La fine di un anno e l’inizio di uno nuovo suggerisce qualche riflessione su quanto si prospetta sull’orizzonte scientifico e culturale. È evidente il grande interesse degli ultimi anni per le neuroscienze. A questo si va progressivamente aggiungendo quello per la “neuroetica”, una giovane disciplina così denominata a partire dal 2002. Si tratta di un nuovo campo di indagine interdisciplinare che, forte dell’incredibile sviluppo delle neuroscienze, comincia ad articolare in modo compiuto gli ultimi studi sperimentali di queste ultime con alcune tematiche di stampo prettamente umanistico: l’etica, l’estetica e la morale, per citare quelle più significative. La neuroetica ha un suo precedente storico nella disciplina della neurofilosofia: risalente agli anni Ottanta del secolo scorso, questo campo di indagine provava a “risignificare neuronalmente” alcune tematiche antropologiche per eccellenza: la disciplina filosofica in generale, ed alcuni temi caldi riguardanti la definizione delle peculiarità di Homo sapiens – ed il suo inserimento nel flusso del divenire evolutivo – illuminato però di una speciale “luce neuronale”. La neuroetica contemporanea, senza perdere di vista il suo illustre “predecessore neurofilosofico”, si avvale di alcuni studi di frontiera riguardanti il cervello umano per impostare un dialogo reciprocamente informato tra le scienze del cervello e tradizione umanistica (filosofia, etica, antropologia). Le pubblicazioni tematiche sono da qualche anno a questa parte fonte di continuo interesse, sia da parte dei grandi media divulgativi (quotidiani e periodici di approfondimento scientifico, sia cartacei che online), che da parte degli addetti ai lavori: comprendendo in questo contesto ambiti accademici filosofici e scientifici. La nascita, risalente al marzo 2008, della prima rivista specialistica, Neuroethics, riflette l’interesse e l’importanza accresciuta di questo nuovo campo del sapere. La traduzione italiana della prima monografia dedicata, scritta per mano del più grande esperto mondiale (N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, 2009), rappresenta bene l’approdo della neuroetica all’interno della grande divulgazione scientifica del nostro paese.
Ma come viene definita usualmente questa disciplina? La distinzione classica che è operata al suo interno, come per indicare due macroaree distinte ma potenzialmente interesecantesi, è quella tra etica delle neuroscienze e neuroscienze dell’etica.
La prima si interessa principalmente delle pratiche di gestione e regolamentazione delle neuroscienze contemporanee quando applicate in sede clinico-medica. Si tratta di un ambito che ha afferenze molto strette con la bioetica contemporanea, e con il braccio operativo della scienza cosiddetta “di base”: la tecno-scienza. L’etica della neuroscienza dunque rappresenta quell’area di indagine che vuole indagare tutto ciò che riguarda il cervello umano e la gestione etica di procedure sperimentali, esperimenti, cure e gestione dei dati personali.
Le neuroscienze dell’etica, invece, rappresentano la vera novità di questi tempi, e si collocano in quel nuovo orizzonte di studi interdisciplinari al confine tra materie scientifiche e umanistiche che tanto successo sta riscuotendo in tutto il globo. L’area di interrogazione della neuroscienza dell’etica riguarda alcune peculiarità della nostra specie, studiate facendo operare sinergicamente dati neurologici e riflessione antropologica. Come già anticipato dal titolo della prima opera monografica a tema, l’indagine si concentra sulle caratteristiche peculiari di Homo sapiens, approcciate però – e questo è l’elemento di maggiore interesse – partendo dai correlati neurali ad esse associate. Allo scopo di scoprire nuovi elementi di arricchimento per le tematiche di interesse.
Quali sono le basi neuronali del nostro senso morale? Come ci si può accostare in termini neuronali ad una tematica storicamente così dibattuta come quella del libero arbitrio? Come funziona il nostro cervello quando eseguiamo “azioni morali”? E cosa succede ai nostri neuroni quando siamo nelle condizioni di dover eseguire un atto che associamo alla nostra “libertà di scelta”?
Gli esperimenti attorno ai quali vengono fatti ruotare tutti questi interrogativi sono principalmente di due tipi.
I primi riguardano i correlati neurali sottostanti alla scelta morale (moral decision making): in un esperimento che è ormai diventato un piccolo classico neuroscientifico (J.D. Greene, R.B. Sommerville, L.E. Nystrom, J. M. Darley, J.D. Cohen, An fMRI investigation of emotional engagement in moral judgment, in Science 293 [2001] 2105-2108), i ricercatori hanno compiuto una distinzione tra “scelte morali impersonali” e “scelte morali personali”. Hanno poi associato alla prima categoria il cosiddetto “dilemma del trolley”, ed alla seconda il “dilemma del ponte”. Si tratta di due temi già presenti e ben noti in letteratura psicologica. Il primo dilemma presenta al volontario uno scenario virtuale in cui è chiamato a prendere una decisione: un carrello corre su un binario verso cinque persone svenute su di esso. Una leva però, che si trova nei pressi del volontario, permette di deviare il percorso su un binario parallelo, su cui giace una sola persona svenuta. Accetterebbe il volontario di tirare la leva, salvando così cinque persone ma causando la morte di un altro sventurato? Il dilemma del ponte presenta la stessa situazione di partenza: cinque persone svenute su un binario, e un treno in corsa verso di esse. L’osservatore si trova su un cavalcavia, e l’unico modo che ha per salvare i cinque sventurati è quello di gettare un uomo grasso che si trova sul ponte, per fermare la corsa del treno. I ricercatori hanno scoperto, a conferma dell’ipotesi di partenza, che le aree attivate nella prima situazione sperimentale sono quelle maggiormente associate al “ragionamento freddo e razionale”. Quelle che si attivano al presentarsi del secondo dilemma, invece, sono quelle maggiormente associate al coinvolgimento emozionale. Il volontario, se nel primo caso risponde velocemente ed affermativamente all’ipotesi di tirare la leva, nel secondo invece prende la sua decisione più lentamente: scioglie il dilemma morale in un tempo maggiore quando messo davanti alla possibilità di causare direttamente la morte di un suo simile (spingendolo giù dal cavalcavia). Gli sperimentatori ipotizzano, come spiegazione al ritardo di risposta, la presenza di una “competizione neuronale tra aree emotive e aree razionali”, sciolta la quale il volontario prende la decisione.
Il secondo gruppo di esperimenti, invece, chiama in causa direttamente il concetto di “libero arbitrio”: due studi neuroscientifici infatti, l’uno storico e l’altro più recente, mostrano come alcuni automatismi cerebrali sembrino bypassare la libera coscienza durante l’esecuzione una determinata azione (cfr. B. Libet, C.A. Gleanson, E.W. Wright, D.K. Pearl, Time of conscious intention to act in relation to onset of cerebral activity (readiness-potential). The unconscious initiation of a freely voluntary act, in Brain 61 (1983) 623-642; C.S. Soon M. Brass, H.J. Heinze & J.D. Haynes, Unconscious determinants of free decisions in the human brain, in Nature Neuroscience vol. 5 n. 1 (2008) 543-545).
Le discussioni attorno a questi esperimenti sono molto articolate, e le interpretazioni dei medesimi dati sperimentali sono spesso divergenti. Come interpretare le attivazioni cerebrali differenziali negli esperimenti sul senso morale? Che ruolo giocano le emozioni ed il “coinvolgimento in prima persona” durante il processo di decision making? Si tratta di una competizione tra aree cerebrali differenziate, oppure le componenti emozionali e relazionali sono sempre interconnesse, e non possono dunque essere considerate separatamente per indagare la presa di decisione?
E ancora: cosa ci mostrano effettivamente le attivazioni cerebrali pre-conscie evidenziate dagli esperimenti sul freewill? Ci indicano una nostra pre-cablatura neuronale, che renderebbe inutile ed ormai inapplicabile un concetto cardine come quello del libero arbitrio? Oppure quelle emerse dagli esperimenti sono attività neuronali che, se correttamente interpretate, permettono comunque di “salvare” la libertà di decisione?
Le diverse interpretazioni del dato sperimentale rendono il dibattito vivissimo.
Un esempio paradigmatico dello stato dell’arte delle discussioni neuroetiche è rappresentato dai due convegni a tema che si sono tenuti a Padova, nel 2009 e nel 2010. La sede storica dell’università patavina ha accolto due eventi di prestigio, organizzati in collaborazione con la Fondazione Sigma-Tau e la Fondazione Giannino Bassetti, durante i quali un numero nutrito di curiosi e appassionati ha assistito alle relazioni degli specialisti del settore. In questi due anni, attorno alle tematiche ed alle sfide lanciate dalla neuroetica contemporanea, hanno dialogato esperti di discipline variegate: filosofi morali, neuroscienziati, neurologi, medici, giuristi, neurofilosofi, neuroeticisti e filosofi della mente. La lectio magistralis tenuta dal Levy nella seconda edizione è indice del respiro internazionale che questo evento ha assunto fin dalla sua nascita. Un nutrito gruppo di giovani ricercatori, inoltre, ha presentato, tramite poster sessions, le proprie ricerche di frontiera.
La discussione relativa all’interpretazione dei dati neuronali emersi dagli esperimenti ha occupato un posto centrale nei due convegni. A questo riguardo neuroscienziati, filosofi morali e filosofi della mente hanno dialogato per chiare alcuni concetti chiave in gioco: cosa significhi registrare una scarica neuronale a livello di una precisa area cerebrale; come si possa interpretare questa scarica; come si possono definire le azioni coinvolte, cioè se ed in quali termini collocarle effettivamente all’interno delle cosiddette “azioni morali”, e se ed in quali termini definire “prese di decisione libere” i compiti eseguiti durante gli esperimenti sul libero arbitrio.
Altre tematiche di frontiera hanno arricchito il programma degli incontri. Tra le più significative possiamo qui ricordare quelle relative al rapporto tra comunità (neuro)scientifica e società; quelle legate alla liceità o meno del cosiddetto potenziamento delle capacità cognitive (enhancement). Ed anche, last but not least, le ampie panoramiche sulle ultime scoperte che riguardano i neuroni specchio, la nota classe neuronale presente in scimmia da laboratorio (Macaca) ed in uomo, che facilita l’interazione con i nostri conspecifici.
I dati emergenti da questi dialoghi hanno mostrato ancora una volta due elementi fondamentali, facilmente recepibili da parte del grande pubblico: l’estrema complessità morfo-funzionale del cervello umano, cui si accompagna il rifiuto sempre più deciso di quel vecchio dualismo cartesiano che vedeva res cogitans e res extensa (tradotto in termini neuroscientifici: mente e cervello) come due entità autonome e separate. La nostra esperienza mentale si mostra oggi quanto mai incarnata, ed il nostro substrato biologico è un elemento prezioso per indagare le nostre peculiarità. Ecco dunque che l’idea di recuperare la proposta ilemorfica – di aristotelica memoria – per descrivere il rapporto mente/cervello risulta di sicuro interesse per le indagini future.
Le tematiche calde che gravitano attorno al “pianeta neuroetica” sono trattate in modo accurato anche da quello che è forse il frutto migliore prodotto da questo biennio di indagini neuroetiche patavine. Si tratta di un libro, fresco di stampa, curato da tre esperti che compaiono tra gli organizzatori dei convegni (de Caro, Lavazza, Sartori, Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, 2010): all’interno di questo volume i maggiori esperti internazionali incrociano le rispettive vedute sulle grandi tematiche di interesse, articolando un confronto tra approcci riduzionistici ed antiriduzionistici.
La sfida, però, è appena cominciata, e nuovi guadagni teorici ed empirici promettono di allargare ulteriormente l’orizzonte di interesse.
Se da un lato gli studi neuroscientifici ci permettono di compiere un “arricchimento neuronale” di alcuni tratti caratteristici della nostra specie, dall’altro emerge bene, dalla lettura dei lavori pubblicati, la ricerca continua di un dialogo reciproco tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica. Ciò sta ad indicare una tendenza ad imbastire un dialogo interdisciplinare proficuo, per costruire teorie scientifiche ed antropologiche sempre in contatto diretto con la ricerca di frontiera.
Lo scopo comune e condiviso, in questo come in altri campi di indagine interdisciplinare, è quello, pur con le diverse peculiarità e con i diversi metodi di indagine delle discipline coinvolte, di contribuire a dipingere un quadro sempre più complesso ed articolato del nostro “essere uomini”. Ciò è possibile avvalendoci di approcci di ricerca distinti ma sempre intersecantisi. Perché il centro focale è unico: Homo sapiens.