È sotto gli occhi di tutti noi, come e quanto il nostro agire quotidiano si presenti quale causa dei problemi ecologici e allo stesso tempo come luogo e mezzo necessario alla loro soluzione. Ciò rende del tutto evidente l’importanza e la priorità di una riflessione in prima istanza antropologica, e successivamente etica riguardo la crisi ambientale, poiché essa nasce e si identifica con il nostro agire sull’habitat terrestre.
Accanto ad una necessaria ed accorta politica ambientale globale, che attui con celerità gli opportuni provvedimenti prima che la situazione generale del pianeta raggiunga il punto di non ritorno, risulta inevitabile un’attenta riflessione su come, e su quali basi, ripensare, indirizzare e realizzare un rapporto persona-natura rinnovato e adeguato all’oggi. A mio avviso, un tale rapporto – risultato di un’attenta operazione culturale – passa inevitabilmente attraverso il recupero del significato delle relazioni che legano ciascuno di noi alla natura stessa. Ma come è possibile ciò? Ed in particolare come possiamo fondare un corretto ethos ecologico?
Questi interrogativi sono una sfida culturale non irrilevante per tutti noi. Sfida che dovremo articolare a vari livelli.
Innanzitutto sul piano della “presenza storica sul territorio”. Recuperare il significato delle relazioni che ci legano alla natura, per una parte di noi, vorrà dire recuperare sul proprio territorio quelle tradizioni che hanno culturalmente segnato il passato pre-industriale delle generazioni che ci hanno preceduto per potervi riscoprire elementi vitali, quali atteggiamenti, comportamenti e forme educative di un rapporto con la natura ricco di significati.
Un esempio può essere il recupero di quegli elementi vitali della civiltà agricola e contadina, che nella loro ricchezza simbolica, sapienziale, religiosa, artistica ancora oggi possono esserci di luce per recuperare, all’interno di una società fortemente artificializzata, il significato delle relazioni che ci legano alla natura.
Sul piano del pensiero. Quotidianamente constatiamo come la crisi ambientale sia fondamentalmente una crisi antropologica. Una crisi che affonda le sue radici in alcune direttive dello spirito umano le quali hanno condotto la civiltà occidentale a determinati valori e categorie e non potremo avere un vero e autentico cambiamento se non correggendo questi valori e categorie. Al centro di questa trasformazione dovrà inevitabilmente esserci il concetto di natura intesa non più come sfera del non umano tipica del paradigma cartesiano attualmente dominante, ma come totalità del mondo fisico includente gli esseri umani. Ciò comporta che il rapporto tra persona umana e natura dovrà essere decisamente impostato in maniera diversa da come oggi normalmente lo consideriamo. E questo è un obiettivo né semplice, né facile da raggiungere.
Sul piano della fede religiosa. Dai vari tentativi fin qui svolti di realizzare di un nuovo paradigma riguardante il nostro rapporto con la natura e conseguentemente la sostenibilità del nostro modello di sviluppo socio-economico, si evince la consapevolezza che non basteranno soltanto scelte positive da parte di individui o nazioni, ma occorreranno cambiamenti strutturali nell’economia mondiale.
Sorge inevitabile a questo punto la domanda: tutto ciò sarà possibile senza l’acquisizione di una nuova sensibilità al bene comune dell’umanità, alla destinazione universale dei beni, alla fratellanza universale, e senza un radicale cambiamento nei propri comportamenti consumistici per una parte considerevole della popolazione mondiale?
Domanda legittima se si pensa che l’operazione sopradetta sollecita ed esige essa stessa un modello antropologico – per molti suoi aspetti oggi ancora inedito – in cui si passi da un'ottica prevalentemente individuale ad un'ottica di comune-unione, da un'ottica di gruppo limitato ad un'ottica di famiglia umana globale. E qui ogni autentica tradizione religiosa è chiamata a dare il proprio contributo.
In modo particolare – qui, a mio avviso – s’innesta il contributo del cristianesimo mediante la sua categoria centrale: “amore”, intesa come tensione oblativa nei confronti dell’alterità e quindi come qualità specifica dei rapporti tra le persone, tra le comunità e tra i popoli coinvolti in tale impresa. Qualità specifica anche di un nuovo rapporto tra persona umana e natura che può alimentare e sostenere un nuovo paradigma dello sviluppo.
Tutto ciò allarga lo scenario classico della nozione “amore” oltre il livello antropologico (rapporti nella società umana) per toccare anche quello cosmologico (rapporto persona-natura).
Riguardo il livello antropologico non mi soffermo su atteggiamenti pratici, ma vorrei invece focalizzare la riflessione su un’opzione fondamentale che li precede e che riguarda quelle posizioni intellettuali riguardanti il rapporto persona-natura quali l’antropocentrismo e il fisiocentrismo.
La posizione antropocentrica affermando la fondamentale differenza fra l’uomo e tutti gli elementi naturali che costituiscono il suo habitat presuppone che la persona umana abbia un ruolo principale all’interno del mondo naturale e quest’ultimo non possieda un proprio valore intrinseco ma solo il valore che la persona umana stessa gli attribuisce. Una tale attribuzione può essere frutto di una semplice scelta umana o un atto di riconoscimento obbligato per la persona umana allorché accoglie su basi religiose il profondo significato della natura in rapporto alla divinità.
La posizione fisiocentrica focalizza, invece, la propria attenzione sulla preservazione della natura indipendentemente dagli interessi dell’uomo. Quest’ultimo, appartenendo anch’egli alla natura, deve vivere in consonanza con essa uniformandosi alle sue leggi. Conseguentemente è moralmente corretto tutto ciò che mantiene gli ecosistemi nelle migliori condizioni possibili ed è illecito tutto ciò che può danneggiarli.
In questa dialettica la categoria “amore”, può superare la giustapposizione delle due posizioni intellettuali proponendo un antropocentrismo oblativo, una visione del mondo in cui al centro del rapporto persona-natura vi sia una persona umana che nel realizzare il dono-di-sé diventa sempre più se stessa, vive in piena reciprocità con i suoi simili al punto da essere con loro «un cuore e un’anima sola» (At 4,32), e vive accompagnando l’umanità e il cosmo verso la Vita stessa di Dio.
Riguardo il livello cosmologico la categoria “amore” ci spinge a non sentirci padroni della natura ma a scoprirci suoi custodi, amministratori oculati in vista di una sua consegna alle generazioni future.
Oggi giorno la consapevolezza che i danni inferti all'habitat naturale minacciano sempre più le basi della vita, generano al tempo stesso sentimenti di angoscia, rassegnazione ed impotenza, ma ci spingono anche a reagire contro le conseguenze di uno sviluppo socio-economico gestito unicamente da una ragione utilitaristica. Si forma sempre più – anche se lentamente – la coscienza che sia giunto per tutti il momento d’imparare a dominare il nostro dominio sulla natura, ed aprirci alla convinzione che il mondo non è proprietà privata degli uomini e delle donne che oggi lo abitano, ma che ci è stato affidato e pertanto ne siamo degli amministratori che un giorno dovranno consegnarlo ad altre generazioni di uomini e donne.
Oltre al buon senso, questa custodia e affidamento trova le sue radici religiose nella rivelazione che Dio, affidandoci il compito di rendere la terra abitabile, di porla al nostro servizio amministrandola e di “guidare” le creature non umane, ci fa partecipi della Sua sollecitudine, della Sua attenzione amorosa nei confronti di tutta la creazione. Ci chiede di prendercene cura come Lui si prende cura di essa e di noi. La “guida” umana sulla terra, sulle piante, sugli animali non significa pertanto “sfruttamento” e conseguente distruzione delle basi della vita come oggi accade, bensì significa gestione e cura della terra come farebbe un amministratore, cosciente di non esserne lui il padrone, ma di essere solo colui a cui la terra è stata affidata per essere gestita con gli stessi “sentimenti” che Dio nutre per essa. Come si afferma esplicitamente in Gn 2,15, dove Dio pone l’uomo nel giardino di Eden perché «lo coltivasse e lo custodisse», quindi affinché ne prenda responsabilmente cura.
Ma la cura e la conservazione della Terra per le generazioni future si attua quotidianamente attraverso il lavoro. Lavoro che se vissuto secondo una dinamica oblativa, del dono-di-sé pone la persona umana nella condizione di cooperare con il Creatore, di essere un prosecutore dell’attività creatrice di Dio accompagnando la natura verso la sua realizzazione: essere uno strumento per una crescita solidale della comunità umana ed essere la base fisica dei cieli nuovi e terra nuova.
Riuscire in una tale impresa comporterà una svolta epocale per la società umana di oggi e per quella futura.