In una bibliografia dedicata al rapporto fra fede e ragione segnaliamo le lezioni svolte da Sofia Vanni Rovighi (1908-1990) all’Università Cattolica del S. Cuore, raccolte in un testo che, per concisione e chiarezza, rappresenta tuttora una delle migliori sintesi didattiche sul problema di Dio. L’A. aveva scelto per queste lezioni il titolo “Il problema teologico come filosofia”, allo scopo di mostrare come l’interrogare umano su Dio rappresenti il cuore di ogni vera filosofia, in accordo con quanto affermato più tardi dalla Fides et ratio. Partendo da una difesa del principio di non-contraddizione, operata di fronte a quella “logica” hegeliana secondo la quale “tutte le cose sono in se stesse contraddittorie”, e seguendo con una successiva difesa del principio di causalità, realizzata questa volta nei confronti del pensiero Hume, si passano in rassegna le prove classiche dell’esistenza di Dio, valutandone pregi e difetti. Si analizzano dunque le critiche dirette nell’epoca moderna a tali prove (o le nuove “prove” addotte) da Cartesio, Leibniz, Kant, Hegel, approdando infine all’ateismo di Feuerbach. Il volume, proprio perché tratto da lezioni universitarie, mantiene un linguaggio diretto e colorito, senza perdere per questo in rigore. «Se la filosofia è la ricerca della ragione delle nostre scelte – afferma la Vanni Rovighi – e se questa ricerca sbocca necessariamente nel problema di Dio, il problema di Dio è parte integrante della filosofia» (p. 13). Certo, si può negare che la riflessione debba muoversi verso la ricerca del vero e del bene, fino a sostenere che non vi sia bisogno di “dare ragione” delle proprie scelte. Ma questa posizione offre il fianco a due obiezioni: la prima è che di fatto tutti gli uomini cercano sempre di dare una ragione per quanto essi scelgono ed operano; la seconda è che, quando si rinuncia a giustificare le proprie scelte o si ritiene che ciò sia teoreticamente impossibile, si finisce con l’affidarsi alla forza bruta. «E se uno chiedesse perché non affidarsi alla forza bruta, risponderei che – se questa è una opzione – opto per la ragione» (p. 13). Si comprende pertanto la conclusione, forse poco di moda, dell’A., secondo la quale «non c’è peggiore assolutista di chi professa a parole un relativismo etico».