I. La vita e l'epoca - II. Approcci ermeneutici all'opera di Dante - III. L'interesse di Dante per le scienze: la cosmologia del Convivio e l'astronomia della Commedia - IV. Il De monarchia : la visione dei rapporti fra religione e stato e il fine spirituale della Chiesa - V. Teologia e unità del sapere nella Commedia di Dante: alle radici di una Summa del pensiero cosmologico, filosofico e teologico medievale - VI. L'itinerario teologico-spirituale delle tre cantiche della Commedia.
I. La vita e l'epoca
Dante Alighieri è nato a Firenze tra il 21 maggio e il 20 giugno 1265, da Alighiero II degli Alighieri e da Donna Bella. La nobiltà della famiglia risale all'avo Cacciaguida, nominato cavaliere da Corrado III.
Si desume dalla Vita Nuova che nel 1274, a nove anni, incontrò per la prima volta Beatrice, Bice di Folco Portinari, che andò in sposa a Simone de' Bardi e che morì nel 1290. Nel 1285 Dante sposò Gemma di Manetto Donati; nacquero tre figli, Jacopo, Pietro ed Antonia. Incerta è la nascita di un quarto figlio, Giovanni. Al periodo del matrimonio si fanno risalire l'amicizia e gli stretti rapporti culturali di Dante con Guido Cavalcanti. Nel 1287 Dante fu a Bologna, dove ebbe modo di conoscere la poesia del Guinizzelli. Il quinquennio dal 1290 al 1295 rappresenta per Dante un momento di intensa sofferenza e di grave turbamento in seguito alla morte di Beatrice. Ma quanto al «traviamento» di cui Dante ci parla, molte interpretazioni sono possibili; egli nasconde, infatti, sotto i simboli del tradimento della memoria d'amore questioni spirituali, filosofiche e teologiche. Non è possibile avere definitive certezze ed è ragionevole accettare le scelte dell'Autore: Dante stesso vuole che resti velato ciò che è veramente accaduto in questo periodo. È certo che egli si accostò ai temi filosofici attraverso il De consolatione philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone; che ebbe rapporto con Brunetto Latini con il quale poté esplorare temi filosofici diversi e che lo introdusse alla « ars dictaminis ». In questo stesso periodo scrisse la Vita nuova e frequentò «le scuole de li religiosi», cioè dei Francescani di s. Croce e dei Domenicani di s. Maria Novella. Nella scuola domenicana entrò in contatto con il pensiero scientifico, filosofico e teologico di Alberto Magno; vi conobbe testi aristotelici e neoplatonici ed opere di Tommaso d'Aquino. Alla scuola francescana egli conobbe i grandi mistici, tra i quali Bonaventura, e poté conoscere ed accogliere lo spirito dell'atteso rinnovamento spirituale della Chiesa. In questo stesso periodo finirono i rapporti di amicizia con Guido Cavalcanti. Prese parte alla battaglia di Campaldino del 1289 contro i Ghibellini di Arezzo e all'assedio del castello di Caprona. Fece parte della scorta di onore data dal Comune di Firenze a Carlo Martello, figlio del re di Napoli, che passava per Firenze nel suo viaggio di ritorno dall'Ungheria a Napoli. Tra Carlo Martello e Dante, forse, ci furono vincoli di amicizia.
In questi stessi anni (1290-94) sotto la guida di Giano della Bella, i popolari ottennero l'approvazione di ordinamenti di giustizia (1293) che escludevano dal governo della città i nobili in quanto non iscritti alle Arti. Dopo la cacciata di Giano, gli ordinamenti furono modificati; Dante poté iscriversi all'Arte dei Medici e degli speziali e, di conseguenza, poté prendere parte attiva alla vita politica. Dal 1295 al 1296 fece parte del Consiglio del Capitano del Popolo; fu tra i «savi» incaricati di dare indicazioni per l'elezione dei priori e nel 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Poiché i Ghibellini erano stati battuti e cacciati dalla città, la lotta politica si stava polarizzando tra i Guelfi bianchi, guidati dalla famiglia dei Cerchi, e i Guelfi neri con i Donati che tendevano a favorire l'intervento del papato e degli Angiò. Dante fu sempre vicino alla posizione dei Guelfi bianchi, ma non si lasciò coinvolgere nelle forme faziose dei contrasti. Fece parte di una ambasceria che nel 1300 si recò a s. Gimignano per presentare il progetto di una riunione di Guelfi toscani che intendessero arginare la politica di influenza di Bonifacio VIII (1294-1303). Divenne priore e proprio durante il suo priorato venne preso il provvedimento di espellere dalla città gli uomini più in vista attorno ai quali la lotta politica s'era fatta aspra e intollerante; tra questi c'erano Corso Donati e Guido Cavalcanti. Nel 1301 fu tra gli ambasciatori che si recarono a Roma nell'estremo tentativo di salvare l'indipendenza del Comune. Carlo di Valois, genero di Carlo II di Angiò, inviato con il compito di favorire la politica dei Guelfi neri, era alle porte della città; mentre Dante era a Roma, entrò in Firenze nel novembre del 1301. Anche i Donati rientrarono in città e ne dominarono le sorti. Il 27 gennaio del 1302 il Podestà di Firenze, assecondando la volontà dei Donati, accusò Dante, con altri, di «baratteria», cioè di peculato; la condanna prevedeva due anni di confino e il pagamento di cinquanta fiorini. I condannati dovevano presentarsi entro tre giorni; in caso contrario i loro beni sarebbero stati confiscati. Dante rifiutò di entrare a Firenze a queste condizioni; la sua condanna fu allora mutata in pena di morte. Ebbe inizio così il lungo esilio del Poeta. In un primo tempo egli prese parte ai tentativi dei Bianchi di rientrare a Firenze; non partecipò, tuttavia, alla battaglia della Lastra del 20 luglio 1304. Da quel momento la lotta politica di Dante divenne solitaria ed ebbe quale suo unico campo quello dei princìpi di giustizia. Benché desiderasse ardentemente rientrare in Patria, mai accettò di scendere a patti né a compromessi con le scelte meschine delle fazioni; ciò gli procurò molte sofferenze, ma gli consentì anche di assurgere ad una statura morale altissima. Nel 1305 la condanna venne estesa ai figli; e l'esilio divenne un triste vagare di luogo in luogo: Treviso, Padova, forse Venezia, il Casentino, la Lunigiana. Dal 1307 al 1311 il Poeta fu nel castello di Poppi presso Guido di Battifolle; è possibile che si sia recato a Parigi nel 1310. In questo periodo compose il Convivio e il De vulgari elequentia.
Nel 1308 fu eletto imperatore Arrigo VII che presto manifestò l'intenzione di riaffermare l'autorità imperiale in Italia e che nel 1310 scese a Roma per essere incoronato imperatore. Dante fece sua la speranza del rinnovamento dell'autorità imperiale e nel 1311 si recò a Milano per incontrare l'Imperatore. Scrisse tre epistole politiche: una ai principi perché accogliessero l'imperatore, una di invettiva a Firenze che vi si opponeva, una infine ad Arrigo con l'esortazione a procedere speditamente nella sua iniziativa. Sperava che potesse sorgere un nuovo equilibrio tra il potere politico ed il potere ecclesiale; ma quando s'avvide che Arrigo non aveva la statura né morale né politica per portare a compimento il progetto che egli caldeggiava, non lo seguì oltre. Le posizioni assunte a favore dell'Imperatore e avverse alla politica dei Guelfi neri di Firenze lo esclusero dai benefici dell'amnistia con la quale, nel 1311, si consentì agli esiliati Bianchi di rientrare in città. Nel 1312, raggiunto dai figli, lasciò per sempre la Toscana e si rifugiò presso Cangrande della Scala a Verona; vi rimase fino al 1318. In questi anni egli era dedito ormai alla stesura della Commedia . Nel 1315 la Signoria di Firenze concesse una nuova amnistia a patto che fosse riconosciuta la colpa. Dante rispose con l'Epistola All'amico fiorentino in cui, con grande fierezza, respinse la soluzione di compromesso che gli veniva proposta.
La sua fama era ormai vasta in ragione della immediata diffusione che ebbero le cantiche dell' Inferno e del Purgatorio . Mentre lavorava al Paradiso scrisse l'epistola a Cangrande nella quale illustrò il senso della sua opera. Nel 1318 si trasferì a Ravenna dove venne accolto da Guido Novello da Polenta del quale, in diverse occasioni, fu ambasciatore. Nel viaggio di ritorno da Venezia dove si era recato inviato dal Signore di Ravenna, fu preso da febbri malariche e morì il 14 settembre 1321. Fu sepolto a Ravenna nella chiesa di s. Pietro Maggiore, divenuta in seguito s. Francesco.
Non sono giunti a noi manoscritti autografi di Dante; i testi devono essere ricostruiti sulla base di una complessa tradizione manoscritta di diversa qualità. Nel caso della Commedia si sono perdute tutte le copie dell'opera fino al quarto decennio del Trecento. Particolarmente labile appare la situazione delle Rime ; aperta ancora è la questione dell'attribuzione del Fiore, in cui si compendia il Roman de la rose , e del Detto d'Amore . Anche la cronologia delle opere è controversa.
II. Approcci ermeneutici all'opera di Dante
Erede della grande tradizione scolastica, Dante può essere letto su piani diversi: una sconfinata letteratura critica, di carattere letterario, storico ed erudito, ha cercato di dare precisione di contorni ai personaggi evocati nell'opera, ha dato evidenza alla bellezza ed alle forme diverse della poesia, ha dato chiarimenti circa le strutture cosmologiche, filosofiche e teologiche che ne strutturano il pensiero. Molti autori hanno cercato di decifrare simboli ed allegorie; altri hanno dato di Dante non soltanto una legittima interpretazione mistico-profetica, ma hanno dato vita ad una sorta di "fondamentalismo" in rapporto al valore mistico degli scritti di Dante ed hanno sostenuto che i mondi dello spirito sono come egli li ha descritti. È ragionevole ritenere che il vero senso della poesia di Dante si trovi sull'arduo crinale del rapporto tra verità e fictio: se cioè la fictio sia invenzione di figure che danno immagine a quanto il poeta ha pensato secondo dottrine ben definite; o se la fictio sia da intendersi come figurazione di quanto il poeta ha sperimentato in visione. Si possono superare le riduzioni letterarie che intendono Dante come il poeta che ha saputo trasporre dottrine acquisite, aride e difficili, in poesia ricca di immagini suggestive; e certamente devono essere superati gli inopportuni letteralismi di quanti credono che la pagina dantesca descriva le realtà spirituali esattamente quali esse sono. Il crinale ermeneutico sale tra i lati opposti verso le prospettive dell'archetipo. Non è possibile un intendere spirituale e profetico che non faccia riferimento a certezze acquisite; ma tutto ciò che si crede acquisito, è dato in esperienze e linguaggi che possono essere trascesi, sempre e di nuovo, in livelli più alti e più puri di intelligenza. Antiche dottrine entrano nell'orizzonte di una intelligenza riconosciuta ancora inattuale; ma l'intelligibile diviene intelligenza in atto solo in un rapporto dinamico con linguaggi acquisiti, il cui senso viene allora trasfigurato in nuova intensità. Una tensione continua muove l'arte alla rammemorazione dell'inattuale verità attraverso immagini prossime. Dante ha avuto coscienza altissima di questo compito dato all'arte; le sue indicazioni relative alla «alta fantasia» costituiscono la base di una importante teoria filosofico-poetica.
L'espressione «alta fantasia» è propria della Commedia; ma l'evento lo raggiunse evidentemente quando era ancora giovanetto, già nei giorni in cui incontrò Beatrice. La bellezza della fanciulla gli apparve misteriosamente in quella medesima luce nella quale i mistici hanno potuto "vedere" la dignità della persona nella altezza del suo destino eterno. La visione della bellezza rapidamente accese il giovanetto d'amore e gli consentì di vedere l'amata in uno splendore che evoca l'archetipo, ovvero il destino cui essa è chiamata. Non è inutile ricordare che la bellezza della persona poté essere vista da altri in condizioni diversamente estreme, come accadde a s. Francesco che vide occhi d'intensa, incantevole bellezza in un lebbroso e lo baciò. Divenne allora per lui dolcissimo ciò che, per l'innanzi, gli era stato sempre, amarissimo. Le due esperienze, tra loro apparentemente così diverse, non si contraddicono. Quando si vede una persona nella luce dello spirito, la bellezza dei tratti esterni è trascesa in nuova visione, sì che le espressioni più alte e rare (quali pure appaiono nella Vita nuova) risultano non più che testimonianza inadeguata.
Nell'orizzonte della cultura contemporanea, consideriamo una acquisizione irreversibile il fatto che l'inconscio si manifesti invincibilmente. Ciò accade in atteggiamenti anomali e patologici talvolta, ma abitualmente nei sogni, dove immagini e situazioni emotive si agitano secondo la diversa pressione dei desideri, delle paure, delle tensioni rimosse. Ma c'è ancora molta difficoltà a riconoscere che, in prospettiva simmetrica rispetto alla regione dell'inconscio "inferiore", si apre la dimensione dell'inconscio "spirituale" che preme in noi per esprimersi nella creatività delle scelte di alto senso intellettuale, etico ed artistico. La nostra coscienza è non più che una ristretta fascia di confine tra l'inconscio inferiore, così ampiamente esplorato dalla psicologia del profondo, e l'inconscio spirituale, ancora poco indagato. A questa dimensione di inconscio spirituale Dante ha dato altissima espressione. L'idealità si dà a noi sempre e soltanto in forza del suo determinarsi in situazioni particolari, ma non si esaurisce mai in esse. Il sogno e la visione consentono all'idealità di irrompere nella sua inesauribile ricchezza. Sorge così l'intuizione di potenze che trascendono l'emozione di un giovinetto di fronte alla bellezza di una fanciulla. Il sogno della figura «di pauroso aspetto» che incute timore per la sua forza indominabile, la simbologia della fanciulla che sembrava «dormire nuda salvo che involta [.] in uno drappo sanguigno leggeramente», riconosciuta poi come la «donna de la salute», la visione del cuore che arde, la letizia e il pianto della donna: tutto ciò non è semplicemente una costruzione fantastica, ma evento di «alta fantasia». Sono immagini che irrompono inattese e aprono a dimensioni nuove (cfr. Vita nuova, III). Ma non può esserci grande poesia dove non si intende, almeno prospetticamente, l'evento. Ecco, allora, che si fa strada il rapporto a categorie e dottrine acquisite. I calcoli astrologici, lontanissimi dai percorsi scientifici moderni, ci appaiono un inutile e fastidioso fardello; ma possono essere letti come il tentativo di portare l'evento all'interno delle scansioni razionali del cosmo. La poesia provenzale e il Dolce stil novo forniscono a Dante i linguaggi che gli consentono di tradurre in poesia l'esperienza rara ed eletta che gli è stata data. Assai più della storia di amore, e più ancora del destino inevitabile di incomprensione, importa qui la narrazione della inadeguatezza d'ogni forma di poesia, sia pur altissima, perché la bellezza è per se stessa l'annuncio e lo splendore di verità più alte: «Oltre la spera che più larga gira / Passa il sospiro ch'esce dal mio core: / intelligenza nova, che l'Amore / piangendo mette in lui, pur su lo tira. / Quand'elli è giunto là dove disira, / vede una donna, che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira» (Vita nuova , XLI).
Tutta la vita del poeta rimane segnata da una grande visione: «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire di più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei» (Vita nuova, XLII). L'intelletto d'amore è aperto alla propria attuazione nella luce dell'intelligibile; l'intelligibile diventa intelligenza in atto (ma non può esserlo mai compiutamente) nel «cor gentile»; ma è alto veramente solo il cuore che accetta di tacere e di attendere per trasformarsi e divenire meno indegno dell'evento che gli è dato. Non c'è contraddizione insolubile tra l'interpretazione di chi vede in Beatrice la figura della teologia e quella di chi insiste perché si ci si tenga fermi al riconoscimento di Beatrice quale persona amata. La realtà della persona amata rifrange la luce spirituale che la costituisce; ogni persona, come ogni evento, è intelligibile solo per la partecipazione della luce. Beatrice è certamente più che la giovanetta ammirata ed è più ancora che il simbolo della teologia. Essa è per Dante vivente icona in cui si annuncia la luce della verità. Il cuore della poesia di Dante si trova in questa apertura spirituale all'evento in cui si rivela lo splendore della verità.
L'«alta fantasia» accende l'entusiasmo in vista di più intense ricerche: le canzoni e i trattati del Convivio ne sono sviluppo necessario. In accordo con la tradizione scolastica, si parla di un quadruplice senso della Sacra Scrittura: letterale «quello che non si stende più oltre che la lettera», allegorico «quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna», morale è il senso che «li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti», anagogico «cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria» (Convivio, II, 1). Confondere l'anagogia con l'allegoria o ridurre di fatto quella a questa seconda è causa di grave di incomprensione dell'opera dantesca e, più in generale, delle opere dove più ricca è la dimensione simbolica. Dove, infatti, l'allegoria fa riferimento ad una corrispondenza concettualmente definita tra le immagini e la dottrina ivi nascosta, nell'anagogia il rapporto tra le immagini ed il loro senso spirituale è indicato con precisione di prospettiva, ma senza presunzione alcuna di definitivo possesso di conoscenza. È vano pretendere una adeguata intelligenza dei simboli senza rapporto a solidissime dottrine, non perché essi debbano essere ricondotti necessariamente entro rigidi schemi concettuali, ma perché solo il gioco dei reciproci rinvii tra le due dimensioni consente un più alto intendere. Il Convivio, anche nelle sue parti teoriche, costituisce un momento necessario della poetica dantesca: se le più alte immagini non suscitassero nell'animo intelligente l'entusiasmo della verità, sarebbero davvero poca cosa.
III. L'interesse di Dante per le scienze: la cosmologia del Convivio e l'astronomia della Commedia
L'opera di Dante consente letture di singolare importanza anche sotto l'aspetto della filosofia naturale e delle scienze dell'epoca. Una estesa bibliografia testimonia l'interesse di molti studiosi sul tema. Ne sono state proposte riflessioni che coinvolgono discipline come la logica e la matematica, la cosmologia e l'astronomia, la geografia e la fisica. Le opere che offrono spunti al riguardo sono il Convivio (1310 ca.), nelle cui pagine in prosa volgare sono presenti, sebbene in modo apparentemente circostanziale, elementi di indubbio interesse scientifico, l'operetta in lingua latina De situ et forma aque et terre (1319-20), espressamente dedicata alla quaestio allora dibattuta se la sfera dell'acqua, in qualche suo punto sul globo, fosse più alta delle terre emerse, ma soprattutto la Commedia , sui versi della quale si è maggiormente concentrata l'attenzione degli autori. Oltre alla visione cosmologica intesa nel suo insieme, vivido esempio in Dante della imago mundi a cavallo fra Duecento e Trecento, diverse scienze particolari sono interpellate in modo puntuale dalla penna del Poeta. Fra esse domina senza dubbio l'astronomia, nel suo duplice aspetto di osservazione del cielo e di studio matematico della posizione degli astri, tanto da far affermare ad uno dei commentatori della Commedia, che «il Purgatorio ed il Paradiso sono due grandi spie delle ore che Dante deve aver passato in contemplazione del cielo» (A. Momigliano, nota a Par. XIV, 97- 102, in La Divina Commedia, Firenze 1945).
1. La cosmologia del Convivio. Un preciso disegno della cosmologia dell'epoca ci viene offerto da Dante nel Convivio. Essa appare, com'è ovvio, molto lontana dalla concezioni moderne. Ma rifiutandola ci troveremmo nel pericolo di perdere anche i tratti di quella "cosmologia metafisica" in cui sono custoditi motivi di grande significato. Dante fa sua la dottrina aristotelica delle intelligenze motrici che governano il mondo esercitando in esso una sorta di gravità alta e spirituale. Le intelligenze sono tratte verso Dio; la loro attrazione verso l'Atto puro determina un moto ascensionale che coinvolge e porta in alto ogni cosa. C'è qui sovrapposizione tra la cosmologia metafisica e l'astronomia. Le dimensioni spaziali dei mondi sovra-ordinati a quello terrestre sono descritte in rapporto ai pianeti, al sole, alle stelle secondo lo schema aristotelico-tolemaico poi rivisitato dalla cristianità medievale, che prevedeva 10 sfere celesti, sette per i pianeti visibili, il cielo delle stelle fisse, il cielo del cosiddetto primo Mobile, ed infine l'Empireo, al di là del quale, oltre lo spazio e il tempo, splende l'inattingibile luce di Dio. Sebbene tale descrizione non rivesta oggi alcuna attualità e non vi riconosciamo elementi di particolare interesse dal punto di vista astronomico, possiamo forse ancora custodire l'idea di una sovra-spazialità di segno metafisico e riconoscere che essa merita di essere discussa, non solo ricordata come un dato di erudizione antiquaria. Il disegno di sfere concentriche ruotanti attorno alla terra è tramontato da molto tempo; ma forse può suscitare ancora interesse l'idea di dimensioni spazio-temporali scandite in ragione di diverse luci spirituali, celate alla esperienza quotidiana e tuttavia non del tutto ignote grazie alla trasparenza dello spirito umano. Mistici e poeti, filosofi e teologi hanno intravisto le dimensioni sovra-spaziali e sovra-temporali dello spirito e ne hanno dato l'annuncio in diversi linguaggi: nuovi cieli e nuove terre, non raggiungibili da alcuna sperimentazione fisica, si aprono al di là di questo nostro spazio-tempo: mondi che sussistono in luci a noi nascoste, attraverso i quali giunge fino a noi la "gravità alta" dello Spirito.
L'astronomia antica ha condotto Dante a dar nome ai cieli metafisici in riferimento agli astri; ma se si tolgono i linguaggi scientifici inadeguati, potrebbe sorgere un interesse nuovo per la metafisica della creazione che qui si cela. L'immensità dell'universo fisico potrebbe essere riconosciuto interno a spazi più vasti, a cieli che si aprono in forme di luce e di intelligenza di altezza inimmaginabile. Secondo Dante i cieli trascendenti hanno il loro termine nell'Empireo: «lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s'inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo, ma formato fu solo nella prima Mente» (Convivio, II, 3). È misterioso il congiungersi dell'Empireo, come suprema spazialità, alla Mente divina che è al di là di ogni "luogo". Dio appare a Dante, secondo una antica ed irrinunciabile immagine geometrica, quale punto infinitesimo, all'interno del quale, al di là d'ogni opposizione, è compresa anche l'infinità dell'Empireo e dei mondi che ne discendono (cfr. Par . XXVIII, 16ss). Sarebbe un errore pensare in termini geometrici il rapporto tra lo spazio fisico e sovra-spazi metafisici. Le sfere sono determinate qualitativamente dalle forme della luce spirituale in cui abitano gli angeli: «Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete» (Convivio , II, 1, v. 1) scrive Dante riferendosi agli angeli del cielo di Venere; e chiarisce poco oltre: «El ciel che segue lo vostro valore, gentili creature che Voi siete, / ne tragge ne lo stato ov'io mi trovo» (vv. 4-6).
2. La Quaestio de Aqua et Terra. Nella sua Quaestio de Aqua et Terra (il cui nome completo recita: Quaestio de situ et figura sive forma duorum elementorum, aque videlicet et terre) Dante affronta un problema che potremo chiamare di "meccanica fisica sublunare". Egli stesso pone il problema, così sintetizzando la sua intenzione argomentativa: «Nel dimostrare e definire il luogo e la forma dei due elementi [.] si osserverà quest'ordine. Prima si dimostrerà impossibile che l'acqua in qualunque parte della superficie sferica sia più alta di questa terra emersa, ovvero scoperta; secondariamente si dimostrerà che questa terra emergente è in ogni parte più alta di tutta la superficie del mare. In terzo luogo si impugnerà quanto già dimostrato e si risolverà l'obiezione. In quarto luogo si mostrerà la causa finale ed efficiente di questa elevazione, o emersione, della terra. In quinto luogo si replicherà agli argomenti sopra notati» (IX, 17; tr. it. di F. Mazzoni, in Boyde e Russo, 1995, p. 45). La causa della elevazione della superficie terrestre viene posta da Dante nell'influsso dell'ottavo cielo, quello delle stelle fisse, sulla terra, responsabile di averne determinato la "gibbosità". tale influsso, secondo l'interpretazione data del Poeta, poteva riguardare sia una diretta attrazione (come la calamita attira il ferro, non essendo ancora nota all'epoca la forza di gravità, ma sì quella di attrazione magnetica), sia la generazione di forze e vapori interni alla terra che ne hanno innalzato la superficie. Va osservato che le ragioni portate per spiegare il raccogliersi delle terre emerse nell'emisfero boreale sono diverse rispetto alle tesi, di natura allegorico-spirituale, sostenute nel Purgatorio. Mentre nella Commedia l'emergere delle terre a settentrione è riferito al loro ritrarsi nel momento in cui Lucifero venne precipitato nel pozzo abissale, qui si attribuisce l'evento ad una causa fisica, cioè all'influenza esercitata dalle stelle.
3. L'astronomia nella Divina Commedia. Menzione a parte meritano i molteplici riferimenti astronomici contenuti nella Commedia . Suggestiva la visione con cui Dante, ascendendo all'ottavo cielo delle stelle fisse, viene invitato da Beatrice a rivolgere lo sguardo al lungo itinerario percorso, guardando a ritroso le sfere dei sette pianeti e, in lontananza nello spazio, il globo della terra: «Col viso ritornati per tutte quante / le sette spere, e vidi questo globo / tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante» (Par. XXII, 133-135). Il Poeta cita con pertinenza le maggiori costellazioni del cielo notturno ed i pianeti. Fra questi, di Mercurio si segnala la difficoltà di osservazione a causa della vicinanza angolare rispetto al sole (cfr. Par . XXV, 118-120), e di Venere si menziona il notevole splendore, tale da offuscare la costellazione dei Pesci (cfr. Purg. I, 19-21). Ha fatto discutere non pochi commentatori un possibile riferimento alla costellazione della "croce del Sud" (le "quattro fiammelle" di Purg. I, 22-27), invisibile dall'emisfero boreale, ma della quale si poteva forse avere notizia da chi provenisse da latitudini geografiche assai più basse. Limpido e ben noto, invece, il riferimento all'osservazione della Via Lattea: «Come distinta da minori e maggi / lumi biancheggia tra' poli del mondo / Galassia sí, che fa dubbiar ben saggi» (Par. XIV, 97-99). Si descrive inoltre, con singolare vivacità e precisione, l'apparire repentino di una meteora (più comunemente conosciute come "stelle cadenti"): «Quale per li seren tranquilli e puri / discorre ad ora ad or súbito foco / movendo li occhi che stavan sicuri, / e pare stella che tramuti loco, / se non che da la parte ond'el s'accende / nulla sen perde, ed esso dura poco / tale dal corno che 'n destro si stende / a piè di quella croce corse un astro / de la costellazion che lí resplende. / Né si partì la gemma dal suo nastro / ma per lista radïal trascorse, / che parve foco dietro ad alabastro» (Par . XV, 13-24). Dante conosce il fenomeno della precessione degli equinozi (cfr. Purg. XI, 106-108) e riflette sul significato dell'inclinazione dell'eclittica (il cerchio dello Zodiaco) sull'equatore celeste per la vita e le stagioni sulla terra (cfr. Par . X, 1-21); quest'ultima considerazione viene preceduta da una lode al Dio uno e Trino, la cui eterna sapienza si manifesta nella disposizione e nel moto degli astri, offrendo al lettore un conciso e vibrante esempio di teologia naturale: «Guardando nel suo Figlio con l'Amore / che l'uno e l'altro eternalmente spira, / lo primo ineffabile Valore, / quanto per mente e per loco si gira / con tant'ordine fe', ch'esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira» (Par . X, 1-6).
In merito ai rapporti fra pensiero scientifico e cultura umanistica, come questi emergono dall'opera del poeta fiorentino, qualcuno si è assai opportunamente domandato come mai l'epoca moderna non sia stata in grado di esprimere un "poeta della scienza" come lo è stato Dante (cfr. Boyde e Russo, 1995, pp. 381-382). In lui l'osservazione della natura e la cosmologia del tempo divengono autentica "ispirazione scientifica" della poesia, in uno spirito di unità intellettuale ove la filosofia naturale offre categorie che consentono l'esprimersi dell'intera filosofia, della spiritualità e della teologia. L'esito storico che ha determinato questa carenza trova le sue origini in diversi fattori, ma è comunque segno di una perdita di sensibilità per l'unità del sapere: ove mutata in poesia, come nei deboli accenni rintracciabili in Giacomo Leopardi, l'osservazione scientifica sembra destinata nella modernità all'interrogazione esistenziale, forse allo scetticismo, certo assai meno allo stupore grato e all'elegia o al riconoscimento della verità della propria posizione nel cosmo.
IV. Il De monarchia : la visione dei rapporti fra religione e stato e il fine spirituale della Chiesa
L'opera, composta fra 1313 ed 1318, propone argomenti di filosofia politica, con ricchezza di riferimenti alla Sacra Scrittura e ad autori classici. La datazione è incerta; si propende oggi per intendere l'opera quale risposta alla nomina, da parte del Papa, di Roberto d'Angiò a vicario imperiale, ma potrebbe essere intesa anche come una risposta alla bolla papale Unam Sanctam (1302). Dante sostiene tesi molto vicine a quelle di parte ghibellina, mosso dall'intendimento di ricondurre la Chiesa al suo mandato puramente spirituale; a questo testo si riferì Ludovico il Bavaro quando, contro la volontà del Papa, volle essere incoronato imperatore; il cardinale Bertrando del Poggetto fece bruciare il libro come eretico. La revoca di questa condanna avvenne solo da parte di Leone XIII nel 1881. Nel 1303, morto il papa Bonifacio VIII, era tramontato il progetto teocratico sorto già al tempo della lotta delle investiture. Dante desidera la restaurazione del potere imperiale; ritiene che sia indispensabile l'equilibrata convivenza del potere imperiale e di quello religioso in ambiti rigorosamente distinti; non tiene conto della evoluzione politica inevitabile che era in atto nel suo tempo che andava verso la formazione degli stati nazionali; pensa ad una unione sovra-nazionale della umanità, in ragione del duplice fine dell'uomo, terreno ed ultra-terreno, in rapporto all'unico disegno di salvezza del Creatore. Il ragionamento si svolge secondo argomentazioni teoriche rigorose: parte dalla questione circa il destino dell'uomo e si sviluppa in rapporto a s. Agostino, a s. Tommaso, a Graziano di Viterbo: tutto il discorso si incentra sull'assunto: «La pace universale è la migliore delle cose che sono ordinate alla nostra beatitudine» (De mon. I, 4).
«Il termine ultimo della potenza dell'intera umanità - scrive Dante - è potenza o virtù intellettiva. Poiché questa potenza tutta insieme non può essere condotta all'atto in forza di un solo uomo, o per mezzo di una delle comunità particolari [.], è necessario che esista nel genere umano una moltitudine, per mezzo della quale tutta questa potenza si attui» (De mon. I, 4). «È provato che l'intero genere umano è diretto ad un unico fine [.]. Dunque occorre che vi sia uno solo che regoli o che governi, e questo deve essere chiamato monarca o imperatore». Nessuno presuma di realizzare i più alti progetti di civiltà indipendentemente dal bene universale: «La bontà nell'ordine delle parti non oltrepassa la bontà nell'ordine del tutto, ma piuttosto è il contrario» (De mon. I, 6). Si deve inoltre riconoscere che: «Il genere umano si trova in uno stato di benessere e di felicità quando, nei limiti delle sue possibilità, è simile a Dio. Ma il genere umano è massimamente simile a Dio quando è massimamente uno: infatti la vera natura dell'uno è in Dio soltanto» (De mon. I, 7). Perché l'unità del genere umano possa essere realizzata, è necessario che vi sia un solo monarca universale: «Il genere umano si trova in uno stato di perfezione, quando è regolato nei suoi moti e motori da un unico principe come da un unico motore, da un'unica legge come da un unico moto» (De mon. I, 11). «La monarchia risulta dunque necessaria al mondo» (De mon. I, 10). «La giustizia è suprema soltanto sotto il monarca» (De mon. I, 11).
«Il diritto, essendo un bene, esiste prima di tutto nella mente di Dio; e poiché tutto ciò che esiste nella mente di Dio è Dio, secondo il detto "ciò che fu fatto era vita in lui", e dal momento che Dio vuole soprattutto se stesso, ne consegue che il diritto è voluto da Dio nella misura che è in lui» (De mon. II, 2). L'origine dell'impero è storicamente legata al popolo romano in ragione delle sue virtù: «Al più nobile dei popoli spetta l'egemonia su tutti gli altri popoli» e proprio «Il popolo romano è il più nobile per le sue virtù». Dante riteneva che la donazione di Costantino fosse realmente avvenuta; ma la riteneva illegittima: «Costantino non poteva cedere l'autorità dell'impero né la Chiesa riceverla» (De mon. III, 10). Infatti la Chiesa e l'impero hanno finalità armoniche, ma irriducibili l'una all'altra: «come la Chiesa ha un proprio fondamento, così anche l'impero ha il suo». «Il fondamento dell'impero è il diritto umano» ( De mon. III, 10). Dante ritiene che l'autorità imperiale derivi direttamente da Dio senza mediazione alcuna della Chiesa: «L'autorità dell'impero dipende direttamente dal vertice di tutto l'essere, che è Dio» (De mon. III, 12). «Quando la Chiesa non esisteva o non esercitava la propria virtù, l'impero possedeva già intera la propria virtù» (De mon. III, 12). Roma esisteva prima della Chiesa ed aveva rapporto diretto con il disegno della creazione. Il confronto ideologico, diplomatico e amministrativo tra il potere temporale e il potere ecclesiastico è stato molto forte nel Medioevo. Dante dà evidenza al ruolo del potere politico nella costruzione di una corretta convivenza civile e ciò lo conduce a ri-esaminare i rapporti di papato ed impero con rigore, ma senza scostarsi dalla impostazione tradizionale del problema.
Le idee politiche di Dante possono essere considerate utopiche; sarebbe però un errore grave trascurare l'altissima idealità che lo sosteneva nella ricerca della universalis civilitas humani generis, in cui i rapporti tra i singoli individui e la società fossero costituiti sulla base di responsabili scelte di giustizia. Dante ben comprende che una crisi gravissima colpisce sia l'impero che il papato; ed è certo che essa ha la sua origine in una crisi morale molto profonda che riguarda la cupidigia soprattutto. Egli stima la monarchia universale la maggior garanzia di stabilità e di pace proprio perché il monarca, in quanto ha autorità su tutto, non può desiderare altro e si trova nella impossibilità di cadere vittima della cupidigia: «Dove non esiste più nulla che si possa desiderare, l'esistenza della cupidigia diventa impossibile [.]. Ma per il Monarca non esiste nulla che si possa desiderare [.]. Ne consegue che solo il Monarca è tra gli uomini il più autentico soggetto di giustizia» (De mon. I, 11).
L'ordine universale può essere garantito solo in rapporto all'imperatore. Certo, Dante non si illude che il solo imperatore possa dare la garanzia del successo sperato. Si tratta soltanto di dare evidenza alla possibilità e, di conseguenza, al dovere morale del Monarca di impegnarsi per portare a compimento ciò che, in ogni caso, sarebbe precluso ad altri. Come l'uomo singolo, anche la società deve essere regolata in ragione della voluntas una, domina et regulatrix ; ove manchi la volontà di unità nella razionalità, non potranno essere superati quei particolarismi che dividono le città in aspre contese anche al loro interno. La stessa Provvidenza divina ha voluto l'impero romano. Ciò può essere provato con il fatto che le vittorie dei romani furono spesso il frutto di eventi miracolosi. Le guerre di Roma si risolsero in altrettanti "duelli" nei quali si manifestò il giudizio di Dio. Il Figlio di Dio, sottomettendosi all'autorità imperiale, l'ha manifestata della sua legittimità. Ingiustamente si oppongono al riconoscimento del potere universale dell'Impero gli ecclesiastici per un amore disordinato della Chiesa stessa, e i decretalisti che ignorano la filosofia e si attengono alle sole determinazioni storiche. Dante sostiene che ritenere il Papa l'unica autorità, fonte anche del potere politico, è il risultato di interpretazioni false sia dell'Antico che del Nuovo Testamento. Quando il papa Adriano I concesse il titolo di imperatore a Carlo Magno lo fece usurpando un diritto che non era suo. D'altra parte la Chiesa deve trovare la sua forma nella vita stessa di Cristo che, davanti a Pilato, ha detto: «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18, 36). Dante non intende dire che Cristo non sia il detentore del principio primo della autorità anche politica, ma sostiene che questo potere non è stato dato alla Chiesa.
La forza della Chiesa è deve essere del tutto e soltanto spirituale. Dante è estremamente critico nei confronti di ogni cedimento alla teocrazia; per questo nella Commedia ha posto anche dei papi conficcati nell'oscurità dell'inferno. Considerava infatti un abuso intollerabile che gli ecclesiastici pretendessero il potere e si servissero della scomunica come di uno strumento di pressione politica. Nel Paradiso Dante riceve da s. Pietro l'incarico di rendere nota in terra l'ira di Dio contro la Chiesa che per il lusso, la cupidigia, la brama di potere, da sposa eletta, è divenuta meretrice. Poiché l'uomo ha una duplice natura, corruttibile ed incorruttibile, ha due ordini di finalità, la felicità in questa vita e la beatitudine nella vita eterna. La prima via deve essere cercata sotto la guida dell'imperatore che ne risponde a Dio, la seconda sotto la guida del Papa. Ciò non toglie che anche l'imperatore, in quanto uomo, sia destinato come tutti gli altri al giudizio di Dio, e debba, di conseguenza, egli stesso una reverenza filiale al Papa: «Cesare [.] si rivolga a Pietro con quel rispetto che il figlio primogenito deve al padre: affinché illuminato dalla grazia della luce del padre, possa irradiarla con più efficacia sul mondo terreno, al quale è stato preposto da Colui che solo è guida di tutte le cose spirituali e temporali» (De mon. III, 15).
V. Teologia e unità del sapere nella Commedia di Dante: alle radici di una Summa del pensiero cosmologico, filosofico e teologico medievale
In molti luoghi si può intendere che Dante è consapevole di avere ricevuto una responsabilità di segno profetico: «Voglio esporre delle verità che altri non hanno ancora tentato di indagare. Poiché di quale utilità potrebbe essere colui che volesse dimostrare ancora una volta un teorema di Euclide?» (De mon. I, 1). Ma la ricerca del nuovo non è il gioco di chi vuole stupire per acquisire una facile notorietà. Al contrario, Dante critica severamente chi si affanna in vista di un facile ed effimero consenso. Il nuovo è responsabilità in rapporto alla traditio dei padri; se non ci fosse in lui questa fedeltà, il novum della sua poesia si sarebbe forse perduto nella frammentazione. È mistero della provvidenza che una così alta sensibilità fosse posseduta da un uomo afflitto dalle più atroci incomprensioni. La sua profonda cultura gli consentiva di rapportarsi a molti autori che avevano diversamente tentato la descrizione dell'aldilà. La grandezza di Dante non si trova nel fatto ch'egli ha avuto visioni, ma ch'egli ha potuto intenderne il senso in rapporto dialettico con le dottrine della più pura ed alta tradizione teologica.
In Dante, la sintesi di filosofia, teologia e mistica e la sua determinazione nella valutazione degli eventi storici non hanno precedenti; per questo Papini ha potuto dire che Dante «ha inteso offrire un supplemento alla stessa Bibbia, dare un seguito all' Apocalisse » ( Dante e Michelangiolo , Milano 1961, p. 237). In effetti, proprio nello spirito dell'Apocalisse è considerata la storia, ancorché si riferisca talvolta ad eventi di minore importanza. Ma chi può dire che cosa è "maggiore" o "minore" al cospetto del giudizio di Dio? Ciò che appartiene al tempo è innestato in una prospettiva escatologica; giustizia e ingiustizia, fedeltà e tradimento, nel poco o nel molto, sono ciò che ogni uomo presenta nell'ultimo giudizio per essere consegnato alla luce o gettato nell'abisso soffocante. Molteplici figure compaiono nella Commedia di Dante in tutta la loro grande portata storica, ma sono sempre presentate in rapporto al destino di salvezza o di perdizione. Il tempo è dato per la salvezza e non è consentito di disperderlo. Dice la Sapienza «Insegnaci a contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 90,12); e riprende Dante: «E tutte le nostre brighe, se ben veniamo a cercare li loro principii, procedono quasi dal non conoscere l'uso del tempo» (Convivio , IV, 2).
Il periodo della composizione della Divina Commedia è incerto. È probabile che l' Inferno sia stato iniziato nel 1306-7; si sa che il Purgatorio era già conosciuto nel 1315; l'inizio del Paradiso è da collocare attorno al 1316. Quest'ultima cantica fu conosciuta solo dopo la morte di Dante. L'opera si compone di 14.223 endecasillabi. Dopo il primo canto che ha valore introduttivo, le tre cantiche si sviluppano armonicamente per 33 canti ciascuna. I versi sono ordinati in terzine a rime incatenate secondo lo schema ABA, BCB, CDC, ecc. I canti sono di diversa lunghezza, da un minimo di 115 versi ad un massimo di 160. Si tratta di un'opera grandiosa ed armonicamente costruita. Un'ampia rete di rimandi collegano tra loro le tre cantiche; se da un lato l'architettura dell'insieme e la struttura della dottrina appaiono rigorose, ricchissima si rivela l'inventiva nella descrizione delle situazioni umane e spirituali. Suggestivo appare il raffronto tra le cattedrali medievali e la Commedia proprio in ragione del comporsi di rigorose ed ardite strutture con la ricca libertà dell'ornato. Dante scrive la sua opera in esilio; in questa sua sofferenza egli diviene simbolo dell'esilio di tutta l'umanità dalla vera patria. Le peregrinazioni non interrompono la continuità né dell'ispirazione né del progetto, in rapporto anche a quanto il Poeta poté intuire fin dalla sua giovinezza: l'opera, infatti, ha rapporto all'intendimento di Dante di non parlare più di Beatrice fino a quando non ne avrebbe potuto parlare più degnamente (cfr. la chiusa della Vita nuova nel 1293).
Certamente Dante ha elaborato fin da principio un progetto del tutto unitario e gli ha dato la forma di una summa; ciò non toglie, tuttavia, che il lavoro, portato a termine in quindici anni circa di duro lavoro, «sì che m'ha fatto per più anni macro» (Par . XXV, 3) riveli affinamenti progressivi. Confluiscono nella Commedia le esperienze più alte e forti della cultura italiana del tempo: dalla cultura filosofico-teologica di lingua latina alla produzione letteraria volgare e provenzale, dalle controversie politiche cittadine, ai dibattiti sui grandi temi dell'autorità imperiale e pontificia, da una vasta conoscenza della mitologia antica alle questioni di carattere cosmologico. Tutta la sapienza del trivio e del quadrivio è ben presente in Dante; e c'è la scienza dei numeri (numerologia) di origine pitagorica e platonica, quella stessa che si trova profusa nella scelta dei rapporti numerici dei progetti delle cattedrali. Filosofia, teologia e poesia sono qui in rapporto ad una unica ispirazione; sarebbe assurdo separare la scientia di Dante dalla sua intuizione lirica; al contrario, una unica "sapienza alta" dice il vero nella gioia, cioè nel "gusto" ineffabile dell'essere-verità.
Una profonda unità spirituale domina il lavoro: Dante impegna tutta la propria esistenza in questa straordinaria produzione poetica e filosofica, teologica e mistica. Si è detto spesso che nell'opera è dominante la filosofia della pratica perché il poeta vuole condurre i suoi lettori, attraverso l'orrore dell'inferno e il dolore del purgatorio, ad amare la luce del paradiso. Non si deve dimenticare che non si può conoscere la verità senza amarla e, di conseguenza, senza desiderare di adeguarsi alla giustizia che è conseguenza della verità; e non si può conoscere la verità senza accettare di essere trasformati e purificati, cioè fatti degni di divenire partecipi della luce di Dio. Se si insiste sul maggior peso della filosofia morale rispetto agli aspetti speculativi si dicono cose corrette sotto il profilo delle distinzioni doverose nei trattati; ma non si dimentichi che la Verità è data sempre e soltanto per essere comunicata. La verità costruisce la vera umanità; la verità è saputa e gustata nella misura in cui se ne diviene degni.
Dante scrive la Commedia in vista del miglioramento dei costumi degli uomini; è inevitabile che vi sia una forte attenzione alla politica intesa come azione responsabile di giustizia e di verità. Il perdono e la riconciliazione non possono essere frutto di oblio, né di calcolo interessato, ma devono essere il frutto di conversione. Dante ha la certezza della azione della provvidenza divina in seno alla storia; ma ciò non lo conduce ad una visione fatalistica. Il peccato e la tiepidezza sono gli ostacoli che la libertà umana oppone alla iniziativa salvifica della grazia. Dante attraversa l'inferno dove vede gli esiti terribili delle passioni che dominano il mondo: la pretesa del potere sugli altri uomini rappresentata sulla soglia dell'inferno dal leone; la cupidigia rappresentata dalla lupa famelica e l'egoismo sensuale e crudele rappresentato dalla lonza. Vi incontra molti personaggi di tempi lontani e recenti, della sua città soprattutto. Dal punto di vista religioso si pone un problema di non piccolo rilievo: sulla base della narrazione del viaggio mistico, Dante rivela i nomi di coloro che sono stati salvati dalla misericordia e di coloro che hanno rifiutato di volgersi, sia pure in estremo, al dono della salvezza. Chi ha potuto investirlo di simile autorità di giudizio? La questione, irrilevante dal punto di vista letterario e storico, diviene di grande momento se, come è giusto, si legge l'opera secondo le intenzioni religiose dichiarate dall'Autore. Firenze è il luogo dove si consumano quegli eventi medesimi che, dovunque nel mondo, sono dominanti: è una sorta di teatro sul quale l'umanità si svela nella dialettica di bene e di male, di lealtà e di tradimento, di iniziative coraggiose e di ignavia. Vi si svolge qualcosa di grandioso come la storia sacra. La storia di Israele in cammino verso il Signore e la libertà è divenuta paradigma della storia della hiesa e di tutta l'umanità; altrettanto la storia che Dante assume in rapporto ai «novissimi», diviene una riflessione sul senso della storia nella prospettiva della salvezza eterna. Gran parte dell'addolorato realismo dantesco circa le motivazioni che governano gli eventi della storia, dipende proprio dalla esperienza che egli ha vissuto a Firenze; ed è insistente l'espressione della sua sofferenza per la decadenza dovuta alla perdita delle antiche virtù di cortesia e valore, di semplicità e schiettezza, come appare evidente soprattutto quando Dante incontra Cacciaguida (cfr. Par . XV, 88ss). La condanna dei vizi capitali sono il riferimento morale e la ragione dei giudizi di Dante.
La Commedia è una summa del sapere medievale: poesia talvolta tragica, altra volta teneramente lirica; enciclopedia di scienza, di filosofia e di teologia. Motivi diversi si incontrano in una poetica di immensa ricchezza; il poema vuole educare alla moralità, è scuola di anagogia, offre luce alla storia, suscita attesa di profezia, richiama costantemente alla memoria dello spirito il destino eterno che ci attende. La Commedia non si limita a porgere in veste di esempi e metafore accessibili le dottrine teologiche acquisite; è un'opera filosoficamente e teologicamente originale, ancorché, come giustamente accade nella tradizione cristiana, solidamente legata alla traditio dei Padri e dei Dottori. Qui si incontra il senso della più vera ed alta moralità dell'arte: il poeta illumina nella misura in cui si lascia illuminare. Umile davanti a Dio, umanamente ferito per l'incomprensione, Dante combatte la tiepidezza e la malvagità, è profeta di cose divine e vate di destini umani nell'orizzonte dell'unica verità. La laicità di Dante è momento essenziale della sua profezia: erede di «antica ricchezza e be' costumi» (Convivio, IV, 3), ha portato a perfezione il suo compito mediante l'«abituale elezione» volta a «fortezza, temperanza, liberalità, magnificienza, magnanimità, amativa d'onore, mansuetudine, affabilità, verità, eutrapelia, giustizia». Anche l'enciclopedismo è per lui strumento mediante il quale condurre a termine la sua opera educativa perché gli offre l'occasione di proporre criteri ermeneutici volti alla più alta moralità. Nella Commedia egli parla con l'autorevolezza di chi ha esperienza della corrispondenza che esiste tra il "mondo dell'aldilà" e la vita vissuta qui. Sarebbe un danno grave perdersi negli innumerevoli percorsi eruditi che la Commedia consente e non accorgersi della sua profonda dinamica spirituale.
VI. L'itinerario teologico-spirituale delle tre cantiche della Commedia
1. La prima cantica: l'Inferno. Si è detto sopra che l'altissima poesia dantesca ha la sua origine in una dinamica non ancora adeguatamente indagata tra l'inconscio superiore o spirituale da un lato e la coscienza normale dall'altro, sorretta quest'ultima dalle certezze che vengono dalla esperienza e dalle dottrine filosofiche, scientifiche, teologiche e così via. Il loro incontro dà origine al rifrangersi di immagini che si trovano in rapporto dialettico con le certezze dottrinali acquisite: per un verso vengono intese in rapporto alle strutture concettuali già date; ma per altro verso annunciano aspetti della verità non ancora intesi. Come leggere allora la descrizione dell'inferno? L'inferno sembra avere rapporto piuttosto con incubi atroci, con l'angoscia del male, con le figure orrende che, provenendo dall'inconscio inferiore, ci sorprendono talvolta in sogni pieni di spavento. Ma anche in questo caso si può pensare all'alta fantasia, cioè ad immagini che provengono dal nostro rapporto con l'idealità. Ciò cui Dante si rapporta non è l'orrore del male, ma la giustizia divina. Nell'inferno la giustizia viene vista negli esiti prodotti dalla sua negazione. L'inferno è il "negativo" in rapporto alla verità di Dio. Non importa quel che l'inferno sia come tale, non c'è compiacimento alcuno; importa solo l'indefettibilità della giustizia.
Quando si manifesta la luce che dà origine alla profezia, è offerta ad un singolo che ha una cultura particolare ed una struttura psicologica determinata. Benché sia data dall'alto, la profezia prende forma in una forma storica determinata. Sarebbe sciocco pretendere di comprendere la profezia sulla base dell'esame delle sole forme storiche del linguaggio nel quale ci viene trasmessa, ma altrettanto irragionevole sarebbe dare alle parole umane una assolutezza che non possono avere. Ora, non si dimentichi che la struttura del pensare latino è orientata al diritto. La civiltà e la Chiesa del medioevo hanno ereditato da Roma una rigorosa mentalità giuridica. Viene di qui il fatto che in Dante i temi della giustizia negata facciano sorgere le terribili immagini delle pene, rigorosamente rapportate alle leggi di Dio che il peccatore ha violato.
L'immagine dell'inferno dantesco è, in certi aspetti, simile a quello dell'Ade dei Greci. Le anime si trovano in regioni oscure, hanno memoria nostalgica della vita vissuta nella luce sotto il sole, quando il caldo sangue poteva dare ancora vita e forza alla libertà; c'è nostalgia della vita trascorsa. Ma non c'è pentimento. Vi compaiono molte figure mitologiche. L'opera poetica di Dante è debitrice in larga misura nei confronti della cultura classica (e, in parte almeno, anche della cultura islamica). Ma non si deve trascurare il fatto che il mito classico è non soltanto ripreso, ma elaborato. L'elaborazione del mito, al pari della elaborazione delle esperienze religiose, comporta una assunzione di responsabilità nei confronti del significato di ciò che viene narrato; la mitologia diviene allora una sorta di dottrina di riferimento perché la visione possa essere intesa entro un quadro di intelligibilità. Virgilio accompagna Dante tra la «perduta gente», poi attraverso il purgatorio; egli rappresenta la natura umana nel suo naturale, nostalgico orientamento al bene.
Prima dell'inferno si incontrano gli ignavi, «che visser sanza infamia e sanza lodo» (Inf . III, 36): essi non sono degni del cielo, ma anche l'inferno respinge come irrilevanti. Doloroso l'incontro con Paolo e Francesca (cfr. Inf . V, 73-142): portati e travolti dal vento terribile della passione, non possono aver parte al regno della giustizia. Dante sviene al racconto della loro sventura; la coscienza del pericolo al quale egli stesso è esposto lo porta al limite estremo di quella compassione che non è consentita per chi è caduto nella impenitenza. Non è lecito portare odio contro alcuno, nemmeno se già giudicato; ma non si può valicare la giustizia di Dio in una compassione male orientata che darebbe forza alle potenze dell'inferno. Dante riconosce che verso la sofferenza dell'inferno si deve affrontare e vincere «la guerra della pietate» (Inf . II, 4-5).
Nella parte centrale dell'inferno accanto a personaggi terribili, come gli ipocriti, si incontrano anche eroi che conservano fierezza e dignità, che hanno perduto il paradiso per una sola, se pur grave, colpa, come nel caso di Ulisse, di Pier delle Vigne, di Ugolino. Dante opera un acuto discernimento di valore; e tuttavia non può consentire che il peccatore entri nel paradiso o nel purgatorio senza un atto preliminare, se pur tardivo ed ultimo, di pentimento. L'inferno è luogo senza storia perché è senza amore, che è il solo e vero principio motore di tutto ciò che ha storia. Si dice abitualmente che l'Inferno è più vicino alla nostra mentalità, ma si tratta evidentemente di una banalità priva di senso, proprio perché in esso non c'è storia né progresso. L'inferno è la negazione non soltanto della rivelazione e dell'amore divino, ma addirittura della natura umana, mentre la redenzione è compimento della natura e accoglienza della azione liberatrice e redentrice della grazia. La giustizia negata conduce all'inferno perché è traviamento della natura umana, qui vista in ragione dell'ordine universale voluto e posto da Dio. Il Paradiso è più che il compimento della natura, perché è la viva partecipazione alla azione della grazia.
Attraversato il vestibolo ed il limbo dove si trovano i bambini senza battesimo e i grandi spiriti, i giusti che non hanno potuto ricevere il battesimo di Gesù, si schiude il pozzo abissale che precipita fino al centro della terra dove Lucifero si trova stretto in assenza di spazio. I cerchi che cadono verso luoghi sempre più ristretti, significano la progressiva lontananza dalla ampiezza degli spazi celesti e rappresentano il rifiuto sempre più radicale della compresenza. L'abisso ha un ordine in rapporto alla giustizia negata e sprofonda secondo lo schema seguente: II° cerchio lussuriosi, III° golosi, IV° avari e prodighi, V° iracondi, VI° eretici, VII° violenti, diviso in tre gironi 1° contro il prossimo (omicidi e tiranni), 2° contro se stessi (suicidi e scialacquatori), 3° contro Dio e la natura, (bestemmiatori, sodomiti, usurai); VIII° cerchio fraudolenti diviso in dieci bolge: 1° ruffiani e seduttori, 2° adulatori, 3° simoniaci, 4° indovini, 5° barattieri, 6° ipocriti, 7° ladri, 8° mali consiglieri, 9° seminatori di discordie, 10° falsari; IX° cerchio fraudolenti che tradiscono chi si fidava di loro in quattro zone: 1° traditori dei parenti, 2° traditori della patria, 3° traditori degli ospiti, 4° traditori dei benefattori. Nel fondo del pozzo infernale c'è Lucifero, soffocato in assenza di spazio. Nel furore della sua ribellione impenitente, egli sbrana Giuda, che ha tradito Gesù e la Chiesa , e (motivo di grande meraviglia, ma di grandissimo significato politico) Bruto, che ha tradito Cesare ovvero l'autorità imperiale data da Dio per il bene di tutta l'umanità.
2. Il Purgatorio. È il luogo della purificazione. L'amore deve trasformarsi, superare l'egoismo e divenire "amore vero", teologicamente orientato alla giustizia. La virtù del mondo classico e del mondo biblico si incontrano, come dimostrano gli esempi di virtù presi dalla mitologia classica. Qui si può vedere il valore profetico della poesia dantesca: profezia non è vedere quello che accadrà, ma discernere, nella luce di Dio, il valore vero delle virtù al di là delle vane apparenze. La difficile salita del purgatorio rappresenta la fatica personale che deve affrontare chi, anelando alla purificazione, si appresta a servire Dio. L'ingresso è custodito da un angelo dal volto fiammeggiante, di intensità luminosa insostenibile; e tuttavia il suo abito è color grigio, segno della penitenza doverosa e dell'umiltà davanti a Dio che, Egli solo, è buono (cfr. Lc 18,19). Davanti alla porta vi sono tre gradini: il primo di marmo lucido nel quale il peccatore vede se stesso, il secondo di una pietra ruvida e spezzata, segno della contrizione; il terzo di porfido fiammeggiante, rosso come sangue, segno della assoluzione che viene dal sacrificio di Cristo. Le balze della montagna scandiscono la salita in ragione delle forme diverse delle tendenze che portano al peccato. Si percorrono allora le vie di purificazione dei sette vizi capitali il cui fomite è dato da amore disordinato: superbia, invidia e ira sono da riferire all'amore che fallisce il suo scopo; avarizia, gola, lussuria nascono dall'amore smodato per le cose e per il piacere, l'accidia è relativa, infine, alla mancanza di amore.
Si trova nel Purgatorio l'argomentazione che Dante segue in ordine alla creazione dell'anima. Nelle parole di Stazio, Dante segue la via tomistica e sostiene che Dio crea l'anima individuale nel momento in cui «l'articular del cerebro è perfetto» (Purg. XXV, 69). L'anima individuale è dunque creata direttamene da Dio. Rispetto alla vita del corpo, essa è atto che trae a sé l'anima vegetativa e l'anima sensitiva, sì che ne viene una sola anima «che vive e sente e sé in sé rigira» (Purg. XXV, 75). Considerazioni interessanti sopraggiungono in rapporto a ciò che accade al momento della morte: i sensi si ottundono, ma implodono in ancor più intensa attualità «memoria, intelligenza e volontade» (Purg. XXV, 83). Questo nucleo centrale dell'anima non scompare con la morte e, addirittura, diventa più intensamente presente a sé; è una potenza in grado di plasmare dall'interno, attingendo la materia dall'«aere» (cfr. Purg. XXV, 94), il volto e le forme diverse di sensibilità che le consentono di entrare nuovamente in rapporto con il mondo. Si tratta di un passo di grande interesse, nonostante che sia forse ingenuo il riferimento all'«aere» quale materia che consente di ridisegnare il volto. Resta il fatto che le sembianze del volto, dopo la morte hanno rapporto non tanto, o meglio, non soltanto con le sembianze del volto del corpo, ma con le scelte che hanno orientato tutta l'esistenza: ne viene una sorta di volto costituito in rapporto alla luce desiderata e testimoniata, oppure orribilmente sfigurato dall'egoismo delle brame. Si intravedono i tratti elementari della metafisica del volto in cui convergono tre elementi essenziali: la struttura della natura creata, la vocazione ad un compito particolare e la libertà delle scelte.
Il Purgatorio è una montagna collocata, in ragione di prospettive scientifiche antiche, nell'emisfero australe. Ma non solo leggi fisiche governano questa montagna: quando un'anima lascia il purgatorio per salire in cielo, il monte è squassato da un terremoto. C'è in questo la memoria del terremoto che scosse la montagna di Gerusalemme quando venne aperta la via del cielo con il sacrificio di Cristo; e c'è la memoria del gemito di tutta la natura che nell'uomo attende di essere trasfigurata nella luce del cielo: «sappiamo bene che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,22).
Dante ha attraversato l'inferno nello sdegno per i peccatori e nell'orrore per le conseguenze del peccato; sale la montagna del purgatorio in una progressiva purificazione personale che lo renderà meno indegno di accedere alle più alte rivelazioni del paradiso. È questione di decisiva importanza osservare che la purificazione è, ad un tempo, intensificazione della capacità di amare. Prima del paradiso un fuoco immenso si frappone alla sua salita; Virgilio lo esorta ad affrontare la prova terribile per amore di Beatrice; e l'amore per Beatrice può divenire nuovamente vera esperienza alla sola condizione che il cuore di Dante diventi capace di sostenere una intensità altissima. Il canto dell'Angelo presso la fiamma « Beati mundo corde! » è invito ad essere capaci, attraversando il fuoco, di intendere il «cantar di là» (Purg. XXVII, 12). È così terribile la prova di questo fuoco che, dice il Poeta, «in un bogliente vero gittato mi sarei per rinfrescarmi» (Purg. XXVII, 49-50); ma il canto che viene di là «Venite, benedicti Patris mei» (Purg. XXVII, 58), lo sostiene e gli dà il coraggio di affrontare la sofferenza necessaria per raggiungere il paradiso terrestre. La speranza di ritrovare gli "occhi" di Beatrice, cioè di raggiungere quella "purezza del cuore" che consente di vedere Dio, conferma Dante nella determinazione.
Il «paradiso terrestre» è posto sulla montagna del purgatorio. Dal punto di vista della filosofia e della teologia morale, la cosa appare razionale. È facile osservare che il purgatorio deve trovarsi, evidentemente in una dimensione diversa da quella fisica, ancorché la cosmologia antica tenda inevitabilmente a sovrapporre le due dimensioni, come già si è visto (vedi infra , III.1). Ciò significa, allora, che anche il luogo del paradiso terrestre non può essere raggiunto se non proprio attraverso un "viaggio" metafisico. Non è necessario intendere che materia e spirito costituiscano una unica polarità; più probabilmente materia e spirito costituiscono polarità innumerevoli in rapporto ascensionale, sì che c'è terra in rapporto ad un cielo che, alla sua volta, è terra in rapporto ad un cielo più alto così via, fino al limite altissimo dell'Empireo, il cielo che abbraccia ogni altra sfera, e che non è interno ad alcun luogo più ampio. Se ammette, allora, che il paradiso terrestre non si trovi in qualche parte di questa «aiuola che ci fa tanto feroci» (Par. XXII, 151) non si nega che Adamo sia stato plasmato di terra prima di essere vivificato dal soffio di Dio; ma si dice solo che a questa dimensione ultima della terra, dove ci troviamo a vivere prossimi agli animali, siano giunti in esilio, dopo il peccato.
Sul monte del purgatorio le anime si trovano diversamente collocate in ragione delle forme diverse di purificazione alle quali sono chiamate. Nell'antipurgatorio si trovano i negligenti che si sono pentiti in ritardo, divisi in quattro schiere: 1° negligenti morti scomunicati, 2° negligenti per pigrizia, 3° negligenti morti improvvisamente per violenza, 4° principi negligenti. La struttura del Purgatorio risulta così composta. a) Amore rivolto al male degli altri. I penitenti si trovano in tre cornici: 1° superbi, 2° invidiosi, 3° iracondi. b) Scarso amore del bene: 4° cornice, accidiosi. c) Eccessivo amore dei bei terreni: 5° avari e prodighi, 6° golosi, 7° lussuriosi.
Valicati nel paradiso terrestre i fiumi di Leté ed Eunoé, Dante può allora vedere la processione che rappresenta simbolicamente la Chiesa. Incontra qui Beatrice che lo condurrà nel paradiso. Sulla soglia del paradiso terrestre Dante è condotto al pianto della conversione radicale. Virgilio lo lascia in silenzio; Beatrice lo accoglie; ma deve farlo riflettere sulla vergogna del suo amore infedele. Dante si riconosce peccatore, ammette di essere stato sedotto da immagini false, di non aver saputo accogliere l'intensità altissima che gli si era annunciata in forza della «mirabile visione». Beatrice è rapita nella visione del Cristo e Dante sperimenta qui tutto il dolore del suo traviamento. Giunge ad odiare tutto ciò che prima amava: è la metanoia. L' eros è superato nell' agape attraverso il volto di Beatrice che si fissa in altissima contemplazione. La confessione di Dante è il momento centrale del poema. Solo dopo questo mutamento interiore gli è consentito di bere al fiume di Leté, che toglie la dolorosa memoria del passato; e solo dopo Leté, egli può attingere l'acqua di Eunoé, che consente di pensare veramente il bene. I due fiumi appartengono al mito platonico e sono di altissimo significato. Una delle nostre illusioni più funeste consiste nella presunzione di poter conoscere le cose della terra e, allo stesso modo, le cose del cielo, in ragione della scelta del momento. In realtà, senza la confessione della indegnità e senza un profondo mutamento interiore, nemmeno l'ombra delle verità celesti può entrare nella nostra mente. Pensare veramente la verità del cielo non è lo stesso che pronunciare parole poco e male intese che darebbero evidenza soltanto alla nostra frattura interiore. Beatrice è la gemma attraverso la quale Dante può vedere il rifrangersi della gloria di Dio; per questo egli guarda in lei per accertarsi di essere nel giusto. Beatrice, dal canto suo, intende ogni desiderio di Dante prima che egli lo esprima a parole: ciò che noi saremo sarà infatti la piena manifestazione del nostro sentire e del nostro pensare. Il nostro volto sarà trasparenza perfetta.
Il paradiso terrestre è stato perduto per colpa di Eva che, ingannata dal Serpente antico, indusse Adamo al peccato. Da allora, nessuna creatura umana vi è stata ammessa. Dante, però, vi incontra Matelda che, fedele a Dio, lo abita e lo custodisce. Essa è figura-simbolo della grazia di Dio che soccorre l'uomo fino al compimento del cammino verso la perfezione umana, prima che l'ascesa illimitata verso Dio divenga libero volo nella luce. Matelda indica a Dante il carro che rappresenta la Chiesa , dove tutti i simboli della rivelazione si raccolgono attorno al Grifone, figura con testa d'aquila e corpo di leone, che rappresenta il Cristo.
3. La terza cantica della "Commedia": il Paradiso. La cantica inizia con una teoria affascinante che rende ragione di tutto il poema e delle intuizioni che si trovano nelle opere precedenti. L'intelletto rapito verso la luce altissima di Dio, si rende partecipe di verità altissime e inesprimibili. C'è qui il diretto e consapevole riferimento a s. Paolo ed alla sua esperienza di rapimento fino al terzo cielo (cfr. 2Cor 12,2): «Nel ciel che più della sua gloria prende / fu' io e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende» (Par. I, 4-6). Il tesoro di luce attinto nel rapimento si rifrange nella mente del poeta come in un prisma e fa sorgere innumerevoli immagini di alta fantasia che si pongono in rapporto dialettico con la sua esperienza, con le sue teorie e con la sua storia. Non solo gioco letterario, ma di grande rilievo il riferimento ad Apollo, dio della forma e della solarità, qui assunto come simbolo del canto e della musica, della forma e dell'ordine, perché il Poeta chiede di tradurre come immagine ispirata dall'alto una traccia almeno, l'ombra del beato regno. Storici e letterati possono trovare elementi di maggior interesse e di più immediata plasticità nell' Inferno e nel Purgatorio; ma non si deve dimenticare che Dante proprio a questo "impossibile" canto del Paradiso voleva giungere e che proprio per questa sua impreceduta poesia ritiene di aver diritto al più alto riconoscimento anche umano. La poesia, nella rifrazione dell'alta fantasia, allude a cose altrimenti inattingibili. Se nell'inferno e nel purgatorio l'attenzione va alle immagini della giustizia divina negata, qui l'alta fantasia, in rapporto alla Sacra dottrina, deve diventare profezia non soltanto della beatitudine che ci attende, ma della verità che, pur tra molte ombre, ci raggiunge e ci orienta già qui, in terra.
È acquisto che il paradiso dantesco è luogo di comunione universale. La diversità dei cieli non separa le anime, ma è il segno che dà evidenza alle diverse luci di cui le anime splendono in ragione della libera risposta alle forme diverse della grazia salvatrice. Si tratta di una questione che riveste molta importanza. Le anime rispondono con libertà alla vocazione di Dio; nella libertà si definiscono mondi qualitativi che, alla loro volta, trasmettono il loro influsso sulla terra. Il linguaggio attraverso il quale Dante si esprime è quello della cosmologia antica; ma l'ispirazione è alta. I cieli sono individuati, quanto alla loro altezza, da criteri qualitativi; si aprono in vertiginose altezze sulle vie di Dio che chiama a sé le creature e conferisce loro un compito. La cosmologia del suo tempo offre a Dante un linguaggio per descrivere cieli che si aprono in luci sempre più alte, in spazi sempre più ampi, in moti sempre più rapidi. Si sale nel paradiso fino alla inimmaginabile apertura dell'Empireo, al di là del quale non c'è altro luogo, ma Dio solo, intravisto come il punto geometricamente inesteso, di intensissima, insostenibile luce, che abbraccia, tuttavia, l'infinità dello spazio: è la pura trascendenza di Dio, dove il punto e l'infinità onniabbracciante coincidono perfettamente: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Par. XXXVIII, 16-18). Proprio di questo punto si dice «non circunscritto, e tutto circunscrive» (Par. XIV, 30).
L'ordine del paradiso consente a Dante di incontrare le anime che sono giunte al paradiso avendo diversamente accolto la grazia: nel cielo della Luna gli spiriti che hanno mancato i voti; nel cielo di Mercurio coloro che hanno operato in vista della gloria terrena; nel cielo di Venere quanti hanno seguito la propensione ad amare; nel cielo del Sole i sapienti; nel cielo di Marte i combattenti per la fede; nel cielo di Giove gli spiriti che hanno agito per la giustizia; nel cielo di Saturno i contemplanti; nel cielo delle stelle fisse Dante incontra Adamo, vede il trionfo di Gesù e l'incoronazione della Vergine Madre. Dio è circondato dalle nove gerarchie angeliche che appaiono in ordine ascensionale. Poiché Dio viene intravisto come un punto, le gerarchie più prossime a Dio sembrano essere incluse dalle gerarchie inferiori; in realtà, così come il punto geometrico che rappresenta Dio include l'infinità dello spazio, così le gerarchie angeliche più vicine a Dio abbracciano le inferiori. Per la diversa celerità della luce e del moto circolare, i cori più prossimi al punto, apparentemente interni, sono, in realtà, di ampiezza maggiore ed accolgono le inferiori per condurle secondo opere di assidua e gioiosa carità.
Le anime partecipano dell'unica comunione d'amore; esse appaiono, tuttavia, in costellazioni: si tratta di una prospettiva ricca di fascino spirituale. Si costellano le anime legate da una missione comune; nella solidarietà che le unisce quanto al loro compito, sì forte diviene l'unità che Dante intendere la costellazione parlare in prima persona singolare piuttosto che in prima plurale: «e sonar nella voce e "io" e "mio", quand'era nel concetto "noi" e "nostro"» (Par. XIX, 11-12). Gli spiriti costellati non occupano maggiore o minore importanza in ragione della loro posizione nel mondo, ma solo in ragione della lealtà, cioè della purezza del loro servizio d'amore. Sembra ragionevole ammettere che la comunione tra la Chiesa trionfante del cielo e la Chiesa militante in terra avvenga secondo l'ordine delle costellazioni. Nella nostra piccola vita, l'amore di Dio fluisce secondo le forme, spesso ingiustamente ignorate, del destino delle costellazioni. Nessuno di noi, dice s. Pier Damiani può conoscere la specificità della propria missione, perché questa è custodita nel segreto del Padre creatore che ci ha dato questa nostra terra come inizio della via di santità (cfr. Par. XXI, 93ss); ma la gioia dell'operare nelle costellazioni rende non solo più immediata l'intelligenza delle scelte, ma più sicura e gioiosa, nella solidarietà spirituale, la fedeltà e la dedizione totale al compito dato.
Molte volte si è detto che il Paradiso è statico e privo di plasticità poetica; ma non vi è in realtà alcuna staticità; al contrario, tutte le volte che un'anima può compiere un atto di carità nei confronti di Dante, viene raggiunta da una nuova luce che l'attraversa e che la rende più splendente; mai una volta Dante dice che questa luminosità si attenui dopo l'atto di carità. Dante svela una prospettiva estremamente ed altamente dinamica, benché ciò avvenga in una forma di luce che non ha rapporto con l'immediatezza tutta terrena del linguaggio delle passioni dell'inferno o delle attese del purgatorio.
Il terminus ad quem dell'ascesa al paradiso è costituita dal volto di Cristo: il Volto Santo appare all'interno del simbolo della circuminsessio trinitaria dato nei «tre giri / di tre colori e d'una contenenza» (Par. XXXIII, 116-117). Dante ha attraversato l'inferno, ha portato a compimento l'itinerario di purificazione del purgatorio, ha attraversato i cieli accettando di divenire sempre più trasparente e preparato a sostenere l'intensità della luce, ma non presume di sé: non intende volgersi al Cristo con le proprie forze; si lascia attrarre, piuttosto, da quella vista: «Io credo, per l'acume ch'io soffersi / del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito / se li occhi miei da lui fossero aversi» (Par. XXXIII, 76-78). Il raggio «dell'alta luce che da sé è vera» (Par . XXXIII, 54) sostiene Dante: è la grazia di Dio che consente di desiderare Dio. L'apparire del volto del Cristo conduce Dante alla più forte ed intensa esperienza di luce: un lampo di tale, insostenibile intensità che mette fine al poema. Il fiat lux (cfr. Gen 1,3) sembra ritornare come terminus ad quem di tutta l'ascesa di Dante. In quella luce è la nostra origine; a quella luce dobbiamo tornare su una via di ardenti opere e splendenti verità, in una operosa contemplazione che è lasciarsi trasformare, divenire più puri, cioè più intensamente capaci di amare.
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