«Ho celebrato il mio settantacinquesimo compleanno. Rimango cattolico, e spero di morire tale». Così scriveva, nel 2000, sir Michael Anthony Eardley Dummett, il grande logico e filosofo scomparso lo scorso 27 dicembre 2011.
La questione della fede ricorre nelle pagine della sua Autobiografia intellettuale, il saggio che come d’abitudine apre il volume della Library of Living Philosophers a lui dedicato e da cui viene la frase sopra riportata (The Philosophy of Michael Dummett, a cura di R.E. Auxier e L.E. Hahn, Open Court, Chicago - La Salle 2007, p. 32). Curiosamente, però, rimane in secondo piano – o addirittura non viene nemmeno menzionata – in molti dei ricordi apparsi su varie testate in tutto il mondo: si parla dell’impegno di Dummett contro il razzismo, del suo interesse per le procedure di voto, della passione per i giochi di carte e per la storia delle carte da gioco. La situazione non può certo esser fatta risalire a una qualche riservatezza di Michael Dummett, la cui condotta in merito era palese e aperta. Il nostro primo incontro avvenne proprio all’uscita della messa, sul sagrato della chiesa di S. Luigi Gonzaga, a Oxford, in una grigia domenica dell’autunno del 1989.
Il rapporto tra il pensiero di Dummett e la sua fede è sempre stato esplicito. Come egli stesso scrive nell’autobiografia, «le mie ragioni per credere in Dio sono filosofiche piuttosto che affettive» (p. 5): tra queste, centrale è l’idea che la Chiesa di Roma è «l’unica istituzione che possa in modo plausibile affermare di essere in continuità con la Chiesa fondata da Cristo» (p. 4). Anche se questo non ha impedito a Dummett di nutrire, a volte, dei dubbi, oppure di esprimere critiche verso la sua Chiesa, la fede ha sempre finito per prevalere, trovando espressione anche nell’afflato caritativo verso gli emarginati per questioni razziali o nel tentativo di costruire un dialogo ecumenico.
Se la fede cattolica di Dummett non viene menzionata nel dibattito pubblico, tra alcuni cattolici il suo pensiero non gode di buona fama, visto che gli viene imputato un distacco dalla tradizione cristiana per una presunta posizione anti-realista. Non è questa la sede per una discussione approfondita: basti dire che buona parte della riflessione del filosofo inglese è stata dedicata da un lato alla nozione di verità, dall’altro alle argomentazioni pro o contro il realismo. Sin dagli anni ’60 del secolo scorso (come testimonia Realism, un articolo poi pubblicato in Truth and Other Enigmas, Duckworth, London 1978) Dummett ha cercato di definire una caratteristica comune a tutte le argomentazioni in favore del realismo, descrivendo la posizione opposta come anti-realismo: il punto è la possibilità o meno di accettare il principio di bivalenza (l’idea che un enunciato p sia o vero o falso) per una data classe di enunciati. Il realismo equivale all’accettazione del principio e l’anti-realismo al rifiuto: in questo modo, si ha una caratterizzazione semantica molto semplice di che cosa significa essere realisti relativamente a qualche porzione di realtà (oppure rispetto alla realtà tutta intera, se si pensa che il principio di bivalenza abbia validità universale). Ciò equivale a riconoscere, da un punto di vista teorico, una caratteristica intuitiva del realismo: se dico qualcosa riguardo alla realtà intorno a me, questo enunciato è o vero o falso, a seconda di come stanno le cose.
Una simile caratterizzazione non implica, ovviamente, che Dummett prenda posizione: il suo obiettivo – come ha scritto a più riprese – non è convincerci dell’una o dell’altra alternativa, ma di esplorare le condizioni del realismo (e dell’anti-realismo). Si tratta di superare, in modo elegante, un’impostazione del problema assai diffusa: passare attraverso la semantica permette, rispetto a una strada più convenzionale attraverso l’epistemologia, di porre con chiarezza la questione metafisica nel confronto con le scienze. Prima di aver stabilito i confini tra le discipline, c’è infatti il problema del significato degli enunciati, sia scientifici sia appartenenti ad altri campi. A partire da queste considerazioni, la proposta di Dummett permette di delimitare con chiarezza in quali ambiti affermare il realismo: se, per fare un esempio, la posizione del realista è intuitivamente plausibile per la fisica, lo è di meno per la matematica, anche se non sono mancati matematici risolutamente realisti, a partire proprio da Frege, oggetto degli studi di Dummett per decenni.
Tutto questo appare scontato a chiunque abbia seguito il dibattito filosofico degli ultimi decenni, dibattito nel quale Dummett ha occupato una posizione di primo piano, soprattutto per quanto riguarda il filone cosiddetto “analitico”. Si possono discutere le sue posizioni senza fare riferimento alla fede: lo stesso vale, ovviamente, anche per gli interessi extra-filosofici. Il Dummett che si occupa di procedure elettorali non deve essere per forza conosciuto dai logici, e viceversa. Se però si omette di menzionare il fatto che Dummett era un cattolico praticante e che ha scritto anche di questioni relative alla fede, nasce il sospetto che tale omissione non sia del tutto casuale: solo questo, tra gli argomenti di cui si è occupato, viene lasciato in secondo piano.
È ragionevole pensare che tale silenzio sia dovuto anche a una certa ignoranza circa gli argomenti. L’articolo sulla transustanziazione può risultare ostico per i lettori privi di rudimenti teologici e filosofici; la polemica pubblicata a suo tempo su New Blackfriars sembra confinata entro il mondo cattolico. Eppure sono proprio queste considerazioni così ragionevoli a porre il problema: possiamo accettare che un aspetto importante della vita di una persona passi completamente sotto silenzio?
Il problema non riguarda lo sbandierare in giro la propria fede, quanto piuttosto la possibilità di parlarne. Se la fede rimane, con un finto pudore, collocata ai margini del dibattito culturale, si perde la possibilità stessa di valutarne gli esiti. Non si tratta certo di fare l’apologia del Dummett cattolico, nemmeno di assumere che le sue posizioni siano corrette. Ma c’è una bella differenza tra questi due atteggiamenti e il silenzio: c’è solo da augurarsi che questa sorte sia dovuta a circostanze particolari e non alla difficoltà strutturale ad ammettere una credibilità pubblica della fede cattolica.