Credere in Dio nell‘età della scienza

L'uomo, afferma all'inizio del libro John Polkinghorne, fisico e pastore anglicano, è come una "canna pensante" e, citando Pascal, sottolinea come la canna sia sì uno degli elementi più fragili in natura, ma quel "pensante" le dà una dignità che la rende superiore ad ogni altra creatura dell'universo: è una qualità, potremmo dire, divina, in quanto consente all'uomo di scoprire che "dietro" la storia del cosmo c'è la presenza di Dio, quale Mente e Scopo ultimo, base della nostra speranza. E questo senza alcuna contrapposizione con la ricerca scientifica; anzi «se la realtà viene interpretata in modo generoso e adeguato, la conoscenza apparirà unica; (…) la scienza e la teologia appariranno come compagne impegnate in un'unica, comune ricerca del sapere» (p. 4). Ed è da questo punto di vista che l'autore parla anche di "bellezza " della matematica e della fisica perché «la bellezza razionale del cosmo riflette davvero la Mente che lo tiene in essere» (p. 9).

È questo il filo conduttore di tutto il libro di John Polkinghorne, anche se il teologo anglicano non manca di mettere in evidenza come tra scienza e teologia ci sia una diversa tipologia di conoscenza: la prima è quantitativa, la seconda qualitativa. E tuttavia, afferma l'Autore nella parte terminale del suo lavoro, «lo scienziato e il teologo lavorano entrambi a partire da una fede, una sorta di realistica fiducia nell'affidabilità razionale della nostra comprensione dell'esperienza» (p. 145); reso possibile, questo, dal fatto che i due tipi di sapere, pur agendo su piani diversi, si integrano a vicenda.

A conferma di queste sue affermazioni l'Autore espone le diverse teorie evoluzionistiche da Darwin a Monod e le leggi che regolano il nostro universo, soffermandosi sul Principio antropico (secondo il quale «l'Universo all'interno del quale vi è la vita umana deve essere compatibile con la nostra comparsa in un dato momento della sua storia», pp. 10-11) e sulle Teorie di Grande Unificazione (GUT) riguardanti le forze fondamentali che lo regolano: un contesto in cui trova spazio una nuova teologia naturale che si discosta da quella di s. Anselmo e s. Tommaso in quanto non parla di "prove" dell'esistenza di Dio, ma offre una spiegazione teistica di ciò che succede nell'universo. «Oggi noi non guardiamo al mondo fisico perché siamo alla ricerca di segni dell'esistenza di Dio, ma guardiamo all'esistenza di Dio come a un aiuto per darci un quadro intellegibile del modo in cui le cose si sono sviluppate nel mondo fisico» (p. 17).

Dunque, anziché presentarsi come antitetica alla scienza, la nuova teologia naturale offre un completamento teleologico che dà alle leggi fisico-matematiche un contesto di comprensione più esaustivo, con il vantaggio, continua Polkinghorne, di poter distinguere nel mondo ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che non lo è: aspetto che sfugge alla scienza, e in particolar modo alla biologia, che di fatto rimane "cieca", limitandosi alla considerazione delle sole forze fisiche di costituzione della realtà. Posizione, questa, da confrontare con quella esposta dallo scienziato Stephen Jay Gould nel suo testo I pilastri del tempo (Il Saggiatore, Milano 2000), in cui lo studioso si dichiara convinto invece della necessità che scienza e fede debbano restare del tutto separate, proponendo la tesi dei "Magisteri non sovrapposti".

Resta in ogni caso aperto l'interrogativo sulla presenza nel mondo della sofferenza, del male e della morte: hanno un posto in questo "piano" teistico, o piuttosto confermano la legge inesorabile della selezione naturale senza altre finalità di carattere metafisico? È un problema che sta particolarmente a cuore a Polkinghorne, perché lo riprende in più parti del suo saggio, quando ad esempio scrive nelle prime pagine che «si tratta del costo necessario per una creazione a cui il Creatore ha accordato la libertà di essere se stessa» (p. 18); oppure nelle ultime, con motivazioni più articolate: «Il costo della vita è necessariamente la morte, si tratti di una specie che lasci il posto ai suoi successori in una determinata nicchia ecologica o dell'esplosione di una supernova che sparpaglia nell'ambiente quelle materie prime chimiche che in seguito si condensano rendendo possibile la vita sul nostro pianeta. Questa interpretazione non risolve tutti i problemi della teodicea, ma più comprendiamo la delicata ragnatela di rapporti strutturali che pervade un universo fecondo, più questo universo ci appare come un "pacchetto tutto compreso", dove la presenza del male fisico viene percepita più come inevitabile che come gratuita» (p. 165). È come se Dio si fosse in qualche modo "ritirato", lasciando alle sue creature la libertà di "farsi da sé": il giusto prezzo da pagare, precisa il teologo, per non essere dei semplici automi ma di diventare, soprattutto per quanto riguarda l'uomo, responsabile del proprio destino.

Si tratta, ancora una volta, di una scelta valoriale, a cui la stessa scienza non si può sottrarre, in quanto anche la scelta di un metodo invece di un altro dipende da atti di valutazione da parte di chi lo assume. «Ciò implica l'identificazione di un valore da parte di persone in grado di darne un giudizio articolato: un'operazione che non può essere ridotta all'esecuzione riuscita di una successione di algoritmi» (p. 21). Prendiamo l'esempio della musica: scientificamente non è che un susseguirsi di suoni misurabili; ma perché quelle vibrazioni hanno la capacità di stimolare i nostri sentimenti? Per la bravura del compositore nell'assemblare ritmo e suono in modo da ottenere uno scopo, cioè un valore artistico. Così è per il nostro mondo, in cui «c'è una suprema Fonte del Valore stesso, fonte la cui natura si riflette in tutto ciò che viene tenuto in essere» (p. 25).

Una visione, questa, che aiuta ad attuare quel salto di qualità di cui l'uomo ha bisogno per non cadere nel pessimismo di chi considera la fine del mondo come qualcosa di definitivo, dando ragione a Macbeth quando parla di "storia raccontata da un idiota"; invece spetta solo a Dio l'ultima parola sulla morte: «Il teismo mira a conferire un senso "totale" al mondo. La forza delle sue tesi dipende dalla misura in cui la credenza in Dio concede la "spiegazione migliore" della verità non solo dell'esperienza religiosa, ma dell'esperienza umana nel suo complesso» (p. 31).

E tuttavia queste considerazioni non devono far dimenticare che la teologia nella sua ricerca della verità fa molta più fatica della scienza in quanto incontra problematiche di spessore ontologico e non di semplice carattere sperimentale come quella, ad esempio, di capire se e come Dio agisca nell'universo. Alcuni scienziati, precisa John Polkinghorne, sostengono la cosiddetta "reazione minimalista" che consiste nel riconoscere l'azione divina come grande intervento creatore, ma non come presenza particolare nei singoli casi della realtà. Invece bisogna vedere la continua "lealtà" di Dio che non abbandona a se stesse le sue creature, ma entra a far parte del "dispiegamento storico" che riguarda non solo l'umanità, ma ogni elemento della realtà cosmica.

A conferma di questa sua convinzione l'Autore presenta una serie di osservazioni improntate soprattutto sui concetti di "causalità", di "caos" e di "tempo" per arrivare alla formulazione di due possibili proposte: quella della teologia classica per la quale «l'intera storia cosmica sarebbe "immediatamente" presente all'occhio divino» (p. 82) in una assoluta atemporalità; e quella invece dell'universo in divenire, conosciuto da Dio nella suo accadere storico, cioè nella successione degli eventi. Entrambe le posizioni presentano sia aspetti positivi che difficoltà, ma è la seconda, quella della temporalità, che secondo il teologo anglicano, «si accorda meglio con il pensiero del tardo ventesimo secolo, sia teologico sia scientifico» (p. 88). È la convinzione, almeno per quanto riguarda gli scienziati e i teologi di orientamento realistico, che li accomuna nello stesso impegno. C'è una verità da ricercare a cui entrambi cercano di avvicinarsi: «Non giungeremo mai a coglierla pienamente, ma in entrambe le discipline possiamo sperare in una comprensione che di continuo migliori» (p. 57).

Un'affermazione che costituisce l'aspetto più proficuo della collaborazione tra ricerca scientifica e teologica, in un confronto che, secondo John Polkinghorne, non riguarda solo l'ambito cristiano ma tutte le grandi tradizioni religiose del mondo. Infatti non è solo l'aspetto del "credere" che oggi viene chiamato in causa, ma anche «il modo in cui tutte le persone di buona volontà dovrebbero affrontare i problemi morali posti dalla crescita della scienza. (…) Non tutto ciò che "può" essere fatto "deve" essere fatto. L'imperativo tecnologico deve essere temperato dall'imperativo morale» (p. 108).

Si tratta, come si comprende, di un libro impostato principalmente sul nesso di collaborazione tra scienza e fede e sui loro parallelismi metodologici, ma che allo stesso tempo non tralascia di rimarcarne le differenze nell'approccio gnoseologico di fondo: «La scienza deve il suo enorme successo alla natura limitata delle proprie ambizioni. Essa rinuncia a occuparsi di qualità come valore e impegno personale, e si concentra invece su quantità che possono essere misurate e valutate nello scenario impersonale del controllo empirico. Il suo modo di procedere è di natura differente da quello della teologia, che è a sua volta impegnata a capire qualcosa della natura e degli scopi di un Dio transpersonale» (pp. 160-161) in quanto, conclude Polkinghorne, la religione tenta di rispondere alla grande domanda di Leibniz sul perché ci sia qualcosa anziché il nulla.