Nel marzo del 1982, Joseph Ratzinger tiene una conferenza a Monaco in occasione del XXV anniversario della Accademia Cattolica di Baviera. Una versione ridotta e parzialmente rielaborata del testo apparirà nel 1993 nel volume Natura e compito della teologia. L’intervento riepiloga quali devono essere i criteri dell’autentico dialogo, aperto e franco, proprio dell’ambiente accademico, che non si sottrae al confronto dialettico e alla verifica delle proprie tesi, ma sa riconoscere sempre la verità come fondamento e misura della libertà.
Il termine «accademico» suscita oggi due relazioni contrastanti. Ricorda innanzitutto qualcosa di antiquato, ricoperto di polvere, che si è chiuso nel suo mondo particolare ed è privo di collegamento con la realtà. Forse ci ricordiamo anche che Platone fu il fondatore dell'accademia; il platonismo, però viene considerato da molti come fuga nell'irrealtà di un mondo di mere idee, sintesi di un superato orientamento dello spirito, nonostante tutte le riabilitazioni di Platone sia nelle scienze naturali che nella scienza della politica [1]. In un unico ambito lo splendore della parola è rimasto inalterato o addirittura è cresciuto, lì dove si parla di «libertà accademica». Il fatto che deve esserci una cittadella dello spirito che obbedisce solamente alle su proprie regole senza soggiacere ad alcuna regolamentazione eteronoma è importante in una società che nell'insieme è caratterizzata dalla domanda di libertà ma è anche segnata da ogni sorta di costrizioni, inimmaginabili nel mondo precedente all'era della tecnica. L'espressione «libertà accademica» vuole ergere una diga sia contro il potere onnicomprensivo della burocrazia che contro la pressione esercitata dalla dittatura dei bisogni. La battaglia che qui viene combattuta si estende su molti fronti. Vi è anzitutto la difesa delle discipline «inutili» - le cosiddette materie liberali – contro lo strapotere dell'utile. Ma anche le scienze naturali lottano per la libertà di determinare da se stesse il loro oggetto e di non riceverlo già precostituito dalle esigenze del mercato. E da ultimo vi è la particolare richiesta di libertà accademica da parte del teologo nei confronti dell'istituzione Chiesa, la sua richiesta di poter stabilire le sue domande e i suoi esiti esattamente nello stesso modo in cui, ad esempio, si comportano i filosofi. Vale dunque la pena di tentare una riflessione sulla natura originaria dell'accademico.
Ma come andare incontro ad una simile richiesta? Ciascuna figura dell'accademia non è troppo diversa dall'altra perché possa esserci una riflessione e risposte comuni? Non si può negare la grande estensione di ciò che oggi si intende quando si parla di libertà accademica. Deve però pur esserci qualcosa come un fondamento comune se la parola «accademia» ha ancora un senso che serva qui da base per la richiesta di una particolare forma di libertà. Per quanto possano differenziarsi le applicazioni singole, tutto dipende ultimamente dalla fondamentale esigenza dello spirito che ha preso forma con Platone: la pretesa di porre domande e di investigare. Senza voler dare subito risposte troppo concrete, vorrei ora tentare di descrivere alcune caratteristiche essenziali di ciò che, nonostante tutti i possibili cambiamenti della storia, può essere considerata l'essenza della libertà accademica [2].
1. Il dialogo
Prendiamo dunque avvio dalle evidenze più immediate – che pure sono già qualcosa di più che pura esteriorità. Un'accademia – come Platone la concepì e come noi oggi la desideriamo ancora e di nuovo – è innanzitutto un luogo di dialogo.
Ora, che cosa è propriamente «dialogo»? Non c'è affatto dialogo semplicemente perché «si parla». La mera «chiacchiera» è la rovina e il fallimento del dialogo. «Dialogo» s'accende soltanto là dove alla «parola» si accompagna anche l'«ascolto» e dove, nell'ascolto, si attua «incontro», nell'incontro «rapporto» e nel rapporto «comprensione» - come approfondimento e trasformazione nella sfera dell'essere. Cerchiamo di cogliere meglio, nel loro significato, i singoli fattori appena nominati.
Ecco in primo luogo il momento dell'ascolto. Esso è un processo di apertura, è un farsi-aperti per l'altro ente e per l'altra persona. Richiamiamo alla mente quale difficile arte sia saper ascoltare qualcuno. Essa non è un'abilità come la capacità di usare una macchina, è piuttosto un poter-essere nel quale la persona è chiamata in causa nella sua interezza. «Ascoltare» significa conoscere e riconoscere l'altro, lasciarlo penetrare nello spazio del proprio io, essere disponibili ad accogliere la parola e in ciò l'essere dell'altro nel proprio e così, reciprocamente, immedesimarsi a lui. Dopo un atto di effettivo «ascolto», io sono diventato un altro: il mio proprio essere si è dilatato ed approfondito, perché si è stretto con l'essere dell'altro e in ciò con la realtà del mondo.
Qui, a dire il vero, si presuppone che la parola dell'altra persona interessata al dialogo non voglia meramente indicare solo qualcosa che rientra nella sfera dello scibile o delle realizzazioni, delle possibilità estrinseche. Quando parliamo di dialogo in senso vero e proprio, si intende un discorrere in cui viene alla luce qualcosa dell'essere stesso, della persona stessa, così che non solo aumentano le coordinate del sapere o del potere, bensì viene toccata la nostra stessa umanità e il poter-essere dell'uomo viene chiarificato e approfondito.
In questo modo si dischiude un'ulteriore dimensione del dialogo, del suo ascoltare e del suo discorrere, alla quale il primo Agostino ha attribuito particolare importanza. Anche da un punto di vista documentario, la vicenda della sua conversione si è consegnata a noi in quei dialoghi fra amici, in cui la piccola accademia di Cassiciaco si è mossa, andando «come a tentoni», verso il momento in cui un nuovo verbo – che Platone non aveva conosciuto – ha potuto infine risuonare tra loro, e provocare una vera e propria «svolta» di vita. Nella sua considerazione ed analisi a posteriori di questi colloqui, Agostino giunge a concludere che la comunità amicale, gli amici si sono potuti ascoltare vicendevolmente e comprendere l'un l'altro, perché tutti insieme prestavano ascolto al maestro interiore, la verità [3]. Gli uomini possono comprendersi a vicenda, poiché essi non sono affatto «isole dell'essere» del tutto separate l'una dall'altra, bensì comunicano nella medesima verità. Essi si incontrano tra loro tanto più quanto più essi attingono ciò che propriamente li unisce, la verità. Un dialogo senza quest'intimo ascolto del comune fondamento resterebbe una disputa tra sordi.
Ci imbattiamo qui in un'evidenza che è straordinariamente importante nel dibattito odierno e che nello stesso tempo evidenzia il pericolo che incombe sul dialogo: gli uomini sono capaci di consenso perché esiste una verità comune; non è lecito però al consenso volersi accreditare come surrogato della verità. Sospendiamo ora per un momento la nostra riflessione in questo punto – che tuttavia ci ha già condotto al centro della questione – per considerare attentamente un secondo fattore costitutivo dell'«accademico».
2. La libertà
All'essenza dell'«accademico» e della sua ricerca di comprensione appartiene fin da principio la libertà . E libertà significa essenzialmente due cose.
In primo luogo, essa è la possibilità di considerare, indagare ed affermare tutto ciò che nella lotta per la verità appare degno di considerazione, di indagine e di affermazione [4]. Fin qui, ci muoviamo con tutta evidenza nel campo di ciò che oggi è accertato e difeso da tutti, perlomeno sul piano teorico. Pure, ci si deve anche domandare: che cosa giustifica una libertà che a volte è così pericolosa? Che cosa la fonda? Per che cosa si è disposti a correre questi rischi?
La risposta, l'unica soddisfacente, suona: la verità stessa, la verità in se stessa è tanto preziosa da poter giustificare quel rischio; diversamente, niente lo potrebbe. Ora, con una simile affermazione si entra subito drammaticamente in conflitto con ogni logica trasformistica o meramente contrattualistica, ed insieme nella problematica della legittimazione stessa della nostra società. Cerchiamo perciò di descrivere il più precisamente possibile questo modo, che Josef Pieper così definisce: «Il fattore determinante (di ciò che è ‘accademico') è soprattutto questo essere liberi dal condizionamento di una qualsiasi istanza utilitaristica. In ciò consiste la specifica ‘libertà accademica' – che perciò viene annullata per definitionem non appena le scienze divengono un punto apparato strumentale funzionale agli interessi di un gruppo di potere, come che sia organizzato» [5]. «Si può certo credere di poter ‘prendere a servizio' la filosofia; ma ecco: quanto è stato preso a servizio non è più filosofia» [6].
Il problema della libertà è inseparabilmente connesso con quello della verità. Dove la verità non è per niente considerata un valore in se stessa, che ha dignità indipendentemente dai risultati del suo impiego e delle sue applicazioni, lì il conoscere non può che avere l'utile come criterio di misura. Stando così le cose, esso non ha più la propria giustificazione in se stesso, bensì soltanto negli scopi cui è funzionale. Allora esso appartiene alla sfera dei fini e dei mezzi, e ciò significa: esso è in un qualche modo subordinato al potere e all'aumento del potere stesso. Per dirlo ancora una volta in altri termini: qualora l'uomo non dovesse avere possibilità alcuna di conoscere propriamente la verità, bensì solo l'utilizzabilità delle cose per questo e per quest'altro, allora l'uso ed il consumo diventano (l'unico) parametro di ogni fare e pensare; allora il mondo si riduce a «materiale da costruzione».
Qui viene a galla chiaramente l'inesorabile ed inevitabile opzione di fondo, che in maniera sempre più radicale è divenuta un dilemma dell'epoca moderna e che oggi si pone come suo interrogativo decisivo: la verità è davvero accessibile all'uomo? Vale la pena di cercarla? La sua ricerca, il riconoscerla come la vera «regina» degli uomini non è forse addirittura l'unica effettiva via di risanamento e di salvezza? O non è invece il distacco dal problema della verità – come si fa manifesto nella nuova logica di Francesco Bacone – la vera liberazione dell'uomo, con la quale egli si sveglia dalle fantasticherie speculative e finalmente prende in mano davvero il dominio sulle cose, per diventare «Maître et possesseur de la nature» [7]? È valida la definizione di Giovanbattista Vico, secondo la quale la verità è soltanto quanto è «factum» (e quindi è fattibile) – o vale la risoluzione cristiana per la quale la verità ha un primato sul fare [8]?
La libertà che discende dal nuovo pensiero di Bacone è la libertà di fare ogni cosa e di riconoscere la pura e semplice possibilità come unico criterio di normatività per l'uomo. Una siffatta libertà, però, prima di allora non era sta ritenuta legittima, ed aveva potuto affermarsi come vera liberazione soltanto modellandosi sul gesto del figlio più giovane, che rivendica la sua porzione di eredità e con essa se ne parte dalla casa paterna verso le incognite del vivere. La libertà di far tutto, però – quella libertà che non vede più nella verità, cioè nel padre, legame e vincolo alcuno -, finisce per sottostare alla tirannide che ora l'«usare» e l'«essere usati» esercitano sugli uomini. Essa è perciò ultimamente una libertà da schiavi, anche se ciò si manifesta solo dopo e deve passare del tempo prima che essa finisca in una tale bancarotta da ridursi a mangiare le carrube dei maiali – e ancora invidiando i maiali, perché essi non vivono nella maledizione della libertà.
Nelle posizioni più estreme del pensiero moderno si sono toccati vertici simili. Ora, ad esempio, la vibrata protesta con cui gli ecologisti si scagliano contro l'uomo, imputandogli la distruzione dell'essere, non sarà affatto fattore di risanamento fintantoché non indurrà a porre in modo nuovo la domanda di verità. «La verità vi farà liberi» (Gv 8, 32): oggi possiamo comprendere in maniera del tutto nuova quest'affermazione del Signore, nella sua abissale pretesa e nella sua grandezza. La «libertà del potere» e la «libertà della verità» sono diventate la vera alternativa del nostro momento storico. Ma una «libertà del potere», non inibita dalla verità, è la dittatura dell'utilitarismo in un modo dal quale la verità è andata scomparendo – e con ciò la riduzione in schiavitù dell'uomo sotto l'apparenza della sua liberazione. Solo quando la verità ha valore in se stessa, e percepirla è più che pura prestazione funzionale e ha priorità rispetto a qualsivoglia risultato, solo allora noi siamo liberi. E solo la «libertà nella verità» è perciò la vera libertà.
3. Il nucleo: la verità come fondamento e misura della libertà
Siamo così giunti al nucleo centrale delle nostre riflessioni: la libertà accademica è una libertà che si concepisce in relazione alla verità , e la sua giustificazione è di esistere con questa finalità – senza doversi rivolgere ai risultati via via raggiunti, per cercarvi la propria legittimazione. La moglie di Lot, che si gira indietro, rimane di pietra; Orfeo, ormai sulla via del ritorno dall'Ade, perdette tutto nel momento in cui si girò a guardare ciò che si lasciava alle spalle [9].
Dobbiamo però innanzitutto cercare di cogliere nel modo il più preciso possibile questa essenza dell'idea di accademia, per avere presenti il più chiaramente possibile la sua istanza e le sue implicazioni. Mi sembra significativo che Romano Guardini l'abbia una volta formulata, con la lucidità e il rigore che lo contraddistinsero, in riferimento alla questione ebraica.
Questo non è un caso, poiché nei giorni pieni di terrore del Terzo Reich quanto c'è di più distruttivo nell'alleanza di ragione, tecnica e potere politico si rivelò nella sua più tragica visibilità. Che cosa divenga una «ragione» nella cui logica gli obiettivi e il potere vengono elevati ad unico dio si è reso qui manifesto; così come si manifestò che solo il pieno valore della verità e della sua inviolabilità sono ciò che può salvaguardare l'umano. Quanto Guardini disse allora a riguardo dell'università deve costituire anche la più profonda fisionomia dell'istituzione accademica: «Se l'università ha un senso culturale, esso è allora quello di essere un luogo dove si ricerca la verità, la verità nella sua purezza – non per altri fini, bensì di per se stessa; per questa ragione, perché essa è verità» [10].
Ricevendo il «Premio Guardini», il vescovo Hermann Dietzfelbinger ha formulato la medesima considerazione, riferendola ovviamente a quanto ci preoccupa e ci sollecita oggi. A questo proposito, egli ha fatto notare lo spostamento dell'interesse, nel frattempo verificatosi, dal problema della «verità» alla problematica dei «valori», e ha ricordato che in un primo tempo anche le idee del nascente nazionalsocialismo si presentarono come «valori» razionali, sensati e liberatori, e così si legittimarono. L'affermazione di Carl Friedrich von Weizsächer allora citata merita di essere qui ripetuta: «Io affermo che non una società orientata al successo ma solo una società orientata alla verità può prosperare davvero a lungo» [11].
Questo significa però – proprio se pensiamo al contesto della citata affermazione di Guardini – anche quanto segue: la più grande salvaguardia dell'uomo, la migliore conservazione e il miglior risanamento del mondo si attuano là dove al dominio del dogma del continuo cambiamento – in sostanza del dogma dell'integrale manipolabilità del reale – si oppone resistenza, e viene mantenuto in vigore il diritto della verità per se stessa. Divenendo vero l'uomo diviene in parte vero anche il mondo, e quando l'uomo diviene vero, diviene buono – e così anche il mondo intorno a lui. Com'è noto, Tommaso d'Aquino ha definito la verità come adeguazione dello spirito alla realtà. La filosofia personalista del periodo fra le due guerre mondiali e dell'immediato dopoguerra ha evidenziato con critica serrata l'insufficienza di questa definizione [12]. Certamente con questa formula non è detto tutto, ma viene palesato quanto è decisivo: percepire la verità è un fenomeno che rende l'uomo conforme all'essere. È un «convenire-in-uno» di io e mondo, è accordo e consonanza, è esser-donati ed esser-purificati.
Nella misura in cui gli uomini si lasciano guidare e purificare dalla verità, essi non attingono solo il loro vero essere, bensì anche il «tu». Nella verità infatti essi sono posti in relazione l'uno all'altro; mentre l'«assenza di verità» è proprio ciò che li chiude l'uno all'altro. Avvicinarsi alla verità significa perciò disciplina: se essa purifica da quanto è egoistico e dall'illusione dell'autarchia, se fa l'uomo obbediente e gli dà il coraggio dell'umiltà, ciò significa anche che essa insegna a discernere quella parodia della libertà che consiste nella pretesa di universale manipolabilità, e quella parodia del dialogo che consiste nella chiacchiera indiscriminata; che essa vince l'equivoco che confonde libertà e «assenza di legami»; ed infine, che è feconda proprio per il fatto che viene amata per se stessa, senza secondi fini.
Queste riflessioni preludono ad un ultimo passo. Dobbiamo ancora porre la domanda di Pilato: «Che cos'è la verità?» - e, naturalmente, in modo diverso da come fece Pilato. Hermann Dietzfelbinger ha sottolineato che la domanda di Pilato opprime propriamente per il fatto che essa non è affatto una domanda, bensì una risposta. A colui che gli viene incontro elevando la pretesa della verità, egli dice: «Lascia perdere questi discorsi: che cos'è mai la ‘verità'? Pensiamo piuttosto a qualcosa di più concreto».
Anche oggi la domanda di Pilato viene posta quasi sempre in questa forma. Ma ora essa dev'essere affrontata con tutta serietà: da cosa dipende che il divenir-vero significa divenir-buono? Che cosa significa che la verità è «bene» - anzi semplicemente «il bene»? Da cosa dipende che essa vale per se stessa, senza doversi giustificare mediante ulteriori scopi?
Tutto ciò acquista un effettivo valore solo se la verità ha di per se stessa la sua propria dignità: se essa consiste in se stessa e possiede più «essere» che tutto il resto; se essa è il fondamento sul quale io stesso consisto. Quando si considera a fondo l'essenza della verità si giunge nelle immediate vicinanze della nozione di Dio. Non è possibile conservare a lungo l'autonomia e la dignità della verità – da cui dipendono più in là la dignità dell'uomo e la dignità del mondo – se non si impara a vedere in ciò l'intima fisionomia e la dignità del Dio vivente.
Per questa ragione, il rispetto profondo di fronte alla verità non è in ultima istanza separabile da quell'atteggiamento complessivo di venerazione che chiamiamo adorazione. Verità e culto stanno in una inscindibile relazione vicendevole: l'una non può realmente prosperare senza l'altra – per quanto spesso esse siano state separate l'una dall'altra anche nella storia.
4. Il culto
Siamo così giunti ad un'ultima chiave di lettura nella nostra indagine sull'«accademico» e sulla sua teoria.
Il fatto che la parola «accademia», prima che Platone vi fondasse la sua scuola, fosse il nome di un luogo di culto appena fuori le mura può apparire a prima vista qualcosa di abbastanza estrinseco rispetto alla storia della nuova istituzione. Ad una considerazione più attenta, però, si manifesta qui una più profonda correlazione – che non dev'essere certo stata insignificante per il fondatore. Giuridicamente parlando, infatti, l'accademia platonica fu un'associazione culturale. La venerazione ed il culto delle Muse furono conseguentemente tratti costitutivi e vincolanti della vita in essa; era esplicitamente previsto che vi fossero persone specificamente incaricate del culto sacrificale [13].
Ciò è ben più che una circostanza estrinseca – ad esempio una concessione alle forme di organizzazione sociale di allora. La libertà che si concepisce in relazione alla verità e la «libertà nella verità» non possono in ultimo esistere senza il riconoscimento e la venerazione del divino. La libertà dalla tirannia dell'utile può essere fondata e rimanere tale solo se c'è qualcosa che è effettivamente sottratto all'uso e alla proprietà degli uomini: se c'è un più alto «diritto di proprietà», e quando l'intangibile istanza della divinità si fa valere. Dice Pieper commentando Platone: «La libertà della teoria è disarmata e senza protezione – a meno che essa non si metta in special modo sotto la protezione degli dei» [14]. La libertà dalla logica dell'utile e la libertà di non dover sottostare ai dettami del potere trovano la loro più profonda garanzia solo nella elevatezza ed inaccessibilità di ciò che non è subordinato ad alcun potere umano: nella libertà che Dio ha – e dona all'uomo – di fronte al mondo.
Per Platone che l'ha formulata per primo in termini filosofici, la «libertà nella verità» non sta casualmente, bensì essenzialmente in rapporto alla sfera della venerazione e del culto. Dove questo non è più praticato, anche quella vien meno. E così è anche, ovviamente, là dove riti e prassi culturale sono sì attuati e rispettati, ma interpretati come puro agire simbolico-sociale. Tutto ciò significa anche però che là dove i presupposti dell'adorazione e dove il legame alla verità e la sua affermazione vengono negati immancabilmente finisce per subentrare una pseudo-libertà anarchica. Tali pseudo-libertà, false e falsificatrici, sono oggi prevalenti e sono la vera e propria minaccia che incombe sull'autentica libertà. La chiarificazione della nozione di libertà appartiene oggi ai compiti decisivi, se vogliamo adoperarci per la salvaguardia dell'uomo e del mondo.
[1] Cfr. J. Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea , Mondadori, Milano 1984.
[2] Le seguenti riflessioni devono molto a J. Pieper, Was heißt akademisch?, Mûnchen 19642. Cfr. anche R. Guardini, Verantwortung. Gedanken zur jûdischen Frage , Mûnchen 1952.
[3] Circa la filosofia del primo Agostino cfr. in particolare E. Kõnig, Augustinus philosophus. Christlicher Glaube und philosophisches Denken in den Frûhschriften Augustins , München 1970.
[4] Cfr. a questo riguardo J. Ratzinger, Freiheit und Bindung in der Kirche , in. E. Corecco-N. Herzog- A. Scola, Les droits fondamentaux du chrétien dans l'Eglise et dans la Société , Fribourg 1981, pp. 37-52.
[5] J. Pieper, op. cit., p. 28.
[6] Ibid., p. 29.
[7] Nel suo Novum Organum, Bacone ha cercato di dare una nuova definizione della natura della filosofia. Essa non si interroga più semplicemente sulla verità, ma sul potere, sull'autorità dell'uomo sul mondo. Il suo scopo è di ottenere il dominio sulla natura. Cfr. J. Pieper, op. ci t., p. 20. Il significato di Bacone nel rivolgimento del pensiero dell'epoca moderna è stato esplicitamente messo in risalto da M. Kriele, Befreiung und politische Aufklärung , Freiburg 1980, pp. 78-82; cfr. inoltre R. Spaemann-R. Low, Die Frage Wozu? , München- Zûrich 1981, pp. 13 e 100s.
[8] Cfr. J. Ratzinger, Einfûhrung in das Christentum, München 1968, pp. 33-43 (tr. it. Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia 19909, pp. 28-42).
[9] Quest'immagine è in J. Pieper, op. cit ., a p. 69, in riferimento a K. Weiß.
[10] R. Guardini, Verantwortung. Gedanken zur jûdischen Frage , München 1952, p. 10.
[11] H. Dietzfelbinger, Dimensionen der Wahrheit, in «Katholische Akademie in Bayern», Chronik 1980/81, pp. 148-156; la citazione è a p. 150.
[12] Cfr. L. B. Puntel, Wahrheit , in H. Krings-H.M. Baumgartner-Chr. Wild, Handbuch philosophischer Grundbegriffe III, München 1974, pp. 1649-1668.
[13] J. Pieper, op. cit ., pp. 37s.; cfr. H. Meinhardt, Akademie , in J. Ritter (a cura di), Historisches Wõrterbuch der Philosophie I, Basel-Stuttgart 1971, pp. 121-124.
[14] Ibid ., p. 36.
Joseph Ratzinger, Natura e compito della teologia, trad. it. di Riccardo Mazzarol e Carlo Fedeli, Jaca Book, Milano 1993, pp. 33-42.