In questo breve e pregnante articolo, Emanuel Samek Lodovici, filosofo nato nel 1942 e prematuramente scomparso nel 1981, ricorda che la molteplicità delle scienze e l’unità della sapienza è un tema su cui tutti coloro che si occupano di formazione universitaria dovrebbero meditare. Partendo dalla domanda sullo scopo dell’Università, l’A. ripropone che il fine ultimo del sapere, al di là dei dibattiti e degli specialismi, resta quello di educarci a ben vivere e a ben morire.
A che scopo l’università
Non sono oggi pochi coloro che si rendono conto di come il problema fondamentale dell’università, quello che determina, come una parola ormai inflazionata, la sua crisi, non sia essenzialmente un problema tecnico: la mancanza di aule, per esempio, o l’esiguo numero di docenti rispetto alla popolazione discente o, ancora, la mancata capacità di inserire professionalmente i laureati. Emerge, infatti, con chiarezza, che il problema dell’università e, conseguentemente, la sua possibile decadenza hanno origine da una mancata chiarezza circa il suo fine. Da secoli, infatti, si è perso di vista il senso del perché dell’università ed è in vista della riproposizione di una risposta (che porterà con sé anche la risposta alle domande: perché studiamo e per chi studiare) che ci accingiamo a parlare. Non senza tracciare delle linee brevissime di una storia dell’università.
Dall’architettura del sapere alla sua “scissione”
L’universitas studiorum medievale (giacché è da lì che si deve partire) era, come tutti sanno, l’organizzazione delle varie scienze intorno alla scienza fondamentale, la sacra doctrina, cioè la scienza di Dio. La reductio artium ad theologiam, la riconduzione (non riduzione!) delle scienze (artes) sotto la prospettiva della scienza fondamentale, implicava che nel vertere ad unum, nell’unificare, si affermasse ad un tempo l’autonomia del sapere mondano non fagocitato dalla teologia e contemporaneamente il suo inserimento nell’insieme architettonico. La singola disciplina non era libera di dettarsi una legge assoluta; il rapporto gerarchico all’interno del sistema delle scienze impediva che ognuna di esse partisse per la tangente desolidarizzandosi da quelle istanze di controllo costituite dalla scienza immediatamente superiore e da quella assolutamente suprema.
Chi vuole avere un’immagine plastica di questa organizzazione-composizione se la può fare scorrendo l’indice della Summa teologica dell’Aquinate: alla teologia, come discorso su Dio sia attraverso la Sacra Scrittura che razionale, fa seguito l’antropologia, a questa segue l’etica, la politica e (lo possiamo tranquillamente supporre se Tommaso ne avesse avuto nozione) alla politica avrebbe fatto seguito un discorso sulle scienze in senso stretto. Il limite intrinseco, il termostato che scatta a calmare la supponenza raggiunta dalla scienza inferiore, viene rappresentato in questa prospettiva dei saperi gerarchicamente superiori. Sappiamo anche che con l’affermarsi dello spirito laico e con il Rinascimento questa gerarchia viene sconvolta. Ogni branca del sapere si monta oltre il suo recipiente originario e al posto dell’articolazione dell’universitas abbiamo la sua decomposizione in tante specializzazioni non più garantite da una sintesi unitaria. Questo fenomeno può essere compreso nella sua portata tenendo d’occhio la Summa tomistica. Proviamo a pensare una morale scissa dal suo riferimento alla teologia e alla Rivelazione.
Abbiamo immediatamente, come è tipico del ‘500, la maxime, la massima alla La Rochefoucauld dove nella iridescenza del paradosso della frase breve e nervosa (per es. “Il male che facciamo non ci attira tante persecuzioni e tanto odio quanto le nostre buone qualità”), si afferma una coscienza dell’impossibilità di una legge morale generale. Nella massima c’è ormai l’invito ad un agire pratico tutto particolare, giacché in assenza di un riferimento dell’etica a Dio, cioè alla teologia che la fonda, nessuna altra situazione può essere valutata se non la mia, il mio vantaggio particolare e il modo di conseguirlo più o meno cinicamente. La morale, dunque, la filosofia morale non è più mezzo ad un fine, ma hortus conclusus e la sua confluenza nell’etichetta diventa inesorabile. Quello che importa è l’apparenza, e la morale tende meno a moralizzare che non a prendere atto dell’inevitabile ipocrisia umana (“L’odio per i favoriti non è altro che amore per il favore. Il dispetto di non goderne si consola e si addolcisce col disprezzo che si ostenta per coloro che ne godono”).
Ma la scissione della morale dalla dogmatica non è che il primo passo. Il passo successivo è ben conosciuto nella storia della dottrina politica del Rinascimento: si tratta della scissione della politica dalla morale, emblematica in Machiavelli. È quasi banale ricordare la teorizzazione fatta dal segretario fiorentino di una scienza politica, o di un’arte su come si conservino o acquistino i regni, prescindendo dalla morale. Le virtù di un Cesare Borgia o di un Vitellozzo Vitelli non hanno nulla a che fare con il loro equivalente aristotelico.
Questo è il modo in cui posseggo me stesso contro la parte peggiore di me, l’altra invece è la capacità, essendo in una situazione, di trarne il massimo vantaggio. E alla decomposizione della politica non retta da un criterio etico, fa riscontro, qualche gruppo di decenni dopo, la divaricazione assoluta delle scienze in senso stretto da ogni possibile criterio di controllo. Chi voglia rintracciare la genealogia di pensieri così maliziosi della scienza moderna come le ricerche sui possibili condizionamenti della nostra mente mediante processi chimico-fisici o come l’ingegneria genetica, non deve andare troppo lontano. Una scienza che nasce con una non troppo oscura vocazione al dominio del mondo e dell’uomo nel mondo può essere tranquillamente additata come responsabile.
In una parola: la summa tomistica era l’immagine empirica e plastica del vertere ad unum, del controllo regolativi che le scienze superiori avevano nei confronti di quelle inferiori; al momento della desquamazione di quel grande sistematico corpo abbiamo il lussureggiante sfacelo delle singole scienze specialistiche e indipendenti. La forma letteraria dell’essai, del saggio, del tentativo, forma che tende ad affermarsi proprio nel ‘500, è il segno più evidente che l’immagine di un sapere organico e totale è andata perduta: al suo posto è subentrata la filosofia del brandello, dell’approccio particolare, che, come ben aveva visto Horkheimer, non ha perso però la tentazione di sottomettere totalitariamente al suo punto di vista tutte le altre dimensioni del sapere.
La riunificazione “enciclopedica”
Proprio di fronte al bellum omnium contra omnes delle prospettive particolari, si è sentita negli ultimi tempi la necessità di ricostruire come che sia l’unità del sapere. Ed è appunto nel tentare una ricomposizione in interiore homine che sono emersi a mio parere il significato dell’università e le risposte alle altre domande suindicate. Innanzitutto quali sono stati i tentativi più evidenti di quella riunificazione?
Il primo, macroscopico, che ha la sua origine nell’illuminismo ma che continua ancora di fronte ai nostri occhi, è stato il tentativo enciclopedico. L’encyclopédie dei vari D’Alembert, Diderot, etc. di cui è espressione il mobiletto con la serie di libri dell’enciclopedia del buon borghese moderno, esprime l’idea di una unificazione culturale che ammassa al centro tutto il sapere possibile. Al posto dell’antica en kuklio paideia che aveva al suo centro l’uomo da educare e nel cerchio (kuklio) le scienze del tempo tutte finalizzate alla perfezione dell’uomo (ovvero ad insegnargli l’ars bene vivendi et moriendi), abbiamo con l’illuminismo un autentico rovesciamento: al centro sta un cumulo di sapere non più unificabile (nessuno può sapere quella totalità e proprio per questo c’è l’enciclopedia!). Questo meccanismo dello sviluppo e dell’accumulo di un sapere che nessuno più sa, nel senso che sa dall’interno, che gusta, è generatore di frustrazione e disgusto. È l’immagine dell’università enciclopedica in cui, mancando una gerarchia, tutto deve essere conosciuto e la moltiplicazione delle informazioni atrofizza la capacità di pensare originalmente (il dotto, diceva Nietzsche, se non compulsa non pensa; quando pensa risponde ad uno stimolo, un pensiero letto).
L’unità funzionale della scienza
Il secondo tentativo di unificazione è quello della scienza. Vittorio Mathieu ha mostrato con la solita acutezza il carattere puramente funzionale dell’unità della scienza. Un transatlantico è un congegno unitario che nasce grazie all’unificarsi in un unico corpo di diversi saperi (chimico, fisico, elettrotecnico, architettonico, etc.) che possono saldarsi grazie all’unità del modo di procedere delle scienze che, per quanto diverse, hanno un unico denominatore, la formalizzazione del modo di operare. In ogni scienza, cioè, per giungere ad un risultato ci si vale di uno schema o disegno in cui le operazioni da eseguire sono distinte dai “dati” a cui applicare le operazioni.
Ciò che è “dato” in un determinato progetto complessivo, nel progetto anteriore poteva essere a sua volta distinto in operazioni e in dati, così come l’impianto delle caldaie (che per il progettista generale è un dato da collegare mediante uno schema con altri dati offertigli per esempio dall’ingegnere navale) è per il tecnico collaudatore della combustione il risultato del collegamento mediante operazioni di dati più primitivi offertigli dai tornitori e così via.
Il fatto che ogni scienza particolare operi mediante lo stesso procedimento, da una parte un progetto, dall’altra i dati da collegare secondo il progetto, permette a chi presiede alla costruzione del transatlantico di unificare in un unico schema i dati ultimi offertigli dai vari specialisti e di passare il progetto agli esecutori, si badi bene, senza che egli personalmente possieda alcuna delle conoscenze e tecniche particolari. L’unità funzionale della scienza, che ricorda molto da vicino il processo di unificazione di un puzzle, i cui pezzi sono diversi ma il modo di giustapporli è il medesimo, è il risultato allora di un lavoro di équipe che permette al costruttore di un’opera complessa di mettere assieme anche il sapere degli altri senza neppur lontanamente possederlo in proprio. È chiaro, però che questa ricomposizione non ha nulla a che vedere con una unificazione del sapere dall’interno. Pur differendo dall’ammucchiata enciclopedica, l’unità funzionale è un’unità puramente operativa, un’unità in vista di un’operazione, non un’unità posseduta personalmente.
La gnosi marxista e l’unitarietà negata
Anche il modello marxista si presenta come un’unificazione. Nella gnosi marxista il sapere assoluto hegeliano che emerge alla fine della giornata del mondo e di cui coglie l’unità dialettica, dovrebbe conciliarsi con l’efficacia pragmatica ed operativa della scienza positiva della natura. Ma che l’unificazione non riesca è dimostrato dal fatto che da una parte la scienza chiamata a validificare la visione del mondo tipica di una ideologia, dismette il proprio abito preciso (nel senso etimologico del termine, teso cioè a ritagliarsi davanti, prae-caedere, un campo limitatissimo a cui applicare la propria attenzione) e, nella misura in cui si mette al servizio della visione assoluta, cessa di essere autonoma e perciò stesso di essere scienza. Dall’altra parte la componente conoscitiva del marxismo, la componente erede dell’hegeliano sapere assoluto in cui è l’Assoluto stesso che sa, nella misura in cui cede mischiandosi all’altra istanza, e cioè alla scienza degli scienziati, in quella perde la propria carica di salvezza; le tinte positivistiche di cui si ammanta le fanno perdere l’aspetto per cui rimane fascinosa, l’aspetto della rigenerazione totale della realtà. L’unificazione marxista del sapere, in altri termini, oscilla sempre tra i due poli o di una gnosi che corrompe la scienza (e la storia del biologo Lysenko è esemplificante) o di una scienza di laboratorio che svuota le dilatazioni del cuore e la visione salvifica dalla gnosi. L’equilibrio tra scienza positiva e scienza del bene e del male risulta pertanto precario nel marxismo e l’unificazione risulta impossibile.
L’illusoria ricomposizione interdisciplinare
Il tentativo, poi, tutto moderno di unificare il sapere attraverso il mito della ricerca interdisciplinare non è meno problematico. Non basta evidentemente per ricreare un’unità del sapere mettere assieme all’interno di dipartimenti le materie affini, né promuovere tavole rotonde tra specialisti che abbiano punti di intersezione, né infine, raccogliere in un’unica biblioteca i libri che confluiscono su un medesimo argomento. Queste possono essere solo delle condizioni necessarie, ma non sufficienti. La ricomposizione dell’unità del sapere rimane puramente esterna senza incidere in interiore nomine. A ben vedere il difetto di questa impostazione sta nel pensiero sotteso che, dal momento che si può imparare tutto, si possa anche imparare l’unità del sapere. È chiaro invece che codesta unità è un fatto del tutto interiore e che nessun lavoro di gruppo ci può garantire che avvenga.
L’unificazione sapienziale
È proprio quest’ultimo aspetto che ci avvicina alla soluzione del problema che era stato posto all’inizio del ‘500con la dissoluzione dell’unità del sapere dell’università medievale. L’unica possibilità che abbiamo oggi di ricostruire quella forma organizzativa esterna di alta cultura che è l’universitas studiorum è, infatti, di ricominciare a costruirla per noi. Si può operare in tempi più o meno lunghi per la ricostituzione di un curriculum studiorum raccolto intorno ad un centro assiologico (rispettoso cioè della gerarchia delle scienze) solo a patto che quella unità cominci a ricostituirsi in noi. Questa unificazione che avviene sur place non può essere che una sola (ed era in vista di quella che operava tutta l’enciclopedia antica) ed è evidentemente l’unificazione sapienziale del sapere. Un’unificazione, certo, che non si può imparare come se fosse il risultato di una tecnica, ma che non per questo è impossibilitata ad essere descritta almeno nei suoi criteri di fondo. Un’unificazione che metta l’accento sul senso latino della parola sapere, e cioè sentire il gusto; un’unificazione che ci faccia sentire il gusto del sapere, il sapore del sapere. E, infatti, la sapienza rispetto alla scienza conserva ancora nel linguaggio normale questa valenza gustativa rispetto al proprio oggetto. L’uomo saggio non è anzitutto colui che conosce tecnicamente o culturalmente o scientificamente il mondo, bensì colui che ne cogli il sapore (allo stesso modo si potrebbe dire di quella conoscenza particolare, tipica del critico d’arte, che è un sapere che non sa ma gode, o se si vuole, che è un piacere che conosce). Il saggio e il sapiente, da questo punto di vista, sono ignoranti di una ignoranza che sa, un’ignoranza di gran lunga più efficace di tanti saperi che ignorano o che non sanno di non sapere.
La condizione fondamentale perché si dia un’unificazione sapienziale del sapere, a sua volta condizione perché si ricostruisca progressivamente un’università in cui le scienze siano ricomposte, è che si sappia che è quell’uomo in cui il sapere viene unificato. Non è possibile spingere il nostro prossimo a sapere il tutto se non gli si suggerisce come capire il significato di sé e di quel tutto che sa.
Paideia e “soggetto”
Guardiamo un attimo indietro. L’educazione antica, la paideia classica, era conscia del fatto che ciò che contava nello studio non era la quantità del saputo, bensì piuttosto il soggetto che sapeva. Il concetto di scuola come gioco (skolé) stava appunto a significare che, come nel gioco l’importante non stava nel conseguimento dei risultati, ma nel giocare, così l’educazione tanto aveva di mira risultati esterni al processo educativo (non era l’addestramento per altre cose), quanto aveva di mira il soggetto stesso che imparava. L’educazione, la scuola non erano finalizzate ad altro che a far uscire, e-ducere, l’uomo in atto dall’uomo in potenza. L’educazione non aveva altri fini che il nostro arricchimento personale ed era ben presente nella coscienza comune il senso di un sottilissimo proverbio cinese: “tutto ciò che può essere insegnato non vale la pena di essere appreso”. Ciò che può essere posseduto con una tecnica va distinto e ritenuto inferiore a ciò che non è il mero risultato in noi di un intervento esteriore ma che è bensì la conclusione di una nostra conquista interiore.
L’educazione antica, pertanto, mirava anzitutto al come delle cose piuttosto che al che, educava non tanto al conseguimento di risultati quanto ad uno stile di vita. E l’immagine della vita come immenso e ben più vero teatro era l’espressione metaforica di questo modello educativo. Come sulla scena quello che importa non è tanto il ruolo che si svolge (principe, schiavo, cameriera o padrone) ma come lo si recita, così nella vita ciò che doveva contare era il nostro modo di viverla e non tanto la qualifica ufficiale. Noi sappiamo che questa immagine della vita come teatro è stata il modello educativo che dai greci (si pensi a Plotino) è passata attraverso tutto l’Occidente cristiano (guardiamo ad. es. un Calderon de la Barca) fino a diventarne lo stigma essenziale. E sappiamo anche che il crollo del modello educativo della cristianità è avvenuto quando con l’illuminismo si è pensato che la vita valesse più per i risultati che per il modo. Lo sguardo dominatore e manipolatore degli illuministi è, pertanto, all’origine di quella nevrosi da successo obbligatorio che tiene il campo ai nostri giorni dove solo i risultati sono decisivi.
E, ancora proprio in questa prospettiva del come, l’educazione antica era un’educazione all’etica e non all’utile, insegnava a non accettare i compromessi della vita e per far questo insegnava soprattutto all’agon, al combattimento e alla sconfitta. La ripetizione stereotipa in Omero dell’espressione “cadde da quel valoroso che era” stava ad indicare che vero uomo è colui che sa perdere e che perde in un determinato modo, con stile.
Il sapore del sapere: criteri di misura
Se quanto abbiamo detto a proposito della paideia classica è vero (e lo è) possiamo ora rispondere più chiaramente alla domanda su quelli che possono esser i criteri per un’unificazione sapienziale del sapere, i criteri mediante i quali l’uomo contemporaneo sappia che cosa significa quel tutto (poco o molto) che sa. Diremo che per conoscere se si va, da parte dei singoli, nella direzione di un’unificazione sapienziale del proprio sapere, esistono criteri interni e criteri esterni. Per sapere se io ho un gusto del mio sapere il primo criterio esterno sarà quello di sapere che l’unità sapienziale non dipende dal tipo di sapere che so. È assolutamente indifferente che io sia un filosofo o uno scienziato, che mi occupi di statistica o di ingegneria elettronica. Perché vi sia un sapore del sapere il settore del sapere è irrilevante. Né quell’unità dall’interno che è il sapere può dipendere in qualche modo dalla quantità di sapere che so. Posso conoscere in scala d uno ad uno la mia materia e non avere per ciò stesso alcun gusto e senso del mio sapere. La quantità, come il tipo, è insufficiente a darci una minima idea se il nostro sapere è saputo sapienzialmente.
È chiaro, allora, che l’unità sapienziale dipende essenzialmente dal modo, dal come so il mio sapere. E che io abbia unificato il mio sapere in modo tale da conoscerlo dal di dentro lo si può stabilire anche da certi criteri interni. Anzitutto dal criterio dell’unità di vita tra il mio sapere e me. Non è possibile che vi sia un’unificazione sapienziale del mio sapere se vi è un dislivello tra un me coltissimo e un me che non traduce in atti verso gli altri quel sapere. Uno scienziato che dedichi tutte le sue forze ad una scoperta possibile, che vi spenda tutto il suo tesoro di intelligenza, e che non sia capace di parlare a casa, al suo prossimo o ai suoi figli, è certamente un uomo che sa senza aver capito di sapere che sa.
Il secondo criterio interno per stabilire la qualità sapienziale delle mie conoscenze consiste nel chiedersi se vi è proporzione tra le cose che so e quelle che dovrei sapere.
Proporzione cioè tra scita e scienda, tra le cose che so professionalmente e le cose che dovrei sapere come uomo. Questo è chiaramente un criterio contro la tabe dello specialismo in cui tizio sa tutto, come direbbe Schopenauer, sugli intestini dei vermi intestinali, ma non sa nulla, né mai ha avuto l’interesse ad occuparsene, su quello che lo riguarda come uomo, su quei messaggi anzitutto religiosi che gli dicono che ha un destino, che va inesorabilmente verso un certo posto chiamato morte, che ha una vita sola in cui è imbarcato e che deve giocare.
Il terzo criterio interno, infine di rilevamento è che si sia coscienti che il mio sapere non è finalizzato ad altri che a me. V’è unità sapienziale solo se io so che non studio per accumulare il sapere e che neppure lo faccio essenzialmente in vista dell’esercizio della mia professione, ma studio avendo in mente che il fine ultimo dei miei sforzi è finalizzato ad un sapere che mi educhi a ben vivere e a ben morire. Il criterio migliore per sapere se ho “gusto” nel mio sapere è chiedermi se lo studio che faccio mi rende migliore di quello che sono, se lo sforzo di superare la difficoltà di un problema mi esercita alla fortezza nella vita, se il desiderio di soluzione mi costringe ad una volontà di verità in tutte le cose evitando che per il resto io mi rassegni a vivere alla periferia del mio essere.
Qualità dello studio, qualità della vita
Lo studio, come nella mirabile tradizione zen dell’arte del tiro con l’arco, non ha, allora, il suo bersaglio, il suo scopo fuori di noi ma in noi. La capacità che si deve acquistare colpendo bersagli materiali, studiando problemi e scienze precise, è solo un pretesto per qualcosa che potrebbe accadere anche senza di quella e di cui quella è solo la via verso la meta, non la meta stessa; giacché la meta o il bersaglio è l’arciere stesso o, in altri termini, chi studia. Il nostro sapere, ricordiamocelo, passa con noi e se non saremo usciti da questa vita migliori di quando vi siamo entrati sarà difficile non collegare la scarsa qualità della nostra vita con la scarsa qualità del nostro sapere.
Credo con questo di aver risposto alle tre domande che mi ero fatto all’inizio. A che scopo l’università? Allo scopo di dare un’unità al nostro sapere; la sua crisi dipende dall’aver perso di vista quella risposta. A che scopo studiare? Studiamo per ricostruire in noi l’unità del sapere, studiamo per avere il gusto di quel che studiamo. Per chi studiamo? Studiamo per noi, studiamo perché ciò che abbiamo di mira siamo noi stessi, la qualità della nostra vita, impossibile senza una certa qualità del nostro sapere. Studiamo per noi perché tutto il sapere è finalizzato al nostro miglioramento (diceva Plotino: non cessare di scolpire la tua statua!), e tutti noi siamo finalizzati a Dio.
“Univesitas” 14 (1993), n. 4, pp. 18-22.