta per l'uomo è la realtà materiale; e poiché la materia è principio di molteplicità e di divisione, ne conseguirà per l'uomo come atteggiamento pratico un individualismo che vorrà dire negazione di ogni principio superiore all'individualità. All'autorità dei valori si contrapporrà la loro "creazione", ma poiché riferito all'uomo il termine di creazione non ha significato, questa formula prenderà senso dalla negazione e distruzione radicale della tradizione.
Non abbiamo che da aprire gli occhi: chi non si accorge che al progressivo diffondersi della mentalità tecnologica si è accompagnata la scomparsa, anche o soprattutto nel linguaggio comune, dei termini di vero e di falso, di buono e di cattivo, e persino di bello e di brutto; sostituiti da quelli di "originale", di "autentico", di "fecondo", di "efficiente", di "significativo", di "opera aperta", ecc.? Con perfetta coerenza del resto. Punto di vista del primato dell'azione, inteso nei termini che si sono detti, vuol dire che non c'è nulla oltre all'umano; e se la verità non è qualcosa di superiore all'uomo essa sarà destinata a invecchiare, e in questa situazione la verità vecchia non avrà più potere di attirare l'attenzione di quel che l'abbia ad esempio, una donna vecchia. Quindi il culto del "nuovo" col correlativo spirito di distruzione.
5. Verità ed efficienza
Consideriamo ancora; che cosa deve avvenire quando gli uomini non sono più unificati da ideali o da valori soprasensibili. La ricerca del benessere si sostituisce a quella della vita buona; e non ci può essere benessere, nozione del tutto distinta da felicità, senza, appunto, sensazioni "nuove". Quindi l'intellettuale che è al servizio del pubblico, non già per elevarlo, ma per soddisfare questo bisogno di novità.
Un individuo non si sentirà unito ad un altro che in quanto ne ha bisogno per la sua sempre maggiore realizzazione sensibile. Tutto quindi deve diventare oggetto di scambio. Si parla spesso di scomparsa del pudore, e naturalmente qualcuno, anche illustre, ripete ai proposito le solite frasi della battaglia contro i tabù, della ricerca della autenticità, della lotta contro ogni tipo di mistero. Diciamo semplicemente che questa scomparsa ha un significato simbolico, quello della riduzione di ogni cosa a oggetto di scambio. Aggiungo che non sono affatto propenso ad abbellire la realtà, al modo solito di certi cattolici, che vi vedono un fenomeno di disperazione conseguente all'oscurarsi della verità. Sempre in ritardo, questi cattolici riscoprono oggi un atteggiamento che fu reale, ma ai tempi del romanticismo. Per la mentalità tecnologica non c'è disperazione, proprio nella misura in cui questa fine della verità e degli ideali non è sentita come tragedia, ma invece è presentata (o per dir meglio "mistificata", nel senso vero che il termine "mistificazione" dovrebbe oggi assumere) come liberazione.
Si potrebbe rispondermi che di questi atteggiamenti non è lo sviluppo tecnologico, come tale, ad avere colpa. Ciò è giustissimo: ma quando si parla di civiltà tecnologica non si ha in mente l'attività tecnica come tale, ma la sua assolutizzazione. Siamo nel dominio degli -ismi, cioè della perversione per cui un'attività umana che si esplica nel sensibile viene tramutata in idolo; l'arte come estetismo, l'amore come erotismo, la politica come totalitarismo.
Appare chiara allora l'inscindibilità tra civiltà tecnologica e positivismo. Chi vuole avere la più chiara definizione di questo nesso non ha che da leggere un bel libro di F. Hayek, che è una delle requisitorie più rigorose che siano state scritte contro la mentalità tecnologica o, come il suo autore dire, "ingegneristica"; quella cioè, che da luogo al tipo dell'"ingegnere sociale" controllore cosciente di una società pianificata; o che anzi giunge a pensare sul modello ingegneristico anche le attività che sembrano più lontane; ad esempio, l'attività artistica stessa.
6. L'esprit polythecnique
Dove è sorta questa mentalità scientista? All’Ecole Polythecnique di Parigi, e vi troviamo già tutti gli elementi nell'opera di Henri de Saint-Simon. Ricordiamo qualche tratto del suo pensiero. Nello sconcertante suo primo opuscolo, Lettres d'un habitant de Genève a ses contemporaines, del 1803, è enunciata l'idea di un "consiglio di Newton" formato da ventun membri eletti da tutto il genere umano e presieduti da un matematico; consiglio destinato a sostituire il Papa e il Sacro Collegio, i cui membri sono accusati di non comprendere la natura e la finalità della scienza che è destinata a trasformare la terra in un paradiso. Il suo programma è curiosamente interclassista nel senso però dell'interclassismo proprio dell'attuale sociologismo; i progetti dei rappresentanti di questo consiglio saranno infatti i soli idonei a poter stabilire i mezzi scientifici atti a prevenire "quella lotta che, per la natura stessa delle cose, è necessariamente sempre esistita" tra le due classi dei proprietari e dei non proprietari. Tutti gli uomini lavoreranno come addetti a una sola e medesima officina, diretta dal consiglio supremo di Newton, organo centrale che, unico, ha il diritto di dare comandi; e chi non obbedisce sarà trattato dagli altri "come un quadrupede".
Passiamo al successivo scritto del 1810, Introduction aux travaux scientifiques du XIX siècle, progetto di una nuova grande Enciclopedia, a cui è affidato il compito di sistematizzare e unificare tutto il sapere, riesaminato da cima a fondo e coordinato dal punto di vista del fisicismo. Vi troviamo già perfettamente precorsi i tratti di quello che oggi viene detto "fisicalismo": riduzione della morale e della politica a scienza, rifiuto come antropomorfico del ragionamento teologico, ecc. Non ha davvero torto lo Hayek quando scrive che nel leggerlo si ha l'impressione di aver sottomano un'opera contemporanea per esempio di H. G. Welis, o di Otto Neurath.
Gli stessi temi compaiono nelle opere successive, amplificati in modo tale che è sempre più chiara la prefigurazione delle idee tecnologiche oggi correnti: quella del potere scientifico e positivo a cui è conferito il compito di dirigere e trasformare il mondo, quella dell'unità degli uomini come compartecipi dell'impresa comune di operare sulla natura per trasformarla, quella della funzione sociale dell'arte per esercitare sulle masse una influenza capace di costringerle a marciare nella direzione indicata da coloro che sono i loro dirigenti naturali nella realizzazione di questa grande cooperazione, quella del livello di prosperità a cui l'uomo può arrivare attraverso l'utilizzazione delle conoscenze acquisite nel campo della scienza, quella della funzione pacifista delle tesi precedenti, perché col confidare la nuova direzione al potere scientifico viene sostituita all'organizzazione governativa e militare quella amministrativa e industriale. Infine, nel Nouveau Christianisme del 1825 viene affermato che l'organizzazione scientifico-industriale renderà a sua volta possibile il più rapido miglioramento delle condizioni morali e fisiche delle classi più povere, attuando così sulla terra il nuovo processo che impone agli uomini di comportarsi come fratelli. Ma questo nuovo cristianesimo esige una rielaborazione della teologia, la cui necessità è palese, dopo che la scienza ha aperto nuovi orizzonti alle possibilità terrene dell'uomo.
7. Tecnologia come antitradizionalismo
Dal punto di vista storico non so quindi come si possa dire che il positivismo sia soltanto una mosca cocchiera della civiltà tecnocratica, se esattamente tutte le sue idee si trovano già prefigurate nelle opere di Saint-Simon e di Comte.
Tuttavia, nel positivismo di entrambi c'era un motivo romantico che si esprimeva nell'idea di una religione dell'umanità, diretta a sostituire ma insieme a conservare, in quel che avevano di positivo, le religioni del passato. Nelle nuove forme di positivismo e di pragmatismo, questo elemento religioso è completamente caduto. La scienza di oggi si presenta come "neutrale" rispetto a ogni valore.
Questa pretesa neutralità ha portato molti cattolici a delle singolari illusioni. In particolare a questa: lo sviluppo dello spirito scientifico distrugge le religioni secolari, ma non mette per nulla in crisi la concezione cattolica, ancorata sull'eterno. Perciò civiltà tecnologica e cristianesimo sarebbero componibili. Oppure, in una visuale più ampia, si dice: tratto tipico del cristianesimo è la desacralizzazione del mondo, condizione per cui la civiltà tecnologica possa essere; in ragione di tale origine, questa civiltà è destinata a sua volta ad agire positivamente sul cristianesimo, promovendo, sia pur come occasione, la sua liberazione da tracce di tradizioni precedenti, in cui si era inserito.
La verità è precisamente l'opposto. La separazione dello scientismo da ogni pretesa religiosa avviene come ultimo logico momento necessario di quel "primato dell'azione", di cui si è già detto il presupposto antropologico. Separiamo infatti nel modo più completo questa posizione da ogni elemento contemplativo. La stessa materia verrà definita — è la frase di un illustre fisico — come un oggetto di possibili manipolazioni umane. Ne consegue che quelli che tradizionalmente venivano detti i valori assoluti — il vero, il buono, il bello — saranno privati di ogni validità universale, e altro non esprimeranno che delle preferenze soggettive. Ma perché un soggetto avrà certe preferenze piuttosto che altre? La spiegazione verrà data dalle "scienze dell'uomo" che pure misureranno il grado di utilità o di pericolosità, da questa o quest'altra idea, in relazione all'utilità della coesistenza pacifica. La soluzione è già chiara, la pretesa pericolosa è duella di coloro che ancora intenderanno parlare di Valori Assoluti, obbligatori per tutti.
Si intende quindi l'antitradizionalismo totale della civiltà tecnologica. Se l'opposizione deve essere fissata nei termini di rivoluzione e di reazione, possiamo ben dire che la rivoluzione tecnologica è più radicale di qualsiasi rivoluzione politica. Ciò perché essa solo riuscirebbe a realizzare veramente quello che è uno dei fini delle rivoluzioni politiche che intendevano "cangiare l'uomo", la soppressione della dimensione trascendente.
È ora un fatto che l'idea della rivoluzione tecnologica ha prevalso, e tende sempre più a prevalere, sulla posizione rivoluzionaria marxista. Come questo è avvenuto?
8. Marxismo e tecnologia
Se consideriamo il problema nella sua massima generalizzazione teorica, dovremmo rispondere che la civiltà del benessere (si è già visto come civiltà tecnologica, civiltà del benessere, o società opulenta siano termini sinonimi) è l'unica possibile risposta borghese e laica al marxismo, e che essa avviene per una contraddizione che è intrinseca al marxismo stesso. Perciò la civiltà tecnologica sconfigge il marxismo nel senso che se ne appropria tutte le negazioni rispetto ai valori trascendenti, portando al limite la condizione stessa della negazione, cioè l'aspetto per cui il marxismo è un relativismo assoluto; col risultato di capovolgere il marxismo in un assoluto individualismo, il che serve a conferirle le false apparenze di "democrazia" e di continuazione dello spirito liberale.
Per mettere in rilievo il cedimento marxista non abbiamo che da osservare come la mistica rivoluzionaria sia misurata dal tempo. Perché essa può durare soltanto finché dura la lotta a morte contro un avversario che è storico e non eterno; normalmente quindi non più di una generazione; finito il periodo "mistico", una parte di coloro che furono guide nella lotta, si associano a quelli che si sono schierati dalla parte dei vincitori dopo il successo, e si costituiscono in una nuova classe, eliminando come "anarchica" quella parte che è costituita dai rivoluzionari puri. I sopravvissuti vagheranno per il mondo, continuando sino alla morte a parlare di una rivoluzione tradita, incompiuta, sconosciuta, senza però trovare mai le condizioni sufficienti per costituire una forza politica.
Osserviamo come stia qui una delle differenze capitali tra la religione cristiana e la marxista; l'assenza dell'utopia fa sì che nel cristianesimo la lotta tra la città di Dio e la terrena si presenti come eterna, e sia radicalmente bandito dalla terra l'ottimismo di una definitiva riuscita della "città di Dio"; o anzi sia da ravvisare in questo ottimismo l'essenza dell'eresia.
Nel marxismo il passaggio pratico a una rivoluzione totale, implicante una somma enorme di sacrifici e di rischi, importa l'idea di un assoluto; per dare giustificazione piena all'azione rivoluzionaria è necessaria una "formula ideale". Questa formula non può esser altro che il materialismo dialettico; il materialismo è necessario per dissacrare le forme precedenti e per mostrare la relatività storica; il termine di dialettica è parimenti necessario per mostrare la necessità storica del rovesciamento.
Ma tra il momento della negazione di ogni principio eterno e la ricerca pratica dell'assoluto c'è un'evidente contraddizione, Quindi il passaggio dal marxismo a un radicale positivismo che in riferimento alle discipline concernenti l'uomo si manifesta come sociologismo o come relativismo assoluto, si presenta insieme come estremamente facile e come inconfutabile. La critica marxista delle ideologie non si fonda forse sul principio che tutto ciò che sorpassa la verifica immediata, tutto ciò che insomma è metafisico, si spiega come espressione della situazione storico-sociale di un gruppo, dunque col sensibile, quando al sensibile sia data la massima estensione tale da comprendere lo stesso mondo umano? Non professa il marxismo la concezione espressivistica e strumentalistica del pensiero, cioè l'esatto inverso di ogni forma del pensiero metafisico? E come sostenere allora una concezione ancora così pervasa di metafisica come il materialismo dialettico? Si può perciò pensare che la vera conclusione teorica del marxismo dovrebbe essere l'abolizione della filosofia, nel senso che sarebbero oggi maturate le condizioni per estendere il discorso scientifico dal mondo naturale alla realtà storica. Il sociologismo, come critica della filosofia in nome della sociologia, stabilirebbe la condizione della vera scienza storica in quanto attraverso la spiegazione dal basso delle origini delle idee, che in fondo sarebbe una estensione tale del materialismo storico da abolire il suo passaggio al materialismo dialettico, libererebbe la storia da ogni traccia di filosofia della storia, e porrebbe con ciò le condizioni di una storia che sia veramente tale come scienza.
9. "Esprit bourgeois" e marxismo
Il rapporto tra l'empirismo della civiltà tecnologica e il marxismo è simile a quello del marxismo rispetto a Hegel. Come Marx aveva separato l'hegelismo dagli aspetti platonici, così il prammatismo che sta alla base della civiltà tecnologica separa il marxismo dagli aspetti hegeliani, e porta all'estremo l'antiplatonismo marxista. Cancellando ogni sopraindividualità dei valori, esclude completamente ogni spirito rivoluzionario; al collettivismo dell'"uomo generico" sostituisce l'individualismo più completo; accetta perciò il progresso nella e per la conservazione dell'ordine sociale borghese. Dunque, è insieme la conservazione più rigorosa e la negazione più completa del marxismo. Perché tutti i suoi aspetti antireligiosi e antitradizionalisti dal punto di vista morale ed estetico vengono portati al limite; se il marxismo è ricerca di umanizzazione e di desacralizzazione radicale, questo è il suo vero esito.
Marxismo ripensato in senso empirista, dicevamo; ma che perfettamente si accorda con l'individualismo dello spirito borghese, che finalmente trova attraverso esso la maniera di sbarazzarsi completamente da ogni subordinazione alla tradizione.
Di fatto, si potrebbe agevolmente dimostrare come la civiltà tecnologica realizzi, universalizzandolo, attraverso la soppressione dell'antagonismo delle classi, il tipo del borghese puro, quale era stato descritto da Marx nel Manifesto. Ma c'è da stupirsi? Secondo la sentenza vichiana, nell'infanzia dell'umanità l'azione della Provvidenza si esplicava come incivilimento, servendosi per fini universali dei fini particolari che gli uomini si proponevano. Non è quindi naturale che nell'età dell'espansione dell'ateismo il processo si rovesci e l'eterogenesi dei fini giuochi in modo inverso? Che l'esito ultimo della rivoluzione marxista sia la realizzazione del tipo del borghese puro sarebbe una conferma della verità vichiana, applicata allo sviluppo dell'ateismo e della desacralizzazione.
Cenno troppo breve, questo, certamente. Tuttavia vi si può veder profilata una conseguenza importante: dal fatto che la civiltà tecnologica sia in contraddizione così con il cristianesimo, come con il vero marxismo, non deriva per nulla una possibilità di intesa tra cattolici e comunisti. Si deve anzi dire l'opposto: che se l'esito ultimo del marxismo, nella reazione difensiva che ha provocato nel mondo laico-borghese che è la sua antitesi, è stata questa, vi sarebbe la possibilità per il vero marxista di un'autocritica.
10. Crisi di sviluppo?
Qualcuno obietterà certo che nella società tecnologica non vi è persecuzione religiosa diretta e che la libertà e la democrazia vi vengono rispettate. Aggiungerà poi che la civiltà tecnologica è una realtà irreversibile, e che non c'è altra via che cercare di spiritualizzarla dall'interno. È questa la via pigra, quella che normalmente si segue. Se non si vuole adeguarsi alla via della maggioranza, che è quella di conformarsi al nuovo ordine delle cose, si cercherà di distrarre l'attenzione da quegli aspetti della società presente che sono più minacciosi. C'è sempre spazio per le frasi fatte: crisi di adolescenza, crisi di sviluppo, come fenomeni che necessariamente accompagnano un ritmo accelerato di sviluppo. L'ottimista a ogni costo vedrà nella stona di oggi un processo di liberazione dalla schiavitù. Questo processo reale avrà pure i suoi costi... E d'altra parte la morale o religione che sono oggi in crisi erano qualcosa d'altro di una morale e di una religione ipocrite e apparenti? Non so quante volte ho letto questi discorsi o altrettali di senso simile: consiglierei qualcuno a raccoglierli in un dizionario commentato dei luoghi comuni.
Prevedo certo l'obiezione: se nella società tecnologica non vi è persecuzione religiosa e libertà e democrazia vengono rispettate; se poi il processo di affermazione di questo nuovo tipo di civiltà è irreversibile; allora chi dice che esso è essenzialmente anticristiano è costretto dalla logica a riconoscere che il cristianesimo è destinato a morire. Chi veramente è cristiano deve perciò pensare che, per forti che possano apparire queste obiezioni, non sono però insuperabili; e mantenere la tesi che la civiltà tecnologica è spiritualizzabile dall'interno, anche se può essere difficile vederne esattamente la via, e anche se il compito è certamente arduo. Il cattolico trova nella sua fede la forza contro la disperazione, per forti che siano le tentazioni disperate. Ancora un secolo fa cattolicesimo e principio di libertà, cattolicesimo e democrazia apparivano realtà inconciliabili; e i ragionamenti reazionari di allora non avevano minor forza apparente di quella dei critici della realtà di oggi.
11. Tecnologia e religione
Ma, vediamo: apparentemente la civiltà tecnologica lascia aperto un posto alla religione, nel senso che distingue tra il verificabile e l'inverificabile. Da una parte la zona del profano, dall'altra quella del sacro. E qualcuno aggiungerà che questo significa una purificazione del sacro, nel senso che è tolta ogni sua commistione col profano. Ma, attenzione!, di fatto nella comune coscienza della civiltà tecnologica il verificabile, sarà il reale, l'inverificabile illusione soggettiva. Supponendo anche una posizione più temperata, la religione sarà ridotta alla sua funzione vitalizzante. Con ciò, sarà posta sullo stesso piano delle droghe; e non è affatto certo che considerata sotto questo aspetto sia la più efficace. Personalmente penso che in questa subordinazione dell'aspetto di verità delle religioni a quello di forza vitalizzante, il che importa fra l'altro che le sue affermazioni metafisiche e i suoi dogmi non siano considerati che come simboli e giudicati non nella loro verità, ma nell'attitudine a esercitare questa funzione stimolante, stia l'essenza della bestemmia.
La radicale opposizione, senza mediazione possibile distrugge ogni comunicazione tra coloro che ancora si troveranno nei vecchi valori e gli assertori del "nuovo". I fedeli ai primi saranno socialmente gli esclusi; nei limiti in cui vorranno modellare rigorosamente le proprie valutazioni e la propria vita sulle verità in cui credono; il rifiuto totale dello scandalo, e, nei più moderati, la falsa pietà per il peccatore caratterizzano questa società colta. Falsa pietà: perché non è più la pietà per chi è cosciente del suo peccato e della miseria del suo stato: anzi! Saranno dunque, questi ultimi fedeli, considerati come gli appartenenti a una razza morale inferiore, destinata a scomparire. Non è esagerato dirlo, saranno, per questo abbandono, i "poveri" di domani quando l'opulenza avrà cancellato la miseria.
Né di libertà né di democrazia si potrà veramente parlare: nel loro riguardo, la "mistificazione", usiamo pure il termine marxista, giungerà veramente al punto ultimo. Perché, se non ci sarà alcuna comunicazione ideale tra gli individui, e se ogni individuo sarà visto dall'altro unicamente come strumento della propria realizzazione, di quale ordine si potrà parlare se non di quello della reciproca schiavitù, o della schiavitù resa veramente universale? Che gli schiavi godano materialmente del benessere ha ben poca importanza.
Fine della religione, della libertà e della democrazia, che sarà pure la fine dell'Europa: perché il principio su cui è sorta la civiltà europea è quello di un mondo di verità universali ed eterne, a cui tutti gli uomini partecipano. Il principio del Logos, in altri termini, di cui è esatta antitesi la riduzione dell'idea a strumento di produzione e di organizzazione. Si scavi ogni grande problema politico di oggi, in ognuno si ritroverà la stessa contrapposizione fra primato della verità e primato della vita.
12. L'eresia tecnologica
Questa connessione di rovine aprirebbe una veduta paurosa sul futuro prossimo, se realmente il processo verso la civiltà tecnologica si presentasse come irreversibile.
Ma questo è poi vero? Si deve riprendere qui il discorso sulla differenza tra lo sviluppo tecnologico e la società tecnologica. Nonostante ogni apparenza in contrario, le radici della mentalità tecnologica non stanno affatto nello sviluppo tecnico, ma in una deviazione religiosa. E mai a mio giudizio si insisterà abbastanza sul punto del carattere anzitutto religioso della crisi del nostro secolo.
A mio giudizio, l'ideale della civiltà tecnologica altro non è che l'ultima forma, ormai completamente laicizzata, dell'eresia millenaristica. Qual è infatti l'essenza di questa eresia? Nient'altro che questo, l'idea della successione temporale della città della pace e della felicità universale a una città degenerata che ha raggiunto l'ultimo grado dell'ingiustizia e della barbarie. Quando è che essa si risveglia? nei momenti tragici della storia; si pensi, come ad antecedenti lontani, a Tommaso Mùnzer e agli anabattisti ai tempi della riforma protestante, o al profetismo sociale che accompagna la rivoluzione francese. Che poi ogni eresia sia caratterizzata da un processo di laicizzazione e da una perdita progressiva dello spirito religioso originario, questo è ciò che la storia attesta. In ogni caso appartiene al millenarismo l'idea dell'assolutamente nuovo e la distruzione di tutto ciò, per quel che riguarda le attitudini morali, che l'ha preceduto.
L'idea che la rivoluzione russa sia la figlia della prima guerra mondiale è corrente. Cioè la prima guerra mondiale ha dato luogo a una rinascita del millenarismo col comunismo. La seconda, e il decennio che la precedette, a un nuovo suo risorgere, di cui ho già detto il collegamento col primo, nella fede del potere liberatore della tecnica.
Gli orrori della seconda guerra mondiale diedero luogo all'impressione di uno scatenamento di forze demoniache; e a quella che col nazismo e col fascismo si consumasse un'intera civiltà, l'europea, che si era risolta ormai in una nuova Babilonia. L'assolutamente nuovo non poteva neppur più presentarsi come il comunismo, per quel che conservava degli aspetti ancora collegati, sia pure in forma di antitesi, a una civiltà di cui la guerra aveva significato la giusta distruzione.
13. Conclusione
Ma, se questo è vero, la veduta intorno alla situazione presente deve essere del tutto modificata. Perché non è il progresso della scienza a portare all'antitradizionalismo, alla soppressione dei tabù, alla scomparsa del mistero, alla demitizzazione, in breve alle sue forme di giustificazione riflessa, dalle più elementari alle più colte. Il vero invece è l'opposto: è l'idea millenarista di una cesura radicale nella storia per il passaggio a un tipo di civiltà radicalmente nuova che porta alla critica della tradizione e a quello che ne consegue. Ora non c'è che un solo mezzo per criticare il millenarismo, il richiamo a una vera coscienza storica. Se il giovane di oggi si sente così lontano e così rescisso dalla tradizione è perché gli è stata somministrata una versione demonologica della storia recente: perciò è rimasto ossesso dal mito di un avvenire assolutamente felice, mito che non si esplica altrimenti, nella pratica, che nella negazione di tutti i valori del passato, di quei valori che in realtà non hanno nulla a che fare con la scienza. Stabilire una veduta veramente storica del passato prossimo, tale che possa far vedere come proprio sul mito della novità siano sorti i suoi orrori, sarà il primo passo per una demitizzazione vera, tale che attinga il processo per cui si è costituito il falso idolo della civiltà tecnologica.
Augusto Del Noce, L'epoca della secolarizzazione, Giuffré, Milano 1970, pp. 77-97.