Nel corso del ‘900, il Circolo di Vienna si era preoccupato di stabilire la portata e i limiti del significato del linguaggio. La scienza è empirica e conseguentemente l’esperienza veniva posto come l’unico sapere dotato di significato e di valore. Ludwig Wittgenstein, reagendo all’ambiente culturale dell’idealismo, in nome della ragione e del senso comune, si volge ad un realismo filosofico che possa recuperare pienamente il mondo come regno delle cose e degli eventi: “Il mondo è tutto ciò che accade”. E il mondo è costituito dai fatti, che sono “tutti i fatti”, delimitando ciò che accade e anche tutto ciò che non accade. Stabilito il mondo come sfondo necessario ed invalicabile dell’esperienza, la filosofia si costituisce come analisi del linguaggio, dove parola e linguaggio riproducono i fatti del mondo. Il pensiero, però, come riproduzione del mondo nel linguaggio, perde la propria forza conoscitiva, costituendosi come rappresentazione dei fatti e non come la loro interpretazione. D’altra parte è noto che per Wittgenstein il nuovo modo di filosofare non deve, né può avere la pretesa di sapere o poter costruire un sistema di conoscenza, fondato su uno schema concettuale unitario dell’esperienza.
Il Tractatus intende tracciare un limite, individuandolo, all’espressione filosofica, che non può portare né soluzioni di carattere esistenziale, e neppure può dare ragione delle asserzioni scientifiche. La filosofia, in quest’ambito, è attività chiarificatrice perché delimita l’area del linguaggio significante, ridotto ad essere espressione dei fatti e, in questo caso, a coincidere con il linguaggio della scienza. Nel Tractatus logico-filosofico e nei Quaderni 1914-16, egli afferma che il linguaggio ha una funzione raffigurativa e non può descrivere ciò che sta al di là dei fatti che raffigura. Se la sua forma logica è in corrispondenza con la forma logica della realtà, nemmeno si può pensare ciò che sta al di là dei fatti. Il desiderio della metafisica, di impadronirsi della “totalità” e di darne ragione, non può essere esaudito: si costituisce come un’antinomia più che insensata, dato che, trascendendo i fatti, la totalità non potrà mai essere colta. Il linguaggio può soltanto “esibire” e indicare ciò che sta al di là dei dati, ma non dire ciò che è insensato. Appartengono al mistico, al metafisico, quei problemi che sono al di là della parola, del pensiero e della scienza: non si possono conoscere, di essi non si deve parlare.
Fin qui il programma del primo Wittgenstein. Ci si chiede tuttavia come possa “l’immagine logica dei fatti essere costituita dal pensiero”. Il pensiero in questo modo è una sorta di ideografia, di figurazione, non ha autonomia né possibilità critiche; la verità e la falsità delle proposizioni sono costituite dal riferimento ai fatti che solo ne danno ragione oppure nella loro logicità intrinseca quando si presentano nella forma della tautologia. Il pensiero così diventa un fatto tra gli altri fatti, inesplicitato ed inesplicitabile.
La debolezza di questa posizione che assolutizza il dato è evidente nella concezione della parola riferita immediatamente alla realtà empirica come sua immagine. Nella filosofia classica, invece, la parola è riferita al pensiero, che ha potere creativo, critico, conoscitivo. Nell’empirismo radicale, invece, di qualunque corrente si tratti, non si discute il fondamento né dei fatti, né del linguaggio, dati come due postulati indiscussi e dogmatici. Nel suo sforzo di radicalizzazione teorica, il Wittgenstein del Tractatus non si accorge di impoverire il vissuto dell’uomo al punto di dichiararne l’inconoscibilità, fuori dal dogma del fatto. Gli “stati di cose” non sono problematizzati, così come è dichiarata impossibile qualunque richiesta di senso e di domanda, e dove l’esigenza etica o quella estetica, l’aspirazione ad una vita felice o il discorso sulla bellezza non si possono rigorosamente neppure dire: non sono eventi del mondo. Il sapere si contrae allora in una apoteosi del “fatto”, in un esasperato rigore che riduce l’esperienza umana a stati di cose ininterrogabili, privi di domande. La conoscenza, in questa concezione così angusta e contratta, ha qualche cosa della superbia scientista e dell’orgoglio puritano, affermazione di severità etica forse, ma riduttiva e sterile per un rigore applicato al parossismo. Viene dimenticata l’intelligenza, che nel mondo umano costruisce il sapere in una sintesi fra il sensibile e l’intelleggibile, che si rischiarano ed annodano a vicenda. Il linguaggio può esprimere solo ciò che il vissuto, cioè l’esperienza umana nella sua completezza, vive, e il significato della parola emerge da essa. Il linguaggio concettuale ha la portata dell’universalità proprio perché l’esperienza umana è comune e come tale comunicabile. La parola che raffigura un fatto, a rigore essa stessa fatto, non può travalicare il particolare e neppure può essere comunicata: i fatti non costituiscono il vissuto, tanto più se collocati in un’oggettività inerte, priva di emozioni. Se l’empirismo sviluppasse con coerenza i propri assunti, non potrebbe neppure parlare di esperienza: chiusa nel fatto, la parola esprimerebbe soltanto disconnessi fatti, posti nella loro atomicità, senza rapporto col mondo umano.
In questa prospettiva, la scienza viene vista come un mezzo per predire l’esperienza futura alla luce di quella passata, laddove gli oggetti fisici sono dei comodi intermediari introdotti nella situazione da analizzare. Il concetto di esperienza in senso forte, come vissuto, non è presente in ambito scientifico. Occorre riconoscere che un’impostazione materialistica in ambito scientifico investe le scelte e i valori di un’intera società. Se lo scienziato non può occuparsi di rispondere alla domanda “che cos’è la realtà”, egli si interroga per dar ragione dei fenomeni, alla luce di un modello interpretativo. È lo schema concettuale ad avere valore perché, pur descrivendo solo l’andamento fenomenico, quest’ultimo è all’interno di una connessione più ampia con il mondo della vita. Il metafisico Leibniz, che introduceva il principio di ragion sufficiente, poneva in relazione la scienza e la filosofia in un sistema del mondo plausibile e ordinato. L’ordine e l’armonia dell’esperienza postulano una mente infinita garante dell’intelligibilità dei fatti, che sconfigge l’apparente caotica molteplicità degli eventi.
Nel Novecento la visione di Popper, che concerne la valutazione di teorie scientifiche in competizione, è interessante da un ben più ridotto punto di vista: la confutazione delle teorie ne proverebbe la verosimiglianza. Si parla però di verosimiglianza, non di verità. La scienza classica ha progredito nel corso dei secoli attraverso processi induttivi e generalizzazioni progressive, successivamente ha imparato a proporre soluzioni provvisorie perché ha vagliato suggestioni più raffinate, frutto del dibattito epistemologico che le hanno rivelato il peso dei propri pregiudizi. Se l’esperienza non si costituisce come verità ma come schema, scoprendo sempre nuovi caratteri nel reale, la scienza è responsabile di nuovi modelli interpretativi, ma chi opera le scelte?
Il percorso scientifico è costituito da anticipazioni teoriche, da intendersi come congetture che vengono via via corroborate e quindi falsificate dalle confutazioni, cioè dal controllo critico ed empirico. Questo accade per Popper. Per noi invece si impone la necessità di un controllo critico che sappia introdurre variabili esterne al discorso scientifico in senso stretto. Il conoscere perde sempre più il suo carattere di sapere, si specializza e si disperde in mille rivoli analitici: è necessario ricostruire l’ardire delle sintesi, dove anche il pensare scientifico sia riferito al metascientifico, pena la riduzione dell’uomo al modello della macchina. La sintesi però è difficile perché critica, in quanto è giudizio sull’intero dove appare l’esigenza di un riferimento umano anche nella scienza. La frantumazione del sapere è responsabile di mostruose creazioni di mondi alla Orwell.
L’esigenza unitaria e l’attività teoretica, unificatrice dei diversi piani dell’essere, evidentemente travalica la dimensione scientifica, perché aperta alle più umane tensioni, compresa quella religiosa. Eppure esiste in ciascuno una implicita ricerca verso una visione della realtà piuttosto che verso un’altra, perché nessuno, nel proprio itinerario di ricerca, si limita al mondo dei fatti, ma coglie l’inevitabile riferimento al mondo umano che lo trascende, più profondo e significativo.
Scienza e altri saperi: la necessità di trascendere il mondo dei fatti
Clementina Ferrandi
Pontificia Università San Tommaso Roma