L'uomo nell'era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale

Arnold Gehlen è uno dei più importanti sociologi del Novecento. Laureatosi nel 1934 in filosofia all’Università di Colonia, dopo la guerra fu professore ordinario a Lipsia e Königsberg. A Vienna diresse l’Istituto di psicologia. Insegnò sociologia all’Università di Speyer e di Aachen e divenne in seguito membro della Akademie der Wissenschaften di Vienna e dell’Institut International de Sociologie di Roma. Tra le sue opere più importanti abbiamo: Der Mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt (1962), Antropologiche Forschung (1963) e Urmensch and Spatkultur (1964). L’uomo nell’era della tecnica è un saggio di psicologia sociale che richiamandosi ad altre branche del sapere umano (fisica, matematica, strutturalismo, cibernetica ecc) e rifacendosi ad esperienze di altri studiosi (Spengler, Toynbee, Ortega y Gasset e Max Scheler) traccia una trama di interdipendenze tra mondo della techne e mondo organico. Ghelen studia lo sviluppo antropologico e culturale attraverso la storia e i progressi della tecnica: vuole dimostrare che mentre l’uomo del passato aveva con la natura un tipo di rapporto biologico, l’uomo contemporaneo invece si è trasformato in un ente strettamente connesso al mondo della tecnica: anche gli stati affettivi sono meccanicistiche riproduzioni di schemi tecnici “gusci di emozioni”. Mentre l’uomo antico maneggiava le proprie tecniche essendone cosciente, l’uomo moderno invece viene maneggiato da queste tecniche senza esserne cosciente. Gehlen influenzato dalle correnti di critica sociale (Scuola di Francoforte) ed esistenzialista (Heidegger) studia il problema della tecnica correlato allo sviluppo antropologico e sociologico dell’uomo, ma ne rovescia l’interpretazione critica tradizionale: «l’uomo non si sarebbe salvato senza la tecnica»: un uomo si concepisce come naturalmente “tecnico”, o meglio naturalmente destinato a diventare tecnico. L’uomo è un essere vivente organicamente carente rispetto agli altri: «L’antropologia moderna ha dimostrato che mancando di organi e di istinti specializzati, l’uomo non è conformato per un ambiente naturale, peculiare della sua specie, e di conseguenza non ha altra risorsa che trasformare con la sua intelligenza qualsivoglia stato di cose da lui incontrato nella natura. Povero di apparato sensoriale, privo di armi, nudo embrionale in tutto il suo habitus, malsicuro nei suoi istinti, egli è l’essere che dipende essenzialmente dall’azione». La riflessione antropologica di Ghelen porta a concepire l’uomo come incompiuto e dunque destinato ontogeneticamente ad essere “progetto di sé stesso”: questo destino ripaga tutte le sue carenze organiche: il destino di poter costruire una sua seconda “natura” o “mondo culturale” peculiare e unico nella sua specie. L’uomo (secondo una reminiscenza rinascimentale – vedi Bruno o Campanella) è stato creato da Dio con un’intelligenza essenzialmente tecnica, perché possa riguadagnare la sua superiorità sugli altri essere viventi. Solo l’uomo, proprio attraverso le sue capacità tecniche può esercitare un atto di volontà e libertà sulle necessità della natura. È in forza di questa libertà che l’uomo trasforma il mondo naturale, diventando homo technologicus o homo faber liberandosi dal regno della pura necessità. Gehlen a differenza delle filosofie apocalittiche antitecnologiche, esalta la tecnica come luogo di salvezza per l’uomo: quello che si deve combattere è la massificazione della società nell’era industriale: l’individuo viene sacrificato sull’altare della razionalità sociale: serve un nuovo soggettivismo: l’affermazione dell’uomo sulla massa, l’emergere dell’individuo nella collettività.