Teologi e scienziati sulla via della sapienza

Il teologo tedesco offre la sua personale visione dei rapporti fra scienza e teologia, tanto negli aspetti epistemologici come di contenuto, segnalando la necessità che entrambe contribuiscano ad una cultura “sapienziale”, adeguata ad affrontare le sfide del futuro, in modo particolare due: il rapporto fra ricerca scientifica e potere politico-economico e la custodia saggia del pianeta.

A quali livelli le scienze della natura e le religioni possono incontrarsi, entrare in fecondo dialogo e operare insieme nella difesa e promozione della vita?

Il tentativo di mettere io dialogo diretto scienza pura e teologia scientifica finora si è rivelato solo in parte fecondo. La ragione è duplice. Per un verso gli scienziati non si attendevano da questo dialogo nuove acquisizioni scientifiche e dall’altro molti di loro e non pochi teologi non dispongono di quella base comune che è la filosofia. Frequentemente si fa uso di concetti che, non essendo approfonditi in modo critico, risultano poco comprensibili. Ricordo che durante una conversazione con degli astrofisici uno di loro proponeva che invece di parlare di ‘universo’ si ricorresse al termine ‘multiverso’, mostrandosi poi indeciso se impiegarlo al singolare o al plurale. Penso anche a quei teologi che non hanno mai letto in vita loro un libro scientifico, perché convinti che su questa via non ci sia nulla da apprendere sulla sapienza divina. E i teologi della Sacra Scrittura non studiano più il ‘libro della natura’. Un terreno comunque che consenta una feconda interazione tra scienze e teologia può forse essere quello di una teoria filosofica scientifica, o di un’ermeneutica generale della storia, due approcci quindi che ci consentirebbero ci cogliere e di interpretare le esperienze che noi facciamo della natura e del trascendente [1].

Altro tentativo è quello di mettere in relazione scienza e religione. Vi è impegnata la John Templeton, una fondazione nordamericana che si riferisce a scienziati che pur non praticando una determinata religione né professando un qualche dogma religioso s’interrogano all’interno del proprio ambito di ricerca e si pongono anche questioni d’ordine religioso. E difficile trovare teologi che sollevino problemi scientifici a partire dalla propria riflessione teologica [2]. Dopo l’illuminismo teologi del genere si sono fatti sempre più rari. Oggi pare proprio che non ce ne siano in circolazione. Anche in questo campo riesce difficile una mediazione feconda. L’esperienza scientifica che con l’osservazione e l’esperimento noi facciamo dei fenomeni della natura non pare armonizzarsi agevolmente con quella di natura religiosa: la prima è oggettiva e ripetibile, l’altra è soggettiva e irripetibile. L’una ha un carattere universale, la seconda è invece di tipo individuale, anche se lo stesso è il termine ‘esperienza’ usato per riferirsi ad entrambe. Ebbene, questo concetto così ampio e variegato [3] può offrire davvero la base comune da cui partire per riflettere insieme su ciò che è universale e ciò che è particolare, su fenomeni governati da leggi e fenomeni contingenti?

Ai giorni nostri si preferisce comunque mettere in relazione tra loro scienze ed etica. Da almeno una trentina d’anni le università tedesche prevedono cattedre d’insegnamento e commissioni scientifiche di ‘etica delle scienze naturali’, oltre che gruppi di lavoro impegnati nella ‘valutazione degli impatti della tecnica’. La scienza applicata alla medicina ci ha costretti poi a riflettere sull’etica della vita e sul paziente come persona. Il progresso che negli ultimi anni si è fatto in campo biogenetico e biotecnico ha prodotto: ‘consigli etici’ in tutti i settori decisionali della politica, contro l’uso selvaggio della biotecnologia e per il rispetto dei valori umani. Se però la ‘libertà di ricerca’ è un presupposto che non si può mettere in discussione, le riflessioni di tipo etico arriveranno sempre troppo tardi [4]. La ricerca scientifica è senz’altro oggettiva, non però ‘neutrale’ rispetto ai valori: dipende sempre dagli interessi presenti nella società. Oggi il principio capitalistico della concorrenza costringe la libertà di ricerca scientifica ad andare sempre più avanti nel campo dell’embriologia umana. Talvolta si giustifica l’assenza del consenso sociale con la motivazione che se non siamo noi a farlo saranno gli altri, e non possiamo permetterci di rimanere condizionati dal progresso etico-scientifico. L’ethos tipico del progresso della scienza e della tecnica ha una sua propria dinamica, che è quella del fattuale e fittizio, del manipolabile ed illusorio. E la pressione è talmente forte da vanificare qualsiasi impegno etico nell’uso del potere scientifico. All’ottimismo del progresso ora subentra non il pessimismo, bensì un fatalismo che sostanzialmente non consente alternative di tipo etico. Di fronte alla dittatura della scienza e della tecnica la politica alza le mani, si vede ‘deregolata’, costretta ad abbandonare il campo. Ma chi difenderà allora la ‘libertà di ricerca’ dalle coercizioni di natura economica?

Si rende dunque necessaria una riflessione più ampia, quella capace di situare le scienze moderne, specialmente quelle a dimensione biologica, nel loro contesso socio-economico, in quello che oggi qualifichiamo come complesso tecnico-industriale, per poi chiederci se in tale complesso la scienza venga correttamente apprezzata e lo stesso complesso risulti sapientemente organizzato, strutturato cioè in modo funzionale alla vita. D’altra parte non possiamo neppure ridurre l’etica ai valori e doveri d’ordine assoluto. L’etica ha il proprio ‘Sit im Leben’ nella tradizione, cultura e religione della società moderna. E pure qui c’è da chiedersi se questo complesso culturale dell’età moderna sia ispirato dalla saggezza e risulti funzionale alla vita.

Un altro tentativo, volto ad inquadrare le scienze e la teologia nel contesto di una vita da vivere in comune, oggi si sta facendo sul piano della sapienza. Secondo la tradizione antica ogni sapere s’inquadra nella sapienza di vita. La phrónesis comprende insieme sapere e morale, e aiuta dunque gli esseri umani ad usare saggiamente le loro conoscenze ed a riferire realisticamente la loro morale alla realtà conosciuta. Non ogni sapere favorisce la vita, non qualsiasi conoscenza rende più saggi. A renderci tali sono le esperienze, positive e negative. É il processo d’apprendimento del vivere e del morire che ci rende saggi, se conserviamo il nostro interesse per la vita. La rivoluzione scientifica moderna ha estrapolato le scienze da tale contesto e concepito la ragione scientifica come “ragione strumentale”, la via che porta al dominio sulla natura e sulla stessa vita [5]. Se il sapere non è altro che potere, come insegnava Francesco Bacone, e la scienza il metodo per poter dominare un brano della natura, sarà più facile acquisire nuove conoscenze che usare sapientemente il potere acquisito. Ed in effetti l’emancipazione delle scienze naturali dalla filosofia morale e dalla teologia, in verità ha significato anche emancipazione dalla sapienza [6].

Ma che cosa intendiamo per saggezza, in senso lato?

Chiediamo anzitutto alla teologia quale sia il rapporto che la lega alla sapienza e quale il suo modo d’intenderla. Nella misura in cui la ragione si è emancipata dalla sapienza, anche la teologia l’ha abbandonata, per riscoprire se stessa. Da una parte una ragione ormai emancipata, dall’altra una teologia che cercava di fondarsi esclusivamente sull’autorivelazione di Dio o sull’autocertezza della fede. Nacque un conflitto tra ‘ragione e rivelazione’, tra le diverse facoltà e, all’interno del riflettere teologico, tra legittimità e illegittimità della ‘teologia naturale’. Se analizziamo spassionatamente la contesa intrateologica, converremo che non può darsi concorrenza alcuna fra teologia rivelata e teologia naturale. La conoscenza naturale di Dio ricava dalla stessa creazione e dal corso del mondo; o via analogiae, l’idea di un Dio creatore e provvido, e proprio attraverso la conoscenza entra in comunione - come peraltro in ogni conoscenza - con l’oggetto conosciuto. La teologia naturale in questo approccio al creare ci rende dunque sapienti, non però beati. Beati lo diventeremo soltanto con la conoscenza della rivelazione di Dio Salvatore. Fermarsi a questa rivelazione di Dio e non ammettere alcuna conoscenza naturale di Dio significa essere beati, non però sapienti. E una vecchia e ben nota distinzione, che ci autorizza a vedere nella theologia naturalis unasapientia pratica, non ancora una ‘teologia’ in senso moderno. E tuttavia una teologia fondata sul dato della rivelazione che intendesse prescindere dalla dottrina sapienziale ricavata dalla natura smarrirebbe il proprio contesto, cioè la vita e la natura come realtà vissuta. Fede e ragione possono ritrovarsi insieme nella casa comune della sapienza; dove contribuire, ciascuna con il proprio apporto, alla costruzione di una cultura amante della vita [7]. Da parte teologica si è sempre riconosciuto che il compito della ‘teologia naturale’ o di una ‘teologia della natura’ consiste appunto nello scoprire ed apprendere questa sapienza che si trova in sintonia con il Dio della rivelazione e della fede. La cosiddetta ‘teologia fìsica’ del XVII mirava appunto ad acquisire tale sapienza negli ambiti in cui si muovevano le nuove scienze naturali e deve essere colta nella sua dimensione sapienziale. La celebre opera di John Ray, pubblicata per la prima volta nel 1672, aveva per titolo The Wisdom of God Manifested in the Works of Creation [La sapienza di Dio manifestata nelle opere della creazione].

Chi cerca la sapienza non solo la trova, ma l’apprende pure. Scopriamo una sapienza già presente nella materia che si organizza e nelle diverse fasi dello sviluppo della realtà organica, laddove certe aggregazioni molecolari e organismi cellulari favorevoli alla vita risultano assecondati, mentre altri, ostili alla vita, neutralizzati. Quella che noi chiamiamo ‘evoluzione’ lineare, unilaterale, in realtà è un complicato processo di apprendimento. Il codice genetico mostra una sua capacità apprensiva e creativa. Nella costruzione della materia e della vita troviamo impegnata una memoriaprimordiale che a pieno titolo meriterebbe il nome di sapienza. La specie umana è apparsa tardi sul pianeta blu, la terra, ed ha quindi le sue buone ragioni per indagare sulla sapienza dei viventi e i loro ecosistemi, e così apprendere la sapienza della vita. Le osservazioni e gli esperimenti in campo scientifico non devono servire unicamente ad accumulare informazioni, ma anche ad apprendere la sapienza della stessa natura.

Ma una scienza naturale interessata a sapere unicamente come ‘manipolare’ l’oggetto della conoscenza, o renderlo sempre e comunque funzionale all’uomo, non è più alla ricerca della sapienza. Questa è una scienza ‘interventistica’, che ha cessato di stupirsi (thaumázein) dei fenomeni e si appiattisce nei calcolo dei ‘costi-benefici’. Lo vediamo anche nel fatto che conoscenze d’ordine biologico, come il deciframento del genoma umano, vengono subito brevettate per poi essere vendute a caro prezzo. Ma un potere esercitato in modo tanto unilaterale rende muta la stessa natura e istupidisce l’uomo.

Una ricerca sulla sapienza cui ispirare la vita dell’uomo sollecita tanti altri interessi che spingono ad ulteriori ricerche. Nasce così un dialogo tra la sapienza naturale che si è scoperta e la sapienza umana che va appresa, quella che risiede negli equilibri che rendono possibile la convivenza tra cultura dell’uomo ed ecosistemi della terra. L’obiettivo che si dovrà prefiggere non sarà allora il dominio dell’uomo sulla natura, ma piuttosto una vita da vivere sapientemente, in sintonia con la natura [8]. E si partirà dal rispetto per la memoria primordiale della vita come è conservata nei processi naturali e dal «rispetto per la vita stessa» (Albert Schweitzer)massimo comandamento che si fonda sul ‘diritto alla vita’.


[1] A mio avviso, sono riusciti nell’intento, E.Von Weizäcker, Offene systeme I. Beiträge zur Zeitstruktur, Entropie und Evolution, Stuttgart 1974, e J. Polkinghorne – M. Welker (edd.), The End of the World and the Ends of God. Science and Theology on Escathatology, Trinity Press, Harrisburg 2000. Una buona panoramica in M.Welker, Springing Cultural Traps: The Science and Theology Discourse on Escathology and the Common God, in Theology Today, 58, n.2, luglio 2001, 165-176.

[2] Una lodevole eccezione rappresenta Thomas F. Torrance. Cfr. Christian Theology and Scientific Culture, Belfast 1980; Divine and Contingent Order, Oxford 1981. Nel 1978 gli è stato conferito il Templeton Prize.

[3] Qui va ricordato Michael Polanyi, The Tacit Dimension, New York 1966.

[4] G. Altner (ed.), Menschenwürde und biotechnischer Fortschritt im Horizont theologischer und sozialethischer Erwägungen, fasc. spec. di EvTh 61, Gutersloh 2001, con contributoi di G. Altner, Kl. Corner, R. Kollek, D. Mieth, E. Pelkner, D. von der Pfordten, I. Praetorius e U.Theile

[5] M. Horkheimer, Kritische Theorie I e II, Frankfurt 1968 [trad.it. Teoria Critica, Einaudi, Torino 1974]; Id., Zur Kritik der instrumentellen Vernunft, Frankfurt 1967 [trad.it., Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 19723

[6] Ottimo il libro di Celia Deane-Drummond, Creation Through Wisdom. Theology and the New Biology, Edinburgh 2000.

[7] Giustamente vi ha richiamato l’attenzione Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio del 1998: la sapienza è in grado di superare il fossato che si estende tra fede e ragione.

[8] Anche Ernest Bloch pensava ad una sintonia con il ‘soggetto natura’ ancora ascondito. Vedi Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt 1959, § 37 II, 802-813 [trad.it. cit.].

Jürgen Moltmann, Scienza e Sapienza. Scienza e Teologia in dialogo, tr. it. di Dino Pezzetta, Queriniana, Brescia 2003, pp. 29-33.