Non è possibile affrontare il tema del controllo dello sviluppo scientifico-tecnologico in una società democratica senza chiarire preliminarmente la relazione tra scienza e tecnologia.
L'utilizzazione delle categorie “scienza” e “tecnologia” come termini di un binomio può portare fuori strada chi affronta il problema della loro relazione con l'etica e la società democratica. Sottolineo due ragioni di questa convinzione. Innanzitutto è talvolta difficile distinguere a quale di questi due quadri di riferimento appartiene una specifica attività. In secondo luogo, chi vive nei laboratori constata nel concreto che questi termini non rappresentano due poli tra cui corre un flusso unidirezionale di informazioni, nel senso che la scienza produce conoscenze e artefatti che sono trasformate, attraverso attività dette “tecnologiche, in nuovi strumenti e prodotti.
Scienza e tecnologia sono invece le componenti di un ciclo di attività umane che si può riassumere ripetendo senza fine “scienza-tecnologia-scienza-tecnologia-scienza-...”. Si fa scienza fondamentale per sapere di più; questa attività conoscitiva ha due conseguenze: (1) produce conoscenza che servono a nuove tecnologie (esempio: la meccanica quantica e di conseguenza i laser) e (2) sviluppa tecnologie innovative per procurarsi gli strumenti necessari a più conoscere, strumenti poi utilizzati in applicazioni utili (esempio: gli acceleratori di particelle e la radioterapia del cancro).
Sono due strade diverse e parallele ma, comunque, le nuove tecnologie, con il loro saper fare , aprono nuove possibilità e necessità di ricerca di base, stimolando e richiedendo un nuovo sapere, e così via.
Le spirali scienza-tecnologia sono evidenti nel campo della clinica: una medicina, che deriva dalla comprensione di un nuovo meccanismo a livello biomolecolare (ricerca di base) , dopo essere stata messa sul mercato (trasferimento tecnologico) spesso produce effetti —positivi o negativi— che inducono i ricercatori a riprendere la ricerca di base e a scoprire nuovi processi biomolecolari fondamentali e ad aprire nuove frontiere di cura.
Da questa visione dei moltissimi cicli continui scienza-tecnologia-scienza-tecnologia..., che si intersecano e si diramano nei laboratori e nelle imprese di una società civile avanzata —e anche, purtroppo, nei laboratori militari— segue che non è logicamente coerente che la società stessa, attraverso le sue strutture democratiche, lasci ogni libertà alla ricerca scientifica di base confinando l'intervento regolatore alle sole attività tecnologiche. Infatti i due rami del ciclo si intrecciano continuamente e spesso sfumano l'uno nell'altro tanto che è difficile distinguere dove finisce la scienza e dove comincia la tecnologia.
Un nuovo sapere di base può avere conseguenze non previste e deleterie per la sopravvivenza dell'umanità e dei suoi individui. Ma il controllo delle idee nascenti, ancora chiuse nei laboratori dove si produce scienza fondamentale, non può essere fatto con regolamenti e leggi, che invece ben si applicano alle fasi tecnologiche del ciclo. Chi allora deve controllare?
A mio giudizio gli scienziati stessi, quali cittadini responsabili, devono continuamente interrogarsi sulle possibili conseguenze delle loro scoperte per la natura, per l'uomo e per i valori etici che sono alla base della vita sociale. In caso di dubbio devono discuterne tra loro e, se necessario, manifestare le proprie perplessità prima all'interno della comunità scientifica e ai suoi Comitati ad hoc e poi alle istituzioni politiche sino a giungere, nei casi più gravi, al dibattito pubblico. Per i temi più importanti interverranno anche i mezzi di comunicazione di massa, con dibattiti pubblici, e, alla fine, le decisioni saranno assunte con metodi democratici sia rappresentativi (leggi parlamentari) che diretti (referendum). Nel corso di questa procedura sarà utile, spesso necessaria, una moratoria delle ricerche in corso.
Sembra una proposta utopica, ma non lo è affatto, come dimostrato da un esempio concreto che riguarda una importantissima conquista scientifica della biologia molecolare. Nel 1975 ad Asilomar si tenne un convegno tra una dozzina di famosi biologi molecolari americani, che avevano da poco scoperto le potenzialità scientifiche della tecniche di ingegneria genetica, allora dette del “DNA ricombinante”. Gli scienziati stessi decisero una moratoria degli esperimenti e chiesero l'intervento delle autorità di controllo. (È interessante notare che il grande Watson, co-scopritore della doppia elica, era contrario alla moratoria ma fu messo in minoranza). Gli esperimenti furono ripresi soltanto dopo che furono definiti i criteri di contenimento dei prodotti biologici che avrebbero potuto diffondere nell'ambiente patologie incontrollabili.
Dopo molti anni fu chiaro che i timori erano infondati e che, con questa procedura, si erano ritardate di qualche anno scoperte importante. Però il tempo perso è stato recuperato e questo caso resta come prova provata del fatto che scienziati, sensibilizzati a queste problematiche —magari avendo pronunciato al momento del dottorato di ricerca un giuramento analogo a quello di Ippocrate— sono i migliori (e i soli possibili) controllori delle conseguenze delle loro scoperte quando esse si trovano ancora allo stato nascente.
Gli scienziati che —anche perché finanziati per lo più con denaro pubblico— comprendono e accettano come cittadini responsabili che le loro attività scientifiche siano soggette a questo tipo di controllo autogestito, in cambio hanno il diritto di pretendere che coloro che intervengono nelle varie fasi della procedura abbiano un'adeguata conoscenza della materia. Infatti le decisioni, tutte difficili, richiedono incontri con non addetti a lavori: politici, giornalisti e cittadini.
Partendo dalla constatazione che i rami scientifici della spirale scienza-tecnologia non possono che essere controllati dagli scienziati, i quali nelle università e nei laboratori producono scienza allo stato nascente, propongo l'aggiunta al “patto sociale” di una clausola riguardante il sapere scientifico . Essa richiede che:
gli scienziati continuamente si interroghino sulle possibili conseguenze delle loro scoperte per la natura, per l'uomo e per tutti i valori etici che sono alla radice della vita sociale, accettando il fatto che le scelte etiche trascendono il sapere scientifico e che nella società coesistono scelte etiche diverse dalla loro;
in caso di dubbio, gli stessi scienziati si sentano in obbligo di discutere tra di loro e, poi, di manifestare le proprie preoccupazioni in seno alle istituzioni politiche portandole infine, se il tema è grave, al dibattito pubblico;
i cittadini si impegnino ad acquisire una comprensione del sapere scientifico —in particolare dei meccanismi della sua costruzione— e a mantenersi aggiornati sui suoi principali contenuti, in modo da poter prendere posizione su temi scientifico-tecnici difficili con conoscenza di causa senza affidarsi passivamente alle indicazioni del partito per cui votano alle elezioni politiche.
“Patto sociale” è un concetto che molti considerano desueto, ma mi è stato qui utile per trasmettere in poche frasi l'essenza di una proposta che, a mio giudizio, arricchirebbe la nostra società trasformando il rapporto scienziati-cittadini da conflittuale e asimmetrico in collaborativo e paritario.
Perché questa proposta abbia successo è essenziale che gli scienziati accettino il fatto che la conoscenza sapienziale (e quindi anche ogni forma di etica) trascende, in senso “orizzontale”, il sapere scientifico così come la religione lo trascende in senso “verticale”, cosicché non si può affermare che dal sapere scientifico segua una sola visione etica del mondo che tutti devono accettare. D'altra parte i cittadini —in particolare i cattolici impegnati per un futuro più centrato sull'uomo— devono sostenere lo sviluppo e la diffusione della cultura scientifica nella società e nella scuola apprendendone le basi e continuando, con impegno e fatica, a mantenersi aggiornati.
[da una sintesi dell'intervento “ La Democrazia : nuovi scenari, nuovi poteri” presentato alle Settimane Sociali, Bologna 7-10 ottobre 2004]